Genesi
Mosche bianche nasce attorno a un nucleo di sei fotografie rinvenute presso il Museo del Patrimonio Industriale, che mostrano alcune classi di studentesse dell’Istituto Tecnico Industriale Femminile di Bologna nei primi anni Sessanta, alle prese con laboratori di discipline che all’epoca venivano considerate prettamente maschili, come aggiustaggio, saldatura, fisica, chimica, lavorazione del vetro. In un’epoca in cui la divisione tra discipline maschili e femminili era un muro invalicabile, queste ragazze rappresentavano un’autentica rarità. Mosche bianche appunto. Dall’esigenza di conoscere le loro storie ha preso le mosse una ricerca negli archivi documentali e fotografici bolognesi per ricostruire la storia nascosta dell’anomalia rappresentata da quella scuola e dalle sue studentesse. E la realtà di quello che è venuto fuori è stata molto più interessante di quanto immaginassimo.
Le studentesse delle fotografie appartenevano infatti alle primissime classi femminili del prestigioso istituto Aldini Valeriani, o così avrebbe dovuto essere originariamente, prima della decisione di ricollocarle presso una sede che venne ritenuta più appropriata, ovvero, presso l’Istituto Femminile Elisabetta Sirani. E qui la storia si faceva sempre più interessante, perché alle Sirani le ragazze andavano a studiare materie tradizionalmente femminili come economia domestica, taglio e cucito, cucina, esattamente l’opposto del percorso di affrancamento dagli stereotipi a cui ambivano le protagoniste delle fotografie. Le premesse di una narrazione avvincente c’erano tutte, mancava solo rintracciare queste donne e farsi raccontare a sessant’anni di distanza la loro storia.
Il progetto filmico è stato realizzato con un approccio interdisciplinare, nel quale le singole interviste sono diventate il girato di un film documentario, e al contempo vere e proprie fonti orali per un’indagine storiografica con tutti i crismi scientifici del caso1. Da questo punto di vista, si è utilizzato un questionario semi-strutturato che ha consentito di approfondire un ampio spaccato della storia di vita delle ex-studentesse che abbracciava la storia familiare fino ai giorni nostri, passando per le esperienze di studio e lavoro post diploma. In ogni intervistata si è instaurato un dialogo, spesso improvvisato al momento, che ha fatto emergere con naturalezza la personalità di ciascuna protagonista, di modo che memorie e ricordi del periodo scolastico fluissero spontanee e senza freni inibitori.
Scrittura
Grazie al fatto che il documentario non aveva alcun vincolo di sorta, si è preferito non affidarsi alla scrittura di alcun trattamento o sceneggiatura, per mantenere la massima libertà creativa. L’unico vincolo che ci siamo autoimposti era di raccontare questa storia attraverso fotografie e documenti dell’epoca, riproponendo per certi versi la metodologia che avevamo già utilizzato nel documentario storico realizzato in precedenza, Paura non abbiamo.
L’intento era raccontare l’esperienza universale della scuola secondaria di secondo grado che la maggior parte del pubblico ha vissuto in prima persona, però declinata nella specificità di quell’esperienza pionieristica, per poter parlare a un pubblico più vasto possibile, il cui target va dai 12 ai 75 anni. Ci siamo resi ben presto conto che sarebbe stato interessante raccontare la storia atipica delle prime donne che a partire dal 1962-1963 affrontavano il percorso per diventare perite elettroniche e chimiche, incrociandola con le esperienze condivise da tutti gli studenti a qualsiasi latitudine, come le gite scolastiche, l’esame di maturità, scioperi e manifestazioni, il rapporto con i professori e con l’edificio scolastico. Il risultato finale è stato un quadro eterogeneo di elementi che intervista dopo intervista andava a comporre una propria genuina omogeneità intrinseca non precostituita in partenza.
La scrittura vera e propria del progetto è avvenuta al montaggio, dove la storia ha preso vita e si è manifestata per quello che era solo dopo la visione e l’organizzazione per nuclei tematici del girato. Non forzare il materiale in fase di scrittura verso elementi precostituiti a tavolino, ci ha permesso di lavorare sul set liberi da gabbie tematico/narrative di sorta, che rischiavano d’incanalare la narrazione su binari prestabiliti. Analogamente, si è scelto di non effettuare interviste preparatorie alle riprese, per avere una reazione il più spontanea possibile, lasciando spazio all’imprevisto e alla magia del set di prendere il sopravvento e portare ogni singola intervista verso la direzione più consona a ogni personaggio della storia.
Fotografie
Questo tipo di documentari ha il suo cuore nel momento della post-produzione alla quale viene demandato il processo di scrittura, che deve però reggersi su solide fondamenta create preventivamente alle riprese, il cui primo pilastro è un efficace questionario composto da domande flessibili che permettano di muoversi all’interno di ampi nuclei tematici sui quali andare a instaurare un dialogo con le intervistate. Il secondo pilastro, invece, è la ricerca fotografica preliminare2.
Da questo punto di vista, è stato essenziale lo studio del materiale a disposizione, per arrivare a instaurare un contrappunto che non assegnasse alle fotografie un ruolo meramente descrittivo, ma consentisse loro di diventare esse stesse protagoniste e in grado di generare una significazione autonoma. Solo così, ad esempio, i grembiuli scolastici bianchi nei quali erano costrette le studentesse delle fotografie, hanno potuto prendere vita all’interno delle interviste, generando un autonomo nucleo tematico che ha preso corpo testimonianza dopo testimonianza, assumendo infine forma in sede di montaggio. A guidare l’intera narrazione, infatti, è proprio questo contrapposto dualismo tra pulsione di emancipazione individuale e costrizione nelle norme sociali.
La ricerca fotografica di partenza è stata ad ampio spettro ed ha coinvolto diversi archivi fotografici, come l’Archivio fotografico UDI Bologna, l’Archivio storico Università di Bologna, l’Archivio Carlo Gajani. Non ultimi, l’Archivio della Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna, e l’Archivio del Museo del Patrimonio Industriale di Bologna, che per via dell’importanza primaria che si è voluta dare alle fotografie all’interno della narrazione, sono stati scelti anche come location delle riprese, che hanno avuto luogo in due fasi distinte. La prima al Museo del Patrimonio Industriale, nella sala che conserva le attrezzature dell’Istituto Aldini Valeriani, a partire dai cui patrimoni è nato il museo stesso. La seconda, programmata dopo un primo premontaggio che ha posto le basi narrative della storia, presso l’Archivio della Fondazione Del Monte dove è conservato il Fondo dello Studio Villani, che all’epoca realizzò il nucleo di fotografie nei laboratori dell’Istituto Tecnico Industriale Femminile, dalle quali ha preso le mosse il progetto filmico.
A questa prima ricerca iconografica al termine del premontato, si è aggiunta una seconda fase di ricerca all’interno degli archivi per rinvenire materiali specifici alla luce degli elementi emersi nelle interviste. Parimenti, si è proceduto con una ricerca negli archivi personali e familiari, che ci ha permesso di reperire fotografie con un taglio amatoriale e dal minore impatto estetico/tecnico, ma di straordinaria importanza per mostrare il rapporto tra le studentesse in classe e durante gite scolastiche.
Spettatore
Proprio quest’ultima tipologia di fotografie che ritraggono le ragazze in atteggiamenti spontanei, non ingessate in pose protocollari, è funzionale ad agevolare l’empatia da parte dello spettatore nei confronti delle protagoniste del film. È grazie a queste immagini che ci viene restituita la vera essenza delle ragazze, che si rivelano per nulla differenti da tutte le generazioni di studentesse venute dopo di loro. Le vediamo bere alcolici, fumare, ballare, ridere e scherzare. È proprio qui, tra l’altro, che fa la sua unica incursione nelle fotografie il colore, che diviene un ideale fil rouge che le collega al presente. La sfida, infatti, era quella di parlare a un pubblico ampio, dagli adolescenti agli anziani, individuando gli elementi che li hanno accomunati nell’esperienza di studenti, per instaurare un dialogo intergenerazionale con gli spettatori.
Per fare ciò, si è optato per un ritmo serrato e una commistione di toni dal drammatico al leggero, andando a inserire l’esperienza avanguardistica delle nostre protagoniste, all’interno del quadro “ordinario” della formazione scolastica adolescenziale. Il racconto di episodi cupi come il dramma del suicidio di una compagna di scuola viene alternato al racconto degli scherzi ai professori, delle feste e dello spirito cameratesco tra compagne di classe. Non si è però voluto rinunciare alle lunghe zoomate sulle fotografie d’epoca e all’assenza di movimento all’interno delle riprese, elementi stilistici tradizionalmente banditi all’interno dei prodotti per ragazzi, ma che alla prova del nove della proiezione gli adolescenti si rivelano lungi dal disdegnare. Si è addirittura voluto portare all’estremo la sperimentazione, con la decisione di non affidarsi mai ad alcun tipo di commento musicale. La colonna sonora del film, infatti, è interamente composta dalle voci delle donne intervistate, che non ci abbandonano mai, neppure sui titoli di coda.
