Di quale realtà fisica e politica si parla esattamente quando si menziona la “Repubblica di Cina”? Sebbene le risposte a questa domanda possano essere differenti in relazione all’angolatura politica con la quale si affronta l’argomento, tenterò di dare ordine alle definizioni che si addensano attorno a questa realtà, cercando di fare emergere quella condivisa dalla maggioranza dei taiwanesi1.
La necessità di fare chiarezza sulla Repubblica di Cina è emersa in seguito ad una mia esperienza personale. Il mio primo incontro con Taiwan avviene infatti dopo alcuni anni di studi universitari di carattere storico-antropologico a connotazione sinologica. La sinologia per come viene definita da uno dei suoi esponenti più illustri, qual è Lionello Lanciotti, è una disciplina che coinvolge «l’area di civiltà cinese» nell’accezione più ampia del termine, comprensiva di realtà politicamente liminali, finanche nettamente distinte dalla Repubblica Popolare Cinese (Rpc), quali Hong Kong, Macau e Taiwan2. Da tale definizione, si evince come l’accademia italiana fosse meno focalizzata sulle differenziazioni politiche, quanto più tesa a enfatizzare i trait d’union tra l’odierna Cina e le realtà ad essa storicamente, linguisticamente, territorialmente e politicamente affini.
La preponderanza della Repubblica Popolare Cinese (Rpc) all’interno del complesso degli studi sinologici italiani è una tendenza storiografica che si conferma nel tempo fino ad oggi, confermata anche dall’assenza di associazioni di studio votate all’approfondimento delle summenzionate realtà fisicamente ed economicamente “minori”. Queste sono ridimensionate al punto da essere assimilate alla sfera d’influenza della Cina popolare: è questo anche il caso di Taiwan. Società di studio spiccatamente taiwanesi sono assenti in Italia e presenti, in area europea, solamente in Francia e Regno Unito3. Tale assenza tuttavia non è correlata solamente alla portata geo-economica minore di tale realtà, ma ha a che vedere soprattutto con ragioni di natura storico-politica che affondano le proprie radici nelle relazioni tra l’isola e la vicina Cina continentale 大陆 (talu) – come la Rpc viene definita dai taiwanesi. Tale questione è notevolmente complessa, al punto da mettere in discussione persino l’indipendenza de facto della Repubblica di Cina.
Sebbene avessi studiato il recente passato della Cina e dell’Asia sui manuali di storia, non ero stata in grado di mettere a fuoco la complessità delle questioni diplomatiche tra i due Paesi prima della mia “esperienza sul campo”. Il mio bagaglio conoscitivo mi spingeva a considerare l’isola taiwanese come una provincia vagamente “semi-indipendente” dalla Repubblica Popolare Cinese e dunque dalla conformazione socio-politico-economica riconducibile a quella del resto del paese. Tuttavia, all’indomani del mio periodo di scambio presso l’Università Nazionale di Taiwan 國立臺灣大學 (Kuoli T’aiwan tahsueh)4 avvenuto nella prima metà del 2018, ho incontrato una realtà che della Cina popolare è, sì, per molti aspetti riflesso ma anche alterità: quella della Repubblica di Cina (Rdc) 中華民國 (Chunghua Minkuo). Tale denominazione ufficiale è intercambiabile, quand’anche accostata al ben più famoso corrispondente linguistico con cui tale territorio è conosciuto: Taiwan. Tale dato è confermato anche dai canali governativi ufficiali, come il sito del Ministero per gli Affari Esteri dell’isola che titola «Republic of China (Taiwan)»5.
