In ogni valle e in ogni città: circoli cooperativi e Case del Popolo in Toscana

Di faccia alla chiesa, dopo il piazzale, oggi c’è la scuola Buonarroti, dove prima c’era la Coop La Risorta, che ora è in piazza Rossa, e dove ancora prima c’era la vecchia Casa del Popolo. La vecchia Casa del Popolo fu costruita negli anni Cinquanta, perché il governo democristiano, col Ministro Scelba, aveva requisito la prima Casa del Popolo, quella sulla via Tosco Romagnola, per farci la Caserma dei carabinieri. La prima Casa del Popolo, in realtà, era stata fatta dalla Lega dei Contadini prima degli anni Venti. Poi fu occupata dai fascisti. Dopo la Liberazione ridiventò Casa del Popolo. Ma siccome era stata Casa del Fascio e quindi proprietà statale il ministro democristiano Scelba negli anni Cinquanta se la riprese.

(Pilade Cantini, Piazza Rossa. La provincia toscana ai tempi dell’Urss, Carrara, Eclettica Edizioni, 2014, pp. 12-13).

 

1. Premessa

Sono un centinaio i circoli cooperativi presenti in Toscana. Si vanno a sommare, spesso incrociando volti e racconti, ai tantissimi altri che costellano questa terra e che sono costituiti in altre forme – Associazioni di Promozione Sociale e Fondazioni immobiliari legate ai vecchi partiti, per fare alcuni esempi. Un patrimonio immenso. Lo incroci ovunque: piccole saracinesche arrugginite che si aprono su strade tortuose di montagna, vecchi bar dalle insegne bianche e rosse, accanto a piccole cooperative di consumo, che costeggiano tutta la via dell’Arno arrivando fino alle porte di Firenze, in via Aretina. Grandi edifici sorti tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta nelle periferie delle città. Pizzerie, banconi che offrono l’immancabile spuma bionda mixandola con un più audace americano, anziani appostati a sedere fuori dagli ingressi, con il mazzo delle carte sul tavolo e il posacenere ancora fumante. Prima, sul tavolo era appoggiata e spesso aperta anche “L’Unità”, che la faceva da padrona durante gli scambi sull’ennesima crisi di Governo o sul cambio di giunta cittadina.

Nel tempo il tentativo di cambiarsi e di cambiare, gli interrogativi sulla nuova funzione sociale in un mondo trasformato, non sono mancati: ed ecco che le stanze dei primi piani dove prima avevano la propria sede i grandi partiti della tradizione della sinistra italiana si sono trasformate per ospitare corsi di ginnastica dolce, attività di ludoteca per i più piccoli, accessi alla rete internet nei primissimi anni Duemila, con quel fremito di novità che mandava tutti in subbuglio accendendo discussioni tra il fronte degli innovatori, nati negli anni Ottanta, e quello degli scettici ancora più affezionati al buon vecchio mazzo di carte. Hanno sperimentato nuove modalità di impegno sociale, come quello legato all’internazionalismo con cene a sostegno di progetti di cooperazione internazionale, o quello che ha preso campo con il movimento legato a Libera e ad Arci Toscana, in collaborazione con la Regione, che ha portato tanti giovani a fare i volontari nelle terre confiscate alla mafia ed ha coinvolto in questo impegno i soci e i volontari di tantissimi circoli. E nonostante tutto – lentezze, incomprensioni, difficoltà economiche, perdita di base sociale – quei luoghi sono ancora lì. Aperti, resistenti. Alcuni a inizio anni Duemila hanno vissuto un restyling che ha soppiantato vecchie insegne e banconi anni Sessanta con attrezzature più moderne, molti altri sono lì, uguali a se stessi dagli anni del boom in cui sono stati edificati. In ogni caso ci sono, ed è una consapevolezza insita in ogni toscano, di qualsiasi estrazione culturale e preferenza politica sia, quella di poterne incontrare frequentemente lungo i propri viaggi: sempre aperti, sempre presenti. Solo la pandemia è riuscita a sospendere la loro attività, e saranno i prossimi mesi a renderci il bollettino di questo improvviso, e stavolta indiscutibile, stop.

