Libertà e controllo nell’era digitale del post-Coronavirus. Considerazioni attuali su “Il Capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff

A fine 2019 la LUISS University Press ha tradotto e pubblicato in Italia la monumentale opera della studiosa dell’Harvard Business School Shoshana Zuboff dal significativo titolo Il Capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri. Un libro ovviamente attualissimo nell’era che stiamo vivendo caratterizzata da uno sviluppo senza precedenti della tecnologia. Uno sviluppo che, non si può nasconderlo né minimizzarlo, ci rende la vita più semplice ma che porta con sé anche una minaccia per tutti: questa grande architettura digitale influisce sul nostro stesso comportamento per fare gli interessi di pochissimi. Questi ultimi dalla compravendita dei nostri dati personali e delle predizioni sui nostri comportamenti traggono enormi ricchezze e un potere sconfinato.

Il libro di più di cinquecento pagine si apre con ben otto definizioni di Capitalismo della sorveglianza via via sempre più sfumate verso un’accezione negativa dell’argomento, il che mostra subito in maniera chiara il punto di vista dell’autrice. La prima definizione è infatti questa: “Un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita”. È insomma qualcosa che sta diventando maggiormente chiaro anche al più sprovveduto utente della rete e degli smartphone. Ciò che noi facciamo navigando su internet e ciò che scriviamo e postiamo sui social network viene utilizzato per costruire un nostro profilo commerciale in grado di indirizzare le nostre scelte di consumatori. L’ottava e ultima è decisamente più negativa e senz’altro inquietante: “Un’espropriazione dei diritti umani fondamentali che proviene dall’alto: la sovversione della sovranità del popolo”. È diventata insomma una questione politica: la rete è il mezzo con il quale limitare la libertà del singolo cittadino come in un romanzo distopico di Bradbury o di Huxley.

Il libro di Zuboff si apre con una data che ben pochi ricordano ma che secondo l’autrice ha un significato importante: il 9 agosto del 2011. A distanza di migliaia di chilometri quel giorno si verificano tre eventi in grado di riassumere in sé i pericoli e i dubbi della società di fronte alla nuova civiltà dell’informazione. Il primo evento è il sorpasso della Apple in termini di capitale ai danni della Exxon. Quasi un evento simbolico: la più grande delle sette sorelle del petrolio lascia il posto alla più avanzata tra le aziende della Silicon Valley, quella che, soprattutto grazie al suo fondatore e uomo immagine Steve Jobs, simboleggia da anni l’entrata in una nuova era del capitalismo industriale. Il secondo accadimento è apparentemente poco collegabile al primo ed è lo scoppio di una serie di violente rivolte per le strade di Londra causate da una fatale sparatoria con la polizia. Il legame sta nel fatto che i drammatici fatti di Londra simboleggiano perfettamente come un decennio di crescita digitale non sia riuscito a stemperare le grandi disparità che l’economia liberale aveva creato negli ultimi decenni. Insomma il sogno di un mondo più equo e accessibile, incarnato per molti proprio dal visionario imprenditore Steve Jobs, era caduto di fronte alle molte diseguaglianze sociali ancora in atto nel cosiddetto Primo mondo. Infine, il terzo evento ha una portata rivoluzionaria e simboleggia come di fronte all’inarrestabile forza dell’espansione digitale il cittadino abbia ancora un’arma per difendersi, ed è quella della Legge. Proprio il 9 agosto 2011 in Spagna i cittadini in causa con il gigante dei motori di ricerca Google vedono riconosciuto il loro diritto all’oblio. Da quel giorno i motori di ricerca non si possono opporre alla richiesta di un cittadino di cancellare dati personali sensibili, a meno che questo non faccia venire meno il diritto di cronaca. Il diritto all’oblio è stato successivamente sancito da una sentenza del maggio 2014 dalla Corte di Giustizia Europea andando così ad inserirsi nelle varie legislazioni nazionali dei 27 membri dell’Unione.