La Rdc è un paese che consta di una popolazione di oltre ventitré milioni e mezzo di abitanti, distribuiti su un’area di 36.197 chilometri quadrati, comprensiva, oltre che dell’omonima isola principale, anche delle isole Penghu (anche conosciute come Pescadores), Kinmen e Matsu, nonché di numerose altre isole minori. Il territorio della Repubblica è diviso amministrativamente in sei municipalità speciali, tredici contee e tre municipalità autonome; politicamente l’isola è una repubblica presidenziale monocamerale, il cui governo si suddivide in cinque uffici, o yuan, dalle differenti competenze6. Dunque, di fatto, Taiwan è un’entità statale a sé stante. Nonostante ciò, la definizione dell’isola taiwanese come entità autonoma non è indubbia e manca di comune riconoscimento da parte della comunità internazionale. Tale questione si lega a motivazioni di carattere geopolitico internazionale che hanno le loro radici nella storia di questa area geografica. Ad oggi, il dibattito – ancora accesissimo – circa la sovranità dell’isola si lega a doppio filo con l’espansione della Rpc sullo scacchiere geopolitico mondiale.
1. Taiwan: lineamenti storico-antropologici di lunga durata
Prescindendo dalla politica internazionale, quali sono le origini della popolazione taiwanese e del conflitto circa il territorio su cui si stanzia? Prendendo spunto da un precetto dell’etica confuciana, sarà utile partire da un processo di rettificazione dei nomi al fine di fornire una risposta storicamente articolata a tale quesito.
L’isola di Taiwan è anche conosciuta col nome di Formosa, altresì “isola bella”, così denominata dai portoghesi in ragione della sua rigogliosa e lussureggiante vegetazione. Volgeva la fine del XVI secolo e il Portogallo fu il primo tra i colonizzatori europei a sbarcare sul litorale orientale Taiwanese e insediarvisi, presto sostituito dall’Olanda. Tale evento segnò l’inizio della storia di Taiwan agli occhi dell’Occidente del mondo, al punto che nei libri di storia è preso a cesura d’inizio della storia moderna dell’isola. L’appellativo Taiwan invece, di probabile origine aborigena, era già utilizzato nei documenti olandesi d’inizio XVII secolo, in riferimento all’odierna città di Tainan, situata sulla costa centro orientale dell’isola, nella cui zona si collocarono i primi insediamenti occidentali7. Il termine, tuttavia, ha origini più antiche, che alcuni rintracciano all’interno di scritti retrodatati fino al II sec e.v.
La vita sull’isola si dava da molto prima della sua comparsa su fonti scritte, come afferma la storica taiwanese Wan-yao Chou, essa era «nota ai suoi vicini da lungo tempo»8. Infatti, in tempi remoti l’isola era collegata al resto del continente asiatico tramite una lingua di terra che permase fino all’innalzamento delle acque successivo all’ultima era glaciale, tra 10.000 e 18.000 anni fa. Il corridoio acquatico che si formò è conosciuto come stretto di Taiwan e segna la linea di demarcazione tra il Mar Cinese Orientale e Meridionale. Le più antiche tra le popolazioni abitanti il territorio hanno origine già tra i 30.000 e i 50.000 anni fa e si considerano generalmente correlate alla cultura paleolitica della Cina continentale9. Tuttavia, le culture ancestrali di diversi gruppi indigeni taiwanesi contemporanei sono generalmente fatte risalire alle etnie che vissero durante l’età del ferro. È in questo periodo, attorno al 400 e.v., che anche i vicini cinesi di etnia han cominciarono ad arrivare sull’isola e ad intrattenere relazioni coi suoi abitanti.
Tali relazioni si fecero più fitte con l’arrivo delle potenze occidentali e l’allargamento della sfera di interessi geopolitici nazionali in termini sempre più globali; in particolare, successivamente alla sconfitta della Compagnia delle Indie Orientali da parte dell’esercito di Cheng Ch’eng-kung – o Koxinga – nel 1662. Egli attuò un tentativo di restaurazione della dinastia Ming sul territorio dell’isola successivamente alla disfatta subita sul continente per mano dell’etnia mancese Ch’ing. Tale tentativo durò poco meno di vent’anni, dal 1683 infatti l’isola ricadde sotto il dominio della dinastia Ch’ing e vide crescere esponenzialmente il fenomeno migratorio di continentali d’etnia han. Tale popolazione arrivò a contare per 2,9 milioni all’inizio del secolo successivo, a fronte di una popolazione di 113.000 aborigeni10.