 

2. Circoli e Case del popolo: un excursus storico

È la storia della Toscana liberata, quella dei circoli e delle Case del Popolo: la costruzione di una società fondata sui valori costituzionali e antifascisti, usciti vittoriosi dalla Resistenza e incarnati da un popolo che si candidava a costruire cittadinanza e a diventare protagonista dei processi politici e sociali. Alcuni di questi luoghi in realtà esistevano prima del 1945, e affondano le proprie radici a fine Ottocento o nei primi decenni del XX secolo. A Firenze, per esempio, nei quartieri operai e in altre zone popolari queste realtà iniziarono a sorgere già a fine del XIX secolo: si pensi all’Andrea del Sarto nel quartiere dell’Africo, all’Affratellamento in via Orsini o all’Unione Operaia del Pignone, in via del Ponte sospeso, che già nel 1909 contava più di duemila soci1. Furono i fascisti, con la violenza prima e con la prassi del totalitarismo poi, a soffocare la voce e il radicamento di questi luoghi: gli attacchi delle squadracce si rivolsero fin da subito verso i punti di aggregazione e di organizzazione popolare. Non è un caso che proprio nelle testimonianze delle Case del Popolo e delle Società di mutuo soccorso sia possibile ritrovare i segni della prima resistenza:

Le case del popolo sono oggi l’esponente più alto, più idealistico dell’anima del proletariato, esse rappresentano come i templi di quella nuova religione che si è celebrata nella coscienza dei lavoratori, i quali hanno ormai compreso di non dover attendere altra grazia fuori di quella che potrà derivare dalle proprie capacità intellettive […]. Per questo le case del popolo sono divenute oltre che i centri della mutualità soprattutto i centri della cultura e della educazione proletaria. Aggredirle costituisce dunque il peggiore dei delitti. Le case del popolo sono luoghi sacri e inviolabili poiché sono il simbolo di una fede che sopravanza le competizioni di potere. Davanti a esse si inchinino tutti gli uomini di onore e chi osa dichiararsi solidale con gli assassini di tali istituzioni sappia che egli non si qualifica soltanto un avversario del popolo ma anche e soprattutto un nemico della civiltà2.

Il fascismo, una volta diventato istituzionale, cambiò strategia nei confronti dei circoli: non più violenza, ma – secondo la logica totalitaria – occupazione degli spazi, trasformando le Case del Popolo in Case del Fascio: così accadde all’Unione Operaia del Pignone, a Firenze, che divenne Sms Nicola Bonservizi, dal nome di un fascista ucciso a Parigi. E così accadde a Rifredi, luogo centrale dell’aggregazione nel capoluogo toscano: in questa Sms sorta nel quartiere operaio d’eccellenza, dove trovavano sede le Officine Galileo e la Fonderia del Pignone, nel 1930 si tenne un’assemblea dei soci che aveva all’ordine del giorno lo scioglimento della società e il passaggio di tutte le sue attività al fascio locale, con la motivazione della difficile situazione economica:

In queste condizioni poco conveniente sarebbe continuare ancora per portare la Società al fallimento quando invece una nuova vita si delinea per la Società nostra vivere cioè degnamente in seno alla casa del fascio. Propone il presidente lo scioglimento della Società e la devoluzione al fascio di tutte le attività e passività3.