Il drammatico dilagare dell’epidemia di Coronavirus ha portato a nuove e più urgenti riflessioni sui rischi dovuti all’utilizzo della rete. Proprio quest’ultimo mezzo ci ha permesso di limitare i danni della pandemia facendoci continuare, pur se da casa, una vita normale. Milioni di persone hanno continuato a lavorare da casa in modalità smart working, migliaia di studenti hanno continuato a seguire le lezioni in modalità on-line, migliaia di consumatori hanno ricevuto a casa la spesa e i pasti tramite le più comuni applicazioni di recapito. La rete, già nostra importante alleata, è diventata un mezzo obbligatorio per ovviare ai problemi della quarantena. In pochi giorni il traffico internet è raddoppiato e anche gli utenti scarsamente attivi nella rete sono diventati utilizzatori comuni di applicazioni per le videoconferenze, di software per il lavoro condiviso o più semplicemente di programmi per la lettura di un quotidiano. Da un lato è stato coinvolto il versante lavorativo, dall’altro quello dello svago e del consumo. 

L’emergenza epidemiologica ha determinato quindi il ricorso massivo allo svolgimento delle attività lavorative fuori dai locali aziendali e prevalentemente nelle abitazioni. I decreti emergenziali che si sono succeduti in poco tempo hanno infatti indicato lo smart working come modalità da favorire in senso assoluto al fine di evitare spostamenti sul territorio e contatto tra le persone. Si è dovuto applicare in maniera sperimentale, su larga scala, una modalità di lavoro che in anni recenti era stata adottata spontaneamente da un numero crescente di aziende ed enti pubblici. A tal proposito in Italia nel 2017 era stata promulgata una legge che aveva dato un inquadramento normativo ad una realtà in crescita, ma che mai si sarebbe pensato avrebbe interessato nel primo semestre del 2020 un lavoratore su due. L’intervento legislativo di tre anni fa conteneva misure volte a favorire una maggiore flessibilità nell’organizzazione dei tempi e dei luoghi del lavoro subordinato: il cosiddetto smart working o nella definizione italiana lavoro agile. La legge ha regolamentato un fenomeno che nei fatti stava già prendendo piede nelle imprese multinazionali, definendo una cornice di regole per il corretto svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali dell’impresa e senza vincoli d’orario. L’utilizzo dello smart working che si è fatto nei mesi della crisi sanitaria differisce di molto con i principi del lavoro agile che dovrebbe costituire in realtà solo una parte dell’attività lavorativa da svolgersi in alternanza tra la sede dell’azienda e fuori. L’impossibilità di muoversi fuori dalle proprie abitazioni ha costretto tutti i lavoratori a reinventare lo smart working in forma sedentaria, in pratica generando una brutta copia del lavoro d’ufficio nelle stanze di casa. Il fatto che lo smart worker lavori sempre da casa avvicina la sua attività a quella del telelavoro, soluzione esistente da tempo ma decisamente meno flessibile in quanto legata a un vincolo di luogo e di orario. Questo tipo di lavoro permette in realtà di operare in qualunque luogo, purché muniti di un device con una connessione internet, e senza vincoli di orario in quanto legati a obiettivi di risultato. Così è stato fino a fine febbraio 2020 quando il numero di dipendenti coinvolti e le giornate lavorative svolte fuori ufficio raggiungevano in Italia circa il 20 per cento del totale.

Simile è stata l’evoluzione per il versante dello svago e del consumo: in alcuni casi si è manifestato con una crescita graduale dell’utilizzo di applicazioni già comunemente usate, in altri casi, come la vendita al dettaglio, l’epidemia ha accelerato l’espansione del commercio elettronico. Alcune delle più grandi catene di vendita al dettaglio stavano già dedicando risorse all’e-commerce per aumentare le loro vendite, l’arrivo del Covid-19 ha accelerato notevolmente il processo facendo investire in maniera più forte queste aziende per soddisfare le nuove esigenze dei clienti. Si pensi come i consumatori abbiano ad esempio iniziato ad acquistare maggiormente in categorie come l’abbigliamento in cui l’e-commerce costituiva soltanto una nicchia del mercato. Le aziende hanno così aumentato ancora di più il loro interesse verso il marketing on-line con lo scopo di acquisire sempre più informazioni sul comportamento dei consumatori.