L’isola rimase sotto il controllo cinese fino al 1895, anno in cui l’impero d’etnia mancese ne perse la sovranità in favore del Giappone come stabilito dal trattato di Shimonoseki, atto conclusivo della Prima guerra sino-giapponese. L’impero nipponico amministrò l’isola come sua colonia fino al 1945, anno della riconquista da parte della Cina continentale, questa volta, nelle vesti politiche di Repubblica di Cina. Il breve quadro storico presentato, oltre ai cambi di denominazioni amministrative, sottende processi politico-amministrativi interni a cui fanno capo importanti fenomeni di inculturazione delle popolazioni che sul territorio dell’isola erano stanziate da parte di quelle politicamente al potere; nonché fenomeni di acculturazione tra quest’ultime e i gruppi etnici migranti giunti sull’isola. Nello specifico, si tratta delle popolazioni hoklo e hakka durante il periodo imperiale cinese, giapponesi durante il periodo coloniale giapponese e han successivamente al 194511. Tali popolazioni convissero in varie forme e misure con quelle indigene originarie dell’isola. In sintesi, il pluralismo etnico, seppur suscettibile di indubbie variazioni in base al periodo storico cui si fa riferimento, è un tratto che caratterizza la storia moderna e contemporanea dell’isola. Ad oggi, Taiwan si compone per il 70% di popolazioni hoklo, mentre un ulteriore 25% è formato da hakka e cinesi han; le 16 minoranze etniche riconosciute rappresentano solamente il 2,3% della popolazione12.
2. Le origini storico-politiche della Repubblica di Cina
La fondazione della Repubblica di Cina come sistema politico risale al 1912. La novella repubblica fioriva dalle ceneri dell’ultra-millenaria tradizione imperiale cinese e politicamente, per buona parte, fu frutto della volontà della nuova intelligentsia cinese cosmopolita13. L’anno successivo alla caduta dell’Impero, fu fondato e andò al potere il partito che vi rimase formalmente fino al 1949: il Partito nazionalista cinese 國民黨 (kuomindang). Originariamente, la Repubblica di Cina comprendeva all’incirca il territorio della Cina continentale, comprensivo dell’odierna Mongolia fino al 1912 ed escludente l’allora giapponese Taiwan.
Fu l’invio di truppe a fianco del contingente alleato durante la Seconda guerra mondiale che consentì alla repubblica, nel 1945, di riportare entro i propri confini l’isola. Gli anni Quaranta in Cina videro l’inesorabile avanzata del Fronte di liberazione e infine la vittoria comunista, che portò al concludersi della guerra civile cinese, durata oltre vent’anni. Lo sconfitto governo nazionalista fu costretto a battere in ritirata sul territorio taiwanese, già a partire dal 1947. Lì, infatti, il partito comunista non aveva avuto modo di radicarsi durante i precedenti cinquant’anni di dominio giapponese. Al momento della fuga nazionalista, sul territorio dell’isola la popolazione proveniente dal continente consisteva per lo più di contingenti di soldati e politici inviati allo scopo di riportare l’amministrazione locale sotto il controllo cinese14.
Le vicende che seguirono al 1949, anno di cesura della storia cinese e taiwanese, videro l’inizialmente debole establishment nazionalista riprendersi piuttosto agevolmente, grazie al supporto delle potenze internazionali, prima fra tutte quella statunitense. Questa rapida ripresa fu rispecchiata da un iniziale appoggio e riconoscimento di carattere internazionale della Repubblica di Cina come Free China15. Le “due Cine”, infatti, negli anni della Guerra fredda si fronteggiarono aspramente sul campo della politica internazionale. Se durante la prima metà degli anni Sessanta, la Repubblica di Cina era riconosciuta dalla maggior parte degli stati “occidentali”, dopo la metà della decade essa perse terreno in favore della controparte continentale. Infine, il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese da parte delle Nazioni Unite nel 1971 infierì il colpo di grazia alla già fragile posizione dell’isola16. Da quel momento infatti, i Paesi che riconoscono Taiwan come “vera” Cina sono andati diminuendo costantemente, rimanendo oggi solamente quindici, con le ultime due defezioni risalenti allo scorso settembre delle Isole Salomone e del Kiribati.