Con la fine della Seconda guerra mondiale e la Liberazione, questo patrimonio caduto nelle mani del regime tornò, non senza polemiche dovute in alcuni casi al passaggio degli immobili in mano statale, ai proprietari originali: operai, ceti medio bassi, contadini. Dove invece ancora i presidi ricreativi e sociali non erano sorti, in quegli anni andarono creandosi: le generazioni dei ceti popolari del secondo dopoguerra, infatti, dedicarono gran parte del loro tempo libero, in zone come quella toscana, alla prestazione volontaria di lavoro per costruire materialmente circoli e case del popolo, contribuendo anche economicamente con le sottoscrizioni alla loro edificazione. Un continuum, secondo il pensiero di Antonio Fanelli4, tra il lavoro salariato e il dopo lavoro volontario. È il caso, ad esempio, della cooperativa di Vescovado di Murlo, in provincia d Siena, il cui atto costitutivo è datato 24 febbraio 19465 o della Casa del Popolo di Fornacette nel Pisano, sorta subito dopo la Seconda guerra mondiale come società semplice6. All’interno di nuove e vecchie Case del Popolo, forme di antica mutualità andavano mischiandosi sempre più a servizi sociali e culturali rivolti alla popolazione. Gli elementi di continuità tra le esperienze del primo Novecento e quelle postresistenziali si dimostrarono assai forti in un primo momento, soprattutto quando, come abbiamo detto, gli immobili tornarono sotto il controllo dei loro precedenti proprietari. A poco a poco si svilupparono però anche elementi di discontinuità e differenziazione, in prima battuta la quasi totale scomparsa della forma di mutuo soccorso, e la contemporanea centralizzazione delle attività cooperative7.

Il ruolo del Pci, e più in generale delle forze della sinistra toscana, nella formazione e nel rafforzamento di circoli e Case del Popolo in questo territorio è decisamente innegabile: intorno al partito si andava infatti costruendo quella rete di tenuta sociale fatta di associazionismo, cooperazione, sindacato che ha rappresentato un punto saldo nella tenuta sociale di una regione come la Toscana, che Pierpaolo Pasolini definiva «il Paese nel Paese»8. Ma non è con la fine dell’esperienza dei partiti popolari  che si esaurisce tutto: la spinta propulsiva di questi luoghi sarebbe infatti andata avanti anche dopo la caduta del Muro e la svolta della Bolognina, e una ricerca dell’Università di Firenze sulla persistenza della «subcultura rossa» in Toscana assegna proprio ai valori dell’associazionismo il merito di aver condotto oltre gli anni Ottanta le aspirazioni democratiche e dinamiche di partecipazione sociale dei cittadini alla vita pubblica, quel fattore che ancora oggi caratterizza la tradizione politica e sociale toscana9.

È necessario a questo punto soffermarsi sul senso della definizione «subcultura territoriale» che viene spesso associata a questa regione e alla sua organizzazione politica e sociale: inizialmente questo termine venne coniato in senso dispregiativo, quando l’influenza statunitense nel contrasto allo sviluppo del Pci intendeva far passare l’immagine dei comunisti come soggetti antisistema, ai margini della società italiana. Per questo veniva definita subcultura, a segnare uno status inferiore nei rapporti con la cultura predominante del Paese, a trazione democristiana. Col tempo questa accezione negativa venne persa, e il significato della subcultura venne anzi recuperato e rivalutato anche grazie agli studi socioeconomici che hanno portato alla definizione della Terza Italia, di cui la Toscana fa parte a pieno titolo con i suoi molteplici distretti industriali, che negli anni del boom hanno preso campo soppiantando in parte quel sistema mezzadrile delle zone collinari che viveva da sempre in rapporto stretto con i territori urbanizzati: un’Italia vincolata al rapporto tra città e campagna, che l’economista Becattini ha descritto nelle due formule di «campagna urbanizzata» e «industrializzazione leggera»:

Questa letteratura scientifica evidenzia come vi siano alcuni fattori determinanti per la nascita del sistema produttivo locale: l’ampia diffusione del lavoro autonomo nelle campagne a prevalenza mezzadrile; una forte tradizione artigiana disseminata in una ricca articolazione di insediamenti urbani; una rete policentrica costituita da piccole città dotate di consolidate tradizioni associative. […]. La matrice subculturale di queste zone si innerva su una società civile strutturata attorno a una robusta rete associativa, tendente a assumere più che in altre regioni una connotazione interclassista con la conseguenza, tra l’altro, di manifestare una più puntuale capacità di promuovere l’integrazione non subalterna dei ceti popolari nella sfera pubblica10.