Ci sono insomma molti motivi alla fine di questa quarantena per dare ragione a Zuboff sui rischi per la nostra libertà personale dovuti ad un crescente utilizzo dei mezzi digitali. Si è parlato anche molto delle app di tracciamento che dovrebbero aiutarci a evitare il contagio. I contrari hanno fatto notare come queste possono di fatto fungere da ulteriore forma di controllo sulle nostre vite. I favorevoli sostengono che in questo caso vi è un buon motivo per rinunciare a una parte della nostra libertà. Nei primi giorni di maggio molti quotidiani hanno riportato il parere di un hacker americano le cui parole sono davvero significative: “Ad essere onesti: se avete un cellulare, siete già monitorati comunque, compresi nei vostri movimenti e incontri con altri proprietari di cellulari. I telefoni cellulari sono macchine di sorveglianza. La polizia o l’Agenzia per la sicurezza nazionale possono rivolgersi all’operatore di telefonia mobile e otterranno queste informazioni, a condizione che ottengano gli opportuni permessi dai politici e dai tribunali. Non vedo come una app di tracciamento per il Coronavirus possa fare la differenza”. Parole che avevano lo scopo di tranquillizzarci ma che francamente hanno l’effetto opposto. È come dire che è inutile lottare per mantenere una libertà che a dire il vero abbiamo perso ormai da anni. 

Torniamo al libro di Zuboff che risulta sicuramente ancor più interessante alla luce dell’attuale situazione sanitaria. Le conclusioni del volume possono essere riassunte intorno a tre concetti principali. Il primo riguarda la natura stessa del capitalismo industriale anche precedentemente allo sviluppo dell’informatica. Secondo l’autrice non c’è da stupirsi che il nuovo capitalismo della sorveglianza sia arrivato a strutturare le nostre relazioni sociali. Questo è un elemento tipico del sistema industriale: un secolo fa i nuovi mezzi di produzione di massa avevano infatti costruito una società che li rispecchiava. Oggi il capitalismo della sorveglianza ci offre un nuovo modello nel quale rinunciamo alla nostra libertà in cambio di una conoscenza perfetta che però qualcun altro amministra per il proprio profitto.

Il secondo concetto è quello della consapevolezza. Abbiamo oggi i mezzi per difenderci da questo controllo? Non tutti ne sono dotati, anzi si direbbe ben pochi. Uno studio internazionale sulla disconnessione ha analizzato un campione di giovani utenti dei più noti social network chiedendo loro di passare 24 ore senza l’utilizzo di internet. I risultati sono stati chiari: l’improvvisa disconnessione degli studenti ha prodotto bisogni e stati di depressione e ansia tipici delle dipendenze clinicamente diagnosticate. Stando ai risultati della ricerca in ogni Paese la maggioranza dei soggetti ha ammesso di non poter sopportare un giorno di disconnessione. La loro angoscia derivava dal rendersi conto che quasi tutte le loro esigenze logistiche, comunicative e informative dipendevano da dispositivi connessi in rete.

Il terzo concetto sta nella Democrazia e nella strenua difesa che tutti dovremmo farne senza tentennamenti. Il pericolo maggiore non sta tanto nel fatto che l’economia digitale ci ha trasformati in consumatori controllabili dal mercato ma è quella che alcuni studiosi hanno chiamato “recessione democratica”: un indebolimento dell’amore per la democrazia anche in Paesi con un sistema democratico molto maturo. È proprio nella difesa del sistema democratico che possiamo limitare i danni del capitalismo della sorveglianza. Dittature come la Cina e nazioni a democrazia limitata come la Russia lo hanno capito e con l’arma della censura controllano da tempo i mezzi digitali, costruendo così una versione ancora più fosca del capitalismo della sorveglianza.  Nonostante ciò la conclusione del libro è ottimista e rimanda alla volontà stessa dei cittadini di lottare per la loro libertà. I decenni di ingiustizie del capitalismo ottocentesco e novecentesco finirono infatti grazie alla mobilitazione democratica delle masse per la difesa dei loro diritti e per l’introduzione di sistemi diffusi di Welfare. Lo stesso accadrà con il capitalismo della sorveglianza che ci sta insegnando il valore insostituibile delle nostre più grandi conquiste morali e politiche proprio perché minaccia di distruggerle.

 

Per approfondire:

  • Perché abbiamo bisogno di fidarci delle app di tracciamento (affidabili), spiegato da un hacker, in “Corriere.it”, 3 maggio 2020
  • Smart working, al lavoro da casa, Milano, I libri del Sole 24 Ore, 2020
  • Shoshana Zuboff, Il Capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Roma, LUISS University Press, 2019