Di fatto, il conflitto tra le due sponde dello Stretto di Taiwan non si spense mai e, ad oggi, rimane irrisolto. Internamente, da entrambe le parti lo slogan era – e rimane nel caso della Rpc – liberare nello specifico, “la Cina dai comunisti” e “Taiwan dai nazionalisti”. Questo conflitto internazionale ha dato luogo a pesanti conseguenze intra-nazionali, rispettivamente il terrore rosso e il terrore bianco, che costituiscono ferite ancora aperte per le popolazioni dei due Paesi.
3. Il pluriliguismo taiwanese tra migrazioni e sopravvivenze
La lingua ufficiale della Repubblica di Cina è la lingua cinese nella sua variante tradizionale 繁体字 (fant’itzu) che utilizza cioè i caratteri preesistenti al processo di semplificazione attuato nella Cina comunista. Il processo che portò alla capillare diffusione della lingua cinese fu tutt’altro che lineare e si lega all’ultimo importante flusso di popolazione di etnia han sul territorio dell’isola. Successivamente al passaggio di Taiwan da colonia dell’impero nipponico, a sede dell’esule Repubblica di Cina, ebbe luogo il fenomeno migratorio di coloro che oggi sono conosciuti come 外省人 (waishengjen) o mainlanders17. Inizialmente inviati dall’establishment della Repubblica di Cina a “ri-sinizzare” l’isola “riconquistata”, il numero di costoro aumentò notevolmente in seguito alla sconfitta del regime di Chiang Kai-shek nel 1949. Essendo l’isola divenuta sede della Repubblica di Cina, l’intensità del processo di acculturazione forzata dei suoi abitanti crebbe notevolmente, creando non poche tensioni sociali; tra gli episodi più sanguinosi si ricorda quello del 28 febbraio 194718. Nel 1945 il contesto linguistico locale vedeva da un lato una ristretta borghesia che aveva nel giapponese la propria lingua di riferimento, dall’altro una popolazione che per quanto costretta all’utilizzo della lingua del governo colonizzatore, continuava a parlare nella propria quotidianità una pluralità di dialetti. Se il processo di nipponizzazione linguistica ebbe un forte impatto sulla popolazione locale, quello di sinizzazione ne ebbe per molti versi uno ancor maggiore, in relazione alla durezza dei metodi con cui fu posto in atto e all’ampiezza della popolazione coinvolta. Il processo di acculturazione forzata attuato durante il lungo periodo della legge marziale (1949-1986), arrivò infatti a coinvolgere la pressoché totalità degli abitanti dell’isola. Durante questo periodo i dialetti vennero vietati e il loro uso punito nelle scuole19.
Solo con la fine della legge marziale e l’avvio del processo di democratizzazione dell’isola sono state riportate alla luce le istanze delle minoranze etniche e linguistiche ivi presenti. La lingua più diffusa tra quelle delle minoranze è costituita dai dialetti del gruppo min meridionale 閩南話 (minnanhua), parlati dal 73% della popolazione taiwanese. Per la sua ampia diffusione questa lingua è anche detta taiyu, ovvero “lingua di Taiwan”, ma viene indicata anche coi termini holo/hoklo e hokkien taiwanese – dove hokkien in lingua min meridionale indica la regione cinese del Fujian. La seconda minoranza linguistica per diffusione è quella hakka 客家話 (k’ochiahua), dialetto parlato dal 12% della popolazione totale e dal 60% degli abitanti della zona nord-occidentale dell’isola. All’origine della diffusione dei dialetti min meridionale e hakka v’è una migrazione dalle odierne regioni di Guangdong e Fujian, avvenuta durante il periodo in cui Taiwan era uno Stato vassallo dell’Impero cinese Ch’ing 20.
Oltre a questi due dialetti, coesistono oggi anche le 12 lingue ufficialmente riconosciute delle minoranze etniche d’origine austronesiana. Queste costituiscono le lingue più antiche dell’isola, e sono correntemente parlate dalle popolazioni aborigene della costa orientale e dell’entroterra taiwanese. La sopravvivenza di queste lingue fu fortemente minacciata dalle politiche di nazionalizzazione linguistica sia giapponese che cinese, sotto le quali dovettero essere praticate in condizione di clandestinità, per tornare a riaffermarsi in seguito al recente processo di democratizzazione. Solamente nel 1993, infatti, il governo fece ammenda per le proprie politiche di assimilazione linguistica segnalando un’apertura verso la multiculturalità, che venne mantenuta negli anni successivi portando peraltro, nel 1999, alla reintegrazione dei dialetti autoctoni nei curriculum scolastici delle popolazioni aborigene.
Merita inoltre una menzione la più recente influenza linguistica relativa alla lingua inglese, in particolare nella sua variante statunitense. Questa influenza, correlata globalmente all’affermarsi dell’inglese come lingua franca, è stata incentivata in contesto taiwanese fin dagli anni Sessanta in ragione delle intense relazioni tra l’isola e il suo più grande partner politico ed economico, gli Stati Uniti. Infatti, i piani di aiuto che hanno risollevato l’economia taiwanese negli anni Sessanta, hanno comportato parimenti un enorme aumento degli scambi diplomatici e accademici tra i due Paesi. Molti taiwanesi si trasferirono oltreoceano con le proprie famiglie tra gli anni Sessanta e Settata, ma si registra anche una migrazione di ritorno nel decennio successivo, quando l’economia taiwanese raggiunse un discreto grado di sviluppo21.
Dagli anni Novanta in particolare, l’apprendimento della lingua inglese è stato incentivato tramite l’avviamento di piani ad hoc da parte del Ministero dell’Educazione taiwanese il quale, soprattutto a partire dal 1998 con l’Education reform action program, ha implementato la diffusione di questa lingua, soprattutto a livello scolastico. Lo sforzo educativo di queste politiche ha portato, in parallelo, al fiorire dell’iniziativa privata in termini di scuole di inglese e 補習班 (puhsipan) doposcuola incentrati su questa lingua. Di fatto, si rileva che queste politiche linguistiche per come sono strutturate vanno creando un divario sociale all’interno della popolazione22.
4. Etnia e identità nelle relazioni politiche cross-strait
In che misura è Taiwan cinese e in che misura non lo è? Una tra i più famosi studiosi che ha tentato di rispondere a tale domanda è Melissa J. Brown23. L’antropologa, nella sua opera dedicata a questo tema, pone in risalto il peso delle forze sociopolitiche nell’affermazione di un’identità propriamente taiwanese, reputate più impattanti rispetto ad altre caratteristiche più prettamente “culturali”. Brown argomenta la sua tesi confrontando la popolazione taiwanese con un gruppo etnico della Cina continentale storicamente e politicamente affine, quello dei Tujia della regione dello Hubei. La studiosa pone a confronto i recenti standard culturali di autorappresentazione della popolazione taiwanese e quelli individuati come propri della Repubblica Popolare Cinese durante il periodo della rivoluzione culturale. Il quadro emerso dal confronto rivela che i fattori caratterizzanti l’individualità dei taiwanesi (lingua, abitudini alimentari, credenze, organizzazione sociale) sono meno dissimili dallo standard comunista di quanto non fossero quelli Tujia24. Ne risulta che l’autorappresentazione della popolazione taiwanese spicca per il suo alto grado di sinizzazione. Tale dato non sorprende alla luce della considerazione storica dell’autoproclamazione nazionalista dell’isola come vera Cina.
Ben consapevole della natura politica di tale conflitto, Brown giunge alla conclusione che le retoriche identitarie di Taiwan e della Rpc sono dotate di una coerenza interna rispetto agli obiettivi dei due Paesi. Questa teoria è supportata dai risultati dell’analisi di alcuni strumenti politici utilizzati dai governi in relazione al processo di co-costruzione identitaria nazionale. Infatti, in linea con un modello politico già rintracciabile all’interno di altri conflitti a carattere territoriale – tra i tanti, si pensi a quello circa i territori delle odierne Israele e Palestina –, anche le due Cine hanno strategicamente rintracciato nelle proprie remote origini il fulcro della legittimità storica delle proprie rivendicazioni politiche.