La storia
Ma quindi, in pratica, di cosa parla Mosche Bianche? Per rispondere a questa domanda nel modo migliore, abbiamo atteso fino alla fine del montaggio. Il rischio di realizzare un progetto di questo tipo è avere troppa fretta a darsi una risposta. Se non si è messi nelle condizioni produttive di dover rispondere immediatamente, la risposta finirà inevitabilmente per sorprenderci. La bellezza di questo tipo di progetti è scoprire passo dopo passo elementi sempre nuovi che portano gradualmente la storia verso la sua naturale conclusione, che potrebbe essere talvolta molto distante dall’idea di partenza.
Mosche Bianche racconta la storia di un gruppo di ragazze che per la prima volta ha avuto la possibilità di studiare ciò che alle generazioni precedenti di donne era precluso, ma per farlo ha dovuto scontrarsi con il conformismo di un mondo che non era pronto ad accettarle. Attorno all’attrazione/repulsione nei confronti dei ruoli di genere precostituiti, ruota l’intero film. L’accesso al prestigioso Istituto Aldini Valeriani rimarrà per loro una chimera irraggiungibile, nonostante gli scioperi e le tante battaglie per vedersi quantomeno riconosciuto il nome Aldini nel diploma. Dietro alla motivazione formale del rifiuto di aggregarle con i maschi delle Aldini, ovvero l’assenza dei bagni per le donne, c’era un tentativo conformista di mantenere una divisione di genere. L’edificio diventa così un luogo che le imprigiona, opprimente per via del freddo gelido, ma anche nido che offre protezione nei suoi meandri quando si vuole marinare la scuola, e persino luogo enigmatico che nasconde misteriosi cunicoli segreti. Ma soprattutto, diviene spazio che frena irrimediabilmente l’entusiasmo del loro slancio pioneristico per via del confronto forzato con la normalità delle ragazze dell’Istituto Sirani all’interno del quale erano distaccate, che riproponevano un modello tradizionale di donna in cui la società voleva a tutti i costi incasellarle: le studentesse di economia domestica diventano così la materializzazioni dei fantasma del passato, contrapposte alla modernità di cui l’Istituto Tecnico Industriale Femminile si faceva portatore.
Proprio questa contrapposizione tra passato e modernità è l’archetipo sul quale fa perno il confronto intergenerazionale che si vuole demandare alle diverse generazioni di spettatori: da un lato le nuove generazioni hanno la possibilità di accedere a possibilità in passato precluse, dall’altro l’apparente modernità del presente rivela tutti i suoi limiti non appena la si osserva attraverso l’inesorabile sguardo del tempo. Non a caso, innescare una riflessione sui tanti stereotipi ancora da superare, è una delle ambizioni di questo progetto. L’imbarazzo dei professori maschi a dover insegnare aggiustaggio a delle ragazzine che
impugnavano le lime da ferro come fossero lime da unghie, faceva il paio con l’orgoglio delle studentesse nell’esibire calli alle mani e di girare con i libri sottobraccio legati con l’elastico assieme agli occhiali da saldatura. A sessant’anni di distanza, la netta separazione tra lavori prettamente maschili e lavori femminili con tutti i cliché che ne derivano è ancora radicata nella nostra società.
Allo stesso modo, le difficoltà e le resistenze di genere con le quali hanno loro malgrado dovuto fare i conti le protagoniste di Mosche Bianche, non sono così dissimili dalle esperienze con cui si devono confrontare le neodiplomate di oggi. Avere a che fare con una delegazione di colleghi di lavoro uomini che si schiera contro l’assunzione di una donna dando per scontato che questa non sia in grado di svolgere mansioni pesanti e compiti ritenuti da uomo, o non essere ritenuta all’altezza d’incarichi dirigenziali in quanto donna, sono situazioni che durante la visione del film non possiamo purtroppo relegare come episodi d’altri tempi, ma risuonano inquietanti nelle cronache lavorative odierne.
Ed è proprio nella difficoltà dell’accesso al mercato del lavoro, che sta la maggiore cesura con il presente, in quanto le donne intervistate hanno nella maggior parte dei casi trovato istantaneamente lavoro a pochi mesi, talvolta giorni, di distanza dal termine dell’esame di maturità. Esame che in diversi casi ha generato incubi che durano fino al giorno d’oggi, ma che si è rivelato un passepartout che ha offerto loro la possibilità di svolgere lavori fino a poco tempo prima preclusi alle donne.
Note
1 La metodologia per la raccolta delle fonti orali è stata messa a punto dalla coordinatrice del progetto, Eloisa Betti; la realizzazione delle video-interviste ha visto la collaborazione aggiuntiva di Rossella Roncati, Antonio Campigotto, Francesca Cozza.
2 La ricerca fotografica è stata coordinata da Marta Magrinelli.