È in questo humus fertile per la coesione sociale e lo sviluppo di reti di vicinato che si vanno rafforzando le esperienze di aggregazione intorno alle Case del Popolo: come abbiamo visto, le forme proprietarie sono state e sono tutt’oggi varie, seguendo ognuna la propria storia specifica, che è andata spesso intrecciandosi con la modifica delle normative e con i cambiamenti sociali e politici locali. Bisogna in questo senso segnalare come vi sia un soggetto che più di ogni altro dalla fine degli anni Cinquanta si attesta come titolare della vita sociale dei circoli, ed è l’Arci: nella prevalenza di queste strutture, infatti, la forma associativa intorno alla quale ruotano le attività e la programmazione – e a volte la proprietà immobiliare – è la sua. Ed anche nel caso dei circoli cooperativi, su cui andiamo a focalizzare l’attenzione, spesso accanto ai soci di cooperativa, proprietari del patrimonio immobiliare, operano i volontari dei circoli Arci, che gestiscono il bar e l’attività ricreativa. Molto spesso, le persone impegnate in una e nell’altra parte sono per lo più le stesse, ma questa organizzazione deriva da precise scelte legate alle vicende dei singoli luoghi. In parte, andremo a ripercorrerle insieme attraverso le testimonianze degli attuali presidenti delle cooperative, evidenziandone limiti e potenzialità.

 

3. Alcune esperienze significative

Bisogna considerare che la Toscana è la quarta regione italiana per numero di circoli cooperativi aderenti a Legacoop, e che le prime quattro regioni (Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte, oltre appunto alla Toscana) contano il 94% della presenza totale sul territorio nazionale di queste realtà11. Questo è ben spiegabile guardando alla storia politica e sociale di questo territorio, che abbiamo provato brevemente a tracciare. Non è un caso che spesso i circoli cooperativi, ovvero dunque le case del popolo che hanno assunto come forma proprietaria quella cooperativa, siano l’eredità di un incastro più complicato e sfaccettato di soggetti attivi, quali piccole cooperative di consumo, Sms, realtà locali di vario genere i cui rappresentanti, unendosi in cooperativa, trovavano la formula per dare spazio anche all’attività sociale e ricreativa dedicata ai soci e in generale alla popolazione circostante. Possiamo capire questo sistema complesso se pensiamo alla Casa del Popolo di Fornacette, che, come abbiamo visto, era nata come società semplice subito dopo la guerra, per poi trasformarsi in cooperativa di consumo negli anni Settanta: all’interno degli immobili attualmente è presente la Polisportiva N. Casarosa, il Circolo Arci operaio Fornacette, il Circolo Arci Gronchi Fornacette, la discoteca Freedom. In passato vi erano presenti i partiti: Psi e Pci prima, e poi Pds, Ds fino al 2007, anno di costituzione del Partito Democratico. Sempre nelle strutture della cooperativa vi erano la sede del punto vendita della Coop ed il velodromo, che dal dopoguerra vi rimase fino al 200712. È, inoltre, il caso del circolo cooperativo di Viaccia, piccola frazione alla periferia di Prato: ancora oggi possiamo trovare qui, una accanto all’altra, una cooperativa di consumo e un circolo cooperativo. La prima fondata nel 1945, la seconda antecedente in forma di associazione civile, trasformata poi in cooperativa a fine anni Novanta. Massimo Chiarugi, presidente e anima del circolo, così ripercorre la storia di questi spazi:

Da racconti orali, che purtroppo stanno terminando sappiamo che a Viaccia anche nel ventennio era presente un attivo nucleo antifascista che aveva organizzato, in un locale vicino al Circolo attuale, un punto dove oltre a ritrovarsi era possibile prendere un caffè nel tegame (ovviamente non c’era ancora la macchina per l’espresso) e fare il fiasco ma, vista l’epoca, non aveva potuto configurarsi come Circolo. Chi ricorda racconta che allora si chiamava La Tranquillona. Dopo la guerra venne acquistato il terreno dove si trova ancora, e con il lavoro volontario dei soci, come accadde da tante parti in quel periodo, venne costruito il locale. Una parte fu destinata a Circolo con il nome di Circolo La Libertà mentre un’altra parte venne destinata a Cooperativa di Consumo, con la vendita di alimentari e con il proprio forno, chiamata Cooperativa La Libertà. ]Nella seconda metà degli anni Novanta, la Cooperativa di Consumo ha acquistato un complesso artigianale, con abitazione annessa, adiacente al Circolo, spostando la propria attività in questo nuovo immobile e vendendo alla Cooperativa Viaccia Oggi [l’attuale circolo cooperativo, nda]  la vecchia sede. All’interno del Circolo è sempre esistita la Sezione del Pci, con una propria stanza e una discreta attività; dalla svolta della Bolognina, le successive sigle che si sono avvicendate non sono più riuscite a formare una organizzazione strutturata13.

Dall’esperienza di Viaccia possiamo trarre un’importante indicazione circa le prospettive di questi luoghi e la loro peculiarità: in questa realtà la base sociale, molto ampia, rappresenta un pezzo importante di comunità. Insieme alla vicina cooperativa di consumo, il circolo racchiude in sé il fulcro delle iniziative sociali della frazione, rivolgendo dunque i propri servizi sia ai soci che alla popolazione in generale. Si apre dunque la riflessione sull’opportunità per queste cooperative di definirsi non più solo circoli cooperativi, ma come vere e proprie cooperative di comunità, all’interno delle quali lo scambio mutualistico trascende la sola definizione prevista dal Codice Civile per rappresentare una missione ancora più ampia, di costruzione di vantaggio per un intero segmento abitativo, che intorno ad uno spazio si ritrova e si rafforza, torna ad essere, appunto, comunità. Non è un caso che proprio la cooperativa di consumo di Viaccia si sia recentemente trasformata in cooperativa di comunità, ottenendo anche un finanziamento in tal senso grazie a un bando della Regione Toscana. Questo scenario apre però ad altri fattori di riflessione e di iniziativa: è infatti necessario intervenire sul legislatore affinché venga fatta chiarezza normativa rispetto all’esperienza della cooperazione di comunità, che ad oggi trova ristoro solo in alcune leggi regionali. Questa mancanza di una cornice completa che ne definisca identità, diritti e doveri rappresenta una criticità non più eludibile: è ancora troppo vaga la discussione sulla possibilità di integrare le cooperative di comunità all’interno dello spaccato del terzo settore, ad esempio, e non definita è la possibilità di avere soci volontari al suo interno, o di prevedere forme innovative di scambio mutualistico, che si adattino alle specifiche esigenze che i tanti e variegati territori esprimono. Ci sono infine tentativi di costituzione di cooperative di comunità in forma di imprese sociali, ma di nuovo siamo davanti a esperimenti singoli che necessitano il prima possibile di un chiaro riferimento normativo, e pensiamo che sia maturo il tempo per fornirlo.

Anche il circolo cooperativo Le Fornaci, situato a Pistoia, che vanta una allegra ripresa di attività sociale e di volontariato avvenuta proprio negli ultimi anni, era nato come associazione civile ed è stato poi trasformato in cooperativa nel 1981, quando i soci hanno deciso di investire nell’acquisto della vecchia fornace adiacente la struttura del circolo, trasformandola in un nuovo spazio dedicato alla comunità. Quando la cooperativa si è costituita contava 130 soci14: oggi questi sono ottanta, ma proprio grazie alla voglia di ripartire dopo anni di affitto degli spazi a gestioni private, il circolo – dentro cui opera l’Arci – vive grazie all’impegno di più di quaranta volontari, che gestiscono il bar, la pizzeria e tutte le attività sociali, mentre la cooperativa mantiene il possesso degli spazi e i suoi soci possono così beneficiare delle varie iniziative proposte.

Nella ben più bianca Lucchesia, e precisamente a Capannori, nel 1959 dal notaio Raffaele Manfredini quattro artigiani e un muratore costituirono la «Società Semplice Rinascita, per la durata di anni trenta, avente per scopo l’acquisto o la costruzione di un immobile da adibire a luogo di ritrovo e di ricreazione per i soci e per la popolazione di Camigliano e paesi limitrofi»15: una società che si prefiggeva lo scopo di diventare proprietaria di un immobile per farne una Casa del Popolo, dopo che, dal 1944, gli abitanti della zona avevano iniziato a frequentare altri luoghi per riunirsi nel tempo libero. Anche qui, pur come caso isolato in territorio democristiano, è evidente l’impegno del Pci nel sostenere l’iniziativa di questo gruppo di ex antifascisti:

La costruzione dei Diavoletti [così venne ribattezzato l’immobile, nda] – avvenne con un finanziamento del Partito Comunista e, soprattutto, con il contributo economico e il lavoro volontario dei comunisti camiglianesi che, dopo una settimana di lavoro, passavano il sabato e la domenica a dare una mano, ognuno come poteva, alla costruzione dell’immobile16.

La storia di questo luogo, intriso di partecipazione e di protagonismo politico locale e regionale, si sarebbe continuata a sviluppare nel corso degli anni. Come a Fornacette, a Prato e come a Pistoia, anche in questo caso, tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, la società venne trasformata in Cooperativa, e precisamente nella Cooperativa Rinascita a responsabilità limitata:

La Società Semplice era ormai una forma giuridica superata e, con il fatto che era prevista l’ereditarietà delle quote sociali, non era più chiaro neppure l’elenco dei soci. L’atto ufficiale davanti al notaio venne firmato in data 26 settembre 1988 dai soci della Società Semplice. Enrico Cecchetti, Valerio Nardini, Lorenzo Gradi, Franco Vergnani, Enrico Sodini, Ottorino Bini, Enzo Paoletti, Egidio Organi, Silvio Gori, Gabriello Acciari, Ismaele Ridolfi, Giuliano Vergnani, Oriano Vergnani, Lorenza Lucchesi, Maurizio Perna, Giuseppe Del Sarto e Orlando Fornaciari. Sempre nell’atto si legge che la neonata società «ha per scopo la promozione sociale, culturale e civile delle popolazioni interessate. A tal fine individua come suo specifico campo le attività culturali, ricreative, sportive, nonché quelle volte alla salvaguardia ed alla valorizzazione dell’ambiente. Potrà gestire sale di ritrovo, di divertimento e di spettacolo, palestre e campi sportivi, spacci, bar ristoranti e mense dove si somministrano anche bevande alcoliche, organizzare attività turistiche, gestire campeggi e quant’altro inerenti e affini all’attività turistica, gestire inoltre scuole, biblioteche popolari, borse di studio»17.

Diversa è l’esperienza della già citata cooperativa di Vescovado di Murlo, nata come cooperativa di consumo, alla quale nella fase di fondazione furono registrati ben 253 soci, tra i quali compariva anche il vicino circolo minerario dei lavoratori delle cave: in questo caso la costituzione, come abbiamo visto, risale all’immediato dopoguerra, e lo scopo della società era in prima istanza quello di rispondere alla necessità di generi alimentari a prezzo accessibile per la popolazione. Solo successivamente lo scopo sociale è diventato quello dell’attività ricreativo-culturale, che ancora oggi – Covid permettendo – vanta una discreta vivacità, con cene sociali, feste dedicate alla popolazione e con un impegno importante nella ricostruzione delle radici storiche della cooperativa.

 

4. Conclusioni

Come abbiamo avuto modo di constatare, le modalità, le ragioni e i tempi della costituzione in forma cooperativa di questi circoli sono varie, e non è dunque possibile tracciare un unico disegno che ne delinei la storia e le ragioni. Resta il fatto che si tratta ancora oggi di un patrimonio importante, ma messo difronte a sfide e scenari diversi dal passