“Assassin’s Creed Valhalla” e il problema della Storia come interpretazione (s)oggettiva

Il videogioco è oggi un mezzo di comunicazione sempre più rilevante non solo sotto il profilo ludico ed economico ma anche per quello culturale, soprattutto se si prendono in considerazione i prodotti a tema storico. Spesso, tuttavia, gli sviluppatori compiono operazioni che portano i loro titoli ad essere criticati e accusati, più o meno legittimamente, di fare un uso “strumentalizzato” o “violento” della Storia. Tralasciando in questa sede quel tipo di dibattito, è innegabile che il videogioco in quanto tale, per la sua pervasività transgenerazionale e per le sue dinamiche interne, racchiude in sé enormi potenzialità di sensibilizzazione pubblica sulle problematicità tipiche della ricerca storica, molto spesso percepita come distante dalla realtà e quindi inutile sin dai primi livelli di istruzione scolastica. Per tale motivo, oggi, un videogioco a tema storico non è classificabile come un mero prodotto di intrattenimento, poiché se la componente ludica continua a rivestire lo scopo primario, sia dalla parte degli sviluppatori che da quella dei giocatori, acquistano grande interesse anche la scelta dell’ambientazione, i contenuti istruttivi e/o didattici, la trasmissione di valori sociali e culturali, etc.

Dal 2007 l’azienda francese Ubisoft, sviluppatrice ed editrice di videogiochi, dedica la propria attenzione ad Assassin’s Creed, un franchise che oltre ai meri prodotti videoludici include romanzi, fumetti, cortometraggi, lungometraggi, film, action figures e merchandise di vario tipo e che in breve tempo si è imposto sul mercato come uno dei principali brand del settore. Il successo è stato chiaro sin dall’esordio del suo primo titolo, Assassin’s Creed. Il giocatore veste i panni di un barista qualunque, Desmond Miles, che nel 2012 viene catapultato a rivivere attivamente i ricordi del suo antenato Altaïr, membro della “Setta degli Assassini” all’epoca della Terza Crociata (1189-1192 d.C.). Ciò che ha reso l’avventura di gioco unica sin da subito è la sua ambientazione in un mondo storicizzato, ben circoscritto e facilmente individuabile, quindi accattivante per il pubblico. Data l’enorme fortuna, Ubisoft ha proseguito con il medesimo stile anche per i prodotti successivi catapultando di volta in volta i giocatori in epoche e luoghi diversi ma sempre significativi per la richiesta di storia dell’immaginario pubblico. Ci si trova così immersi in eventi simbolo come la guerra di indipendenza americana (Assassin’s Creed III, 2012), la rivoluzione francese (Assassin’s Creed Unity, 2014) o la rivoluzione industriale (Assassin’s Creed Syndicate, 2015), ma anche in epoche “mitiche” come quella egizia (Assassin’s Creed Origins, 2017), greco-romana (Assassin’s Creed Odissey, 2018) o piratesca (Assassin’s Creed IV Black Flag, 2013).

In poche parole, con una politica aziendale ben precisa, nell’arco di 14 anni Ubisoft ha dominato il mercato videoludico a tema storico con ben 10 titoli principali e 8 spin-off. Uno dei dati più significativi però è la nascita di un vero e proprio settore di ricerca storico che si occupa di analizzare questi prodotti valutandone l’impatto didattico sulle giovani generazioni, soggetti privilegiati di tale fruizione.

In questo articolo ci si occuperà nello specifico dell’ultimo titolo della saga, Assassin’s Creed Valhalla, uscito nel 2020 e foriero di cambiamenti rispetto alle politiche e alle dinamiche cui Ubisoft ha abituato nel tempo i fan della serie. Prima dell’annuncio ufficiale molti erano già gli spoiler sulla nuova epoca di ambientazione del gioco. Guardando infatti all’enorme successo riscontrato dalla serie tv Vikings, trasmessa a partire dal 2013, il mondo vichingo è stato sin da subito una probabilità quasi certa, avvalorata dall’alto indice di gradimento del pubblico. In una riproposizione parallela di trame e personaggi, Valhalla è ambientato nel IX secolo d.C. e segue le vicende di Eivor, un guerriero vichingo che alla guida del proprio clan ricerca nuove terre dove insediarsi per garantire la sopravvivenza del suo popolo. La missione è però ostacolata dalla strenua difesa di re Alfred del Wessex, che si oppone allo stanziamento vichingo e darà filo da torcere ai giocatori per progredire nell’avventura.

Un titolo di cambiamento si diceva. Valhalla infatti è il primo episodio della saga che permette di modificare in qualsiasi momento, attraverso un’apposita interfaccia, il sesso del proprio personaggio. Già nei titoli precedenti comparivano soggetti sia maschili che femminili, ma nella migliore delle ipotesi si poteva solamente scegliere all’inizio del gioco quale sesso attribuire al proprio assassino senza avere la possibilità poi di modificarlo. Tale possibilità è stata infatti introdotta solo a seguito di un accesso dibattito sorto in seno a critiche mosse a Ubisoft per scelte considerate maschiliste (per esempio in AC Syndicate e AC Odissey), giustificate in modo inopportuno dal dipartimento marketing con la convinzione che le protagoniste femminili non vendano quanto quelle maschili, e che sono costate il posto di lavoro al Chief Creative Officer Serge Hascoët. Già questo è di per sé un primo dato significativo verso una maggiore attenzione alla richiesta pubblica di agire in favore dell’integrazione sociale in tutte le sue componenti con un focus particolare sugli orientamenti di genere.

Se guardiamo però più nel dettaglio la trama è un altro dato ad attrarre l’attenzione: vale a dire l’inversione di prospettiva del binomio oppositivo Noi vs Loro. La storiografia di matrice culturale latina (vale a dire in primis Italia, Francia, Penisola Iberica), infatti, vuole che per tradizione si identifichino con Noi i soggetti più civili, gli inglesi del gioco, mentre si usi l’etichetta Loro per indicare in modo generico tutti coloro che non sono “uguali” alla rappresentazione che si è fatta di sé, ovvero i vichinghi. Stupisce dunque che un videogioco prodotto da un’azienda francese, e sviluppato dalla sezione distaccata a Montréal, sviluppi una trama in cui i ruoli si invertono e, omettendo la questione legata al più o meno elevato grado di civilizzazione, si tratteggino i vichinghi come i personaggi positivi della situazione. O meglio, più che positive, le azioni dei vichinghi sono comprensibili alla luce del fatto che sono dettate della necessità: per quel gruppo di barbari trovare un luogo dove insediarsi significa ricominciare una nuova vita dopo che la loro è stata stravolta in patria. Con un cambio di prospettiva rispetto a quello manualistico, il giocatore veste dunque i panni di un esule, che deve necessariamente ricorrere alla violenza perché nel luogo in cui giunge regna un sovrano, re Alfred, sordo ad ogni richiesta di integrazione pacifica. È sufficiente guardare al trailer di lancio: https://www.youtube.com/watch?v=QM6Gd8AlJBI. Mentre le immagini proiettano sullo schermo un rito vichingo e violente incursioni, una voce in sottofondo sentenzia:

Sono senza cuore. Selvaggi senza Dio. Massacrano e uccidono senza pietà. Devastano le terre d’Inghilterra, terre che non proteggeranno né ameranno mai. È arrivato il momento di parlare loro nell’unica lingua che sono in grado di comprendere: guerra!

A parlare è re Alfred, nel momento stesso in cui decreta l’inizio delle ostilità contro i vichinghi. La narrazione è perfettamente in linea con quella maturata sul conto di questi invasori nell’immaginario occidentale. Così come tradizionale sembrerebbe anche la loro rappresentazione: divinità e draghi scolpiti nel legno, riti con il sangue, abiti ricoperti di pelliccia, pettinature particolari con barbe e capelli lunghi, scudi tondi e variopinti, asce, etc.

Proseguendo in questa direzione ci si aspetterebbe che il giocatore rivesta il ruolo di Alfred nella sua missione di protezione della civile società inglese contro i brutali invasori e a tal proposito non è secondario sottolineare che Valhalla sia stato giudicato da più parti come il più cruento titolo della serie, con scene estremamente violente contro i propri nemici. Invece, ciò che accade è esattamente il contrario: il giocatore si trova ad essere il capo di quel gruppo di barbari che sconvolgono l’Inghilterra. Va precisato, tuttavia, che sono stati posti dei limiti strutturali al gioco da parte degli sviluppatori e tesi a contenere le azioni cruente concesse ai giocatori. La violenza fisica contro uomini armati è ammessa, ma nel caso in cui questa venga rivolta contro civili inermi si innesca un meccanismo interno al gioco che porta rapidamente al game over. Inoltre se da un lato è consentito incendiare senza problemi le abitazioni davanti agli occhi dei loro abitanti (ma non uccidere questi ultimi), è completamente taciuta la questione legata allo stupro, tratto stereotipato tipicamente associato alle incursioni barbariche.

Il fascino che il mondo vichingo esercita sul pubblico è talmente forte da spingere gli sviluppatori del gioco, ovviamente interessati alle vendite, a invertire i ruoli in quello che è a tutti gli effetti uno scontro di civiltà derivato dall’incomunicabilità verso l’integrazione. La presa di posizione contro quel Loro che spaventa nella vita reale, che fa ergere posizioni a difesa del Noi, in un videogioco viene meno e si tenta di esorcizzare il timore di tutti i giorni arrivando persino ad esserne la causa stessa.

Se da un lato i media bombardano l’opinione pubblica con notizie di azioni violente, molto spesso “inumane”, operate da soggetti che sono fisicamente diversi da Noi, parlano diverso da Noi, persino credono in una divinità diversa da Noi, dall’altro lato i videogiochi cavalcano l’onda della dinamica di attrazione-repulsione generata da tali processi. Ubisoft non fa eccezione e, contrariamente al suo passato costellato di titoli in rapida successione da un anno con l’altro, con Assassin’s Creed Valhalla ha preferito giocare la carta di nuove espansioni di gioco (DLC) per l’anno successivo all’uscita invece di limitare le potenzialità di un titolo così fortunato con un nuovo titolo. Non mutano però né le dinamiche di gioco né tantomeno il cambio di prospettiva. Una di queste espansioni è focalizzata infatti sul famoso assedio di Parigi dell’anno 885 d.C. (cosa che si ritrova puntualmente anche nella serie tv Vikings) e il pubblico di giocatori viene indotto a parteggiare per i vichinghi anziché per il più “civile” popolo parigino. Una scelta che si è rivelata vincente e che ha contribuito a mantenere alte le vendite per il secondo anno consecutivo.

La domanda che sorge spontanea è: su cosa si basa questo successo? La risposta è altrettanto immediata. Il nucleo centrale è composto da stereotipi e pregiudizi nei confronti dell’alterità. Con riferimento alle prime due parole, il Vocabolario Treccani on line1 riporta che:

  • uno stereotipo è un «modello convenzionale di atteggiamento, di discorso e sim.: ragionare per stereotipi. In partic., in psicologia, opinione precostituita, generalizzata e semplicistica, che non si fonda cioè sulla valutazione personale dei singoli casi ma si ripete meccanicamente, su persone o avvenimenti e situazioni (corrisponde al fr. cliché)».
  • un pregiudizio è una «idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore (è sinon., in questo sign., di preconcetto) […] Convinzione, credenza superstiziosa o comunque errata, senza fondamento».

Come si è detto, tali idealizzazioni non sono generiche, ma hanno un bersaglio preciso, l’altro da sé. Storicamente si è creata una catch-all word che viene usata per etichettare l’altro: barbaro (come barbari possono essere definiti i vichinghi di Valhalla). Ora, si parta dal presupposto che barbaro significa molte cose diverse a seconda sia del tempo che della cultura in cui viene usato. È necessario quindi chiedersi a che barbaro ci si riferisce e cosa ci si aspetta di vedere. Nelle risposte, i media (film, videogiochi, serie tv, giornali, telegiornali, comizi politici, ecc.) hanno un peso enorme nell’influenzare l’opinione pubblica. Gli ambiti e gli scopi sono i più diversi ma la scarsa attendibilità storica rimane una costante, sempre funzionale a mantenersi nell’alveo scavato dalla tradizione. Così, si hanno casi di politici che, come l’ex europarlamentare ed esponente della Lega Mario Borghezio, fanno leva sui sentimenti dei loro sostenitori rimarcando allo stesso tempo la discendenza da Celti e Longobardi e l’appartenenza alla fede cattolica in una guerra all’ultimo sangue.

Noi, noi che siamo Celti e Longobardi, non siamo merdaccia levantina o mediterranea. Noi, la Padania bianca e cristiana, bianca e cristiana, quelli di Lepanto, delle bandiere del cuore crociato, noi che non diventeremo mai islamici, noi seguaci di Bossi fino alla fine!2

Si incontrano giornalisti che richiamano la barbarie di un gesto compiuto pubblicamente da un immigrato in Italia ma che viene poi ridimensionato nella sua portata poiché prontamente smentito dalle autorità:

Un immigrato della Costa d’Avorio ha allestito un falò artigianale e ha arrostito un gatto sulla pubblica strada, a Campiglia Marittima, in Toscana. La notizia ha suscitato molti commenti e tanta amarezza. Un gesto barbaro, hanno detto in molti, e la parola è interessante, i barbari sono il simbolo dell’inciviltà (anche se non è detto che tutti lo fossero)3.

Più comprensibili, invece, sono le strumentalizzazioni che compaiono in serie tv come Vikings (Michael Hirst, 2013-2021), dove ricorrono scene molto simili a quelle viste nel trailer di AC Valhalla, come re Aella intento a discutere con i nobili del regno dopo la prima sconfitta contro Ragnar Lodbrok.

Re: Chi sono questi barbari, questi selvaggi? Perché sono venuti a tormentarci?
Vescovo: Sire, alcuni saggi dicono che questi uomini del nord sono stati inviati qui da Dio. Egli vuole punire la nostra gente per tutti i peccati e le trasgressioni. Ci siamo allontanati dal sentiero di giustizia che il Signore ci aveva indicato e ora Egli ci manda un conto terribile.
Nobile 1: Perdonami sire, ma se non fosse stato Dio a mandare questi uomini del nord a tormentarci?
Re: Allora chi sarebbe stato?
Nobile 1: Non potrebbe essere piuttosto opera del Diavolo? Il mio consiglio, sire, è che se siamo di fronte alle forze di Satana, dobbiamo resistere a tutti i costi. Anche a costo di mettere a rischio le nostre vite, se necessario. Con il diavolo non è possibile un accordo. Né ora né mai. Ricordatelo.
Nobile 2: Sire, mi permetti di parlare? Io, io veramente penso che questi pagani possano essere venuti qui per proprio conto. Non sono inviati né da Dio né dal Diavolo. Sono solo degli uomini selvaggi, interessati a saccheggiare e a devastare piuttosto che a questioni spirituali.
Re: Quindi qual è il tuo consiglio?
Nobile 2: Visto che sono venuti per avidità, offriamo loro abbastanza denaro, o qualsiasi altra cosa desiderino, così da farli andare via e lasciarci in pace4.

Così come altrettanto comprensibili sono le forzature cinematografiche, in film iconici come Attila Flagello di Dio (Castellano e Pipolo, 1982), dove Diego Abatantuono nei panni di un improbabile Attila parte dal Nord Italia per giungere a Roma e raderla al suolo non perché i romani hanno rapito le donne e distrutto il suo villaggio, ma poiché gli hanno rubato i cavalli.

Sbabbari! Uomini di inaudita ’iulenza, di inaudita ferocia, figli del dio Odino, io vi dico, vostro re, che questa volta, i romani, hanno tirato troppo la corda. E quindi io vi dico che chi la fa, l’aspetti! È chiaro? [Chiaro!] Sapete voi, qual’è, dei romani, la città, diciamo più grassottella, diciamo più preputente, la più grozza? [Roma!] Bravi, induinato! Romani, Roma, per forza, ci potevo anche arrivare da solo, ma volevo vedere se lo sapevate. Roma. E io vi dico, sbabbari, che noi Roma la raderemo al suolo! Noi Roma la metteremo a carne e pesce! Noi dove passeremo non crescerà più neanche un filo d’ebba! È chiaro? [Chiaro!] E allora, sbabbari, imo a Roma!5

Un caso a parte ricoprono invece i film d’animazione che, raccogliendosi nella gran parte dei casi attorno a nuclei morali, in toni favolistici possono contribuire ad alimentare la questione sulla distanza tra Noi e Loro, mettendo in luce grazie al continuo cambio di prospettiva quanto, seppur da posizioni diverse, il vero problema sia l’incapacità di dialogare. Si pensi, per fare un esempio su tutti, a Pocahontas, film Disney del 1995, e ai dialoghi della canzone Barbari presente nel film6.

Inglesi

 

Ma che ti aspetti mai

da questi pellerossa

la loro razza io cancellerò

e sarà grazie a noi

il mondo ci amerà

son parassiti e peggio ancor

 

Son barbari! Barbari!

Sono quasi bestie!

Barbari! Barbari!

Da cacciare via!

non sono come noi

negli occhi hanno le fiamme

quindi guerra si farà!

 

Son Barbari! Barbari!

Diavoli d’inferno!

e all’inferno torneran!

 

 

Indiani

 

Lo sapeva già

son demoni quei bianchi,

questa lezione a loro servirà!

Non ci sarà pietà

né tempo per pensar

A morte i visi pallidi!

 

Son Barbari! Barbari!

Neanche esseri umani!

Barbari! Barbari!

Devono bruciar!

Non sono come noi

non ci si può fidare

Voglion guerra e guerra sia!

 

Son Barbari! Barbari!

Questo sarà il primo!

Poi la Guerra scoppierà!

Ciò che sembra emergere, dunque, è un paradosso sociale. Da una parte la richiesta generalizzata di dialogo pacifico, multietnico, di rispetto per tutte le componenti che convivono nello stesso contesto. Dall’altra parte, al contrario, una volontà implicita di restare saldamente ancorati alle contrapposizioni tradizionali.

Compiendo un’operazione impropria ma volendo generalizzare, lo scontro nella piazza mediatica più largamente intesa si potrebbe ridurre alla domanda: chi sono i “buoni” e chi, invece, i “cattivi”? Prima di rispondere, sulla scorta di quanto proposto anche mediante un prodotto mainstream come AC Valhalla, bisognerebbe però chiedersi “buoni” o “cattivi” per chi? Come accade in tanti altri videogiochi di ruolo (GDR), i dati sono il frutto di una selezione funzionale a raggiugere lo scopo di presentare un rovesciamento delle parti e una immedesimazione di chi gioca con gli ideali e gli obiettivi dei suoi alter-ego virtuali. Nel gioco, per esempio, la prospettiva di base è quella che distingue tra vichinghi positivi e inglesi negativi, ma ciò deriva da una precisa scelta degli sviluppatori e dalla “fiducia” che i giocatori ripongono in ciò che viene loro mostrato e che può tuttavia modificarsi nel corso delle ore di gioco. Secondo una strategia già testata anche in Vikings, infatti, i vichinghi non sono personaggi positivi in modo assoluto: lo stesso fratello di Eivor viene corrotto dalla convinzione di essere stato prescelto per governare, creando così un forte contrasto all’interno al clan. Più in generale, a fazioni vichinghe che sono ritratte in modo neutrale e possono diventare alleate del protagonista, se ne contrappongono altre che, inizialmente neutrali, diventano progressivamente ostili, “corrotte” dal potere, dalla smania di ricchezze, dalla ricerca della gloria o della fama, etc.

Insomma, con Assassin’s Creed Valhalla siamo di fronte a un prodotto ludico che, con tutte le limitazioni e le criticità del caso, fornisce un contributo rilevante alla rimozione di quegli stereotipi e pregiudizi attraverso cui, tanto nella manualistica scolastica quanto soprattutto nella piazza mediatica, si guarda quotidianamente al nostro presente nei termini di uno scontro Noi vs Loro, spesso paragonandolo all’epoca delle fatidiche “invasioni barbariche”. Siamo di fronte a un videogioco che nell’intrattenimento può trasmettere alle generazioni più e meno giovani un input importante: sapere acquisire più prospettive e poter raccontare e comprendere la Storia e le società, di oggi e di ieri, con tutte le loro complessità e sfumature problematiche.