Nel caso della Repubblica Popolare Cinese, esempio delle politiche sovresposte è il Libro bianco su Taiwan del 2000 in cui si conclama l’esistenza della nazione cinese da oltre cinquemila anni – e dunque ben prima che il concetto stesso di nazione fosse coniato –, la quale è comprensiva del territorio taiwanese25. Anche le recenti rivendicazioni del presidente Xi Jinping circa la sovranità cinese dell’isola non lasciano dubbi sulla fermezza della posizione del Partito comunista. L’ultima dichiarazione di questo genere risale al 1° gennaio scorso, in occasione della commemorazione del 40° anniversario del Messaggio ai compatrioti taiwanesi26.
Parimenti la retorica di autorappresentazione della controparte Taiwanese fa appello ai propri antichi natali austronesiani. È questo il caso, cita Brown, del libro Island Nostalgia: The Epic of Taiwan, del taiwanese Liu Huixiong. A tale retorica hanno contribuito anche le rivendicazioni di carattere linguistico incentivate, oltre che dal processo di democratizzazione, anche dai risultati emersi nel campo della linguistica. In particolare, quelli di uno studio del 1984 rivelano l’alta probabilità che l’isola di Taiwan e zone limitrofe costituiscano il luogo di origine degli odierni ceppi linguistici austronesiani27.
In conclusione, le relazioni tra le “due Cine” non sono prive delle contraddizioni ed eterogeneità che caratterizzano qualsiasi discorso identitario. Inoltre, al di là delle relazioni cross-strait, i rapporti tra i due Paesi se calati sullo scacchiere globalizzato contemporaneo acquisiscono nuove sfumature in ragione della posizione che gli attori in gioco ricoprono su di esso. Non sorprende in tal senso che la crescita economica della Repubblica Popolare Cinese, conseguente alle riforme di apertura 改革開放 (kaikok’aifang) del 1979, sia andata di pari passo con il ridimensionamento del riconoscimento internazionale della Repubblica di Cina28. Pare tuttavia indubbio che quest’ultima si caratterizzi per una propria individualità che, al di là degli schieramenti politici, si può dire storicamente, etnicamente e culturalmente sedimentata.
Ad ultimo, mi preme sottolineare come nella ricostruzione del discorso identitario nazionale taiwanese non si può prescindere dal considerare anche le “nuove” voci del dibattito, ovvero quelle di coloro che sull’isola sono migrati più di recente, sulla spinta del miracolo dell’economia taiwanese 台灣奇蹟 (Taiwan ch’ichi)29 che ha rappresentato un’occasione di ascesa ed emancipazione sociale sia per alcune fasce della popolazione locale – come quella femminile30 –, sia per i “nuovi taiwanesi”, ovvero la popolazione immigrata sull’isola negli ultimi decenni31.
Quest’ultima proviene prevalentemente dai vicini Paesi del Sud-Est asiatico, ma anche dalla stessa Repubblica Popolare Cinese: è questo ad esempio il caso delle mainland spouses32. Infatti, per quanto sottoposte a restrizioni correlate al timore d’inferenza cinese sulle politiche nazionali, relazioni di carattere socio-economico-culturale sono indubbiamente presenti tra le “due Cine”. In particolare, per le persone direttamente toccate da tali politiche limitative, il conflitto tra i due Paesi si concretizza in non poche problematiche tanto di carattere legale, che civico e morale. Questo tipo di circostanze è, ad ultimo, uno tra i molti esempi alla base della mancanza di rappresentatività, fulcro della crisi degli stati nazione nel contesto contemporaneo33.
Note
1 Nell’immagine di apertura, interno della libreria “公共冊所|The Libratory” di Taipei. Crediti: 劉維人 (Liu Weijen).
2 Lionello Lanciotti, Gli studi sinologici in Italia dal 1950 al 1952, in “Mondo Cinese”, 1994, n. 85. L’articolo è ripreso dalla conferenza tenuta il 17 aprile 1992 a Taipei, in occasione del Convegno internazionale sulla Storia della Sinologia Europea.
3 Con riferimento alla European Association of Taiwan Studies (https://www.eats-taiwan.eu/) e alla parigina French Taiwan Studies (http://frenchtaiwanstudies.org/) [consultati il 30/04/2020].
4 I caratteri cinesi qui utilizzati sono quelli tradizionali, lo standard utilizzato a Taiwan. Parimenti, il metodo di traslitterazione è il Wade-Giles, il più diffuso sull’isola, preferito in questa sede allo Hanyu Pinyin, standard di trascrizione nella RPC nonché metodo largamente diffuso negli studi sinologici. Per un approfondimento sulla situazione linguistica Taiwanese cfr. Henning Klöter, Re-writing language in Taiwan, in Fang-long Shih, Stuart Thompson, Paul-François Tremlett (a cura di), Re-Writing Culture in Taiwan, London, Routledge, 2009, pp. 102-122 e Henning Klöter, Language Policy in the KMT and DPP eras, in “China Perspectives”, 2004, n. 56, 1-12.
5 Ministry of Foreign Affairs 2019, https://www.mofa.gov.tw/ [consultato il 30/04/2020].
6 https://www.taiwan.gov.tw/content_4.php [consultato il 30/04/2020].
7 Wan-yao Chou, A New Illustrated History of Taiwan, Taipei, SMC Publishing Inc, 2015, p. 54.
8 Ivi, p. 49.
9 Ivi, pp. 19-21.
10 Ivi, pp. 68-70.
11 Per un approfondimento sui differenti periodi storici si veda Gunter Schubert (a cura di), Routledge Handbook of Contemporary Taiwan, London, New York, Routledge, 2016, in particolare i capitoli di Ann Heylen, Taiwan in late Ming and Qing China, pp. 7-21; Wan-yao Chou, Taiwan under Japanese rule (1895-1945), pp. 22-35 e Thomas B. Gold, Retrocession and authoritarian KMT rule (1945-1986), pp. 36-50.
12 Fonte: https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/tw.html [consultato il 05/05/2020]. Oltre a quelle ufficiali, sono presenti anche altre minoranze etniche ad oggi non riconosciute dal governo. Per una ricostruzione del dibattito sull’identità etnica delle minoranze e sulla taiwanizzazione della popolazione locale cfr. Jolan Hsieh, Collective Rights of Indigenous Peoples: Identity-Based Movement of Plain Indigenous in Taiwan, London, New York, Routledge, 2006; Chun-Chieh Chi, Indigenous movements and multicultural Taiwan, in Schubert (a cura di), Routledge Handbook of Contemporary Taiwan, cit., pp. 268-279 e Jean-François Dupré, Culture Politics and Linguistic Recognition in Taiwan: Ethnicity, National Identity, and the Party System, London, New York, Routledge, 2017.
13 Si veda Prasejit Duara, Rescuing History from the Nation, Londra, University of Chicago Press, 1996, per un approfondimento sul tema.
14 Si vedano Chou, A New Illustrated History of Taiwan, cit., pp. 303-7; John A.G. Roberts, Storia della Cina, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 326-334; Guido Samarani, La Cina del Novecento, Torino, Einaudi, 2014, pp. 179-184.
15 Si veda il servizio giornalistico prodotto dalla statunitense Universal alla fine degli anni Cinquanta, cfr. Universal-International News, Free China. 10 years on Formosa. https://www.youtube.com/watch?v=mBbhwByv5kc [consultato il 05/05/2020].
16 Murray A. Rubinstein, Political Taiwanzation and Pragmatic Diplomacy: The Eras of Chiang Ching-kuo and Lee Teng-hui, 1971-1994, in Murray A. Rubinstein, Taiwan: A New History, Armonk, London, M.E. Sharpe, 1999, pp. 437-439.
17 Per un approfondimento sul tema cfr. Kuei-fen Chiu, Dafydd Fell, Lin Ping, Migration to and from Taiwan: identities, politics and belonging, in Kuei-fen Chiu, Dafydd Fell, Lin Ping (a cura di), Migration to and from Taiwan, London, New York, Routledge, 2014, pp. 1-11 e Pei-Chia Lan, Migrant Women’s Bodies as Boundary Markers: Reproductive Crisis and Sexual Control in the Ethnic Frontiers of Taiwan, in “Signs: Journal of Women in Culture and Society”, 2008, 33, n. 4, pp. 833-861: 836.
18 L’episodio rimasto in sordina durante il periodo della legge marziale è riuscito a trovare spazio nella scena pubblica solamente a seguito del processo di democratizzazione dell’isola. Si veda il sito del museo dedicato a questo episodio chiave della storia taiwanese contemporanea https://www.228.org.tw/ [consultato il 02/05/2020].
19 Cfr. Feng-Fu Tsao, The Language Planning Situation in Taiwan, in “Journal of Multilingual and Multicultural Development”, 1999, 20, n. 4-5, pp. 328-375.
20 Per i dati cfr. Klöter, Language Policy in the KMT and DPP eras, cit., pp. 1-2.
21 Sulle relazioni Stati Uniti-Taiwan si veda Cheng-Yi Lin, Taiwan-US security relations, in Schubert (a cura di), Routledge Handbook of Contemporary Taiwan, cit., pp. 482-498. Sul tema delle migrazioni cfr. Chih-ming Wang, Transpacific Articulations: Student Migration and the Remaking of Asian America, Honolulu, University of Hawai’i Press, 2013.
22 Cfr. Jackie Chang, Ideologies of English teaching and learning in Taiwan, University of Sidney, 2004, pp. 88-106 e Mark F. Seilhamer, Gender, Neoliberalism and Distinction through Linguistic Capital: Taiwanese Narratives of Struggle and Strategy, Blue Ridge Summit, Multilingual Matters, 2019.
23 Melissa J. Brown, Is Taiwan Chinese?: The Impact of Culture, Power, and Migration on Changing Identities, Berkeley, University of California Press, 2004.
24 Ivi, pp. 166-210.
25 Ivi, p. 242.
26 Il Libro bianco è stato steso nel dicembre 1978 durante la quinta sessione plenaria del comitato permanente del V congresso nazionale del popolo; i suoi contenuti sono stati proclamati in maniera solenne dal presidente Mao il successivo il 1° gennaio 1979. Per la traduzione inglese del discorso cfr. http://eng.taiwan.cn/speeches_remarks_documents_on_the_taiwan_question/leaders_speeches_remarks/maozedong/201304/t20130425_4130394.htm [consultato il 04/05/2020].
27 Robert Blust, The Austronesian Homeland: A Linguistic Perspective, in “Asian Perspectives”, 1984, n. 26, pp. 45-67.
28 Tra i più recenti episodi che hanno fatto scalpore si veda il servizio andato in onda lo scorso 28 marzo all’interno del programma The Pulse, cfr. https://news.rthk.hk/rthk/en/component/k2/1518442-20200402.htm [consultato il 30/04/2020].
29 Cfr. Thomas B. Gold, State and Society in the Taiwan Miracle, New York, M.E. Sharpe, 1986 e Gold, Retrocession and authoritarian KMT rule (1945-1986), in Schubert (a cura di), Routledge Handbook of Contemporary Taiwan, cit., pp. 36-50.
30 Cfr. Anru Lee, In the Name of Harmony and Prosperity: Labor and Gender Politics in Taiwan’s Economic Restructuring, Albany, State University of New York Press, 2004.
31 Cfr. Dafydd Fell, Migration through the lens of political advertising: how Taiwanese parties discuss migration, in Chiu, Fell, Ping (a cura di), Migration to and from Taiwan, cit., pp. 125-134, e Lan, Migrant Women’s Bodies as Boundary Markers, cit., p. 837.
32 Cfr. Kuang-Hui Cheng, Ya-Hui Luo, Political socialization in domestic families and families with mainland spouses in Taiwan, in Chiu, Fell, Ping (a cura di), Migration to and from Taiwan, cit., pp. 191-204.
33 Si vedano tra gli altri Judith Butler, Gayatri C. Spivak, Che fine ha fatto lo stato-nazione?, Roma, Meltemi, 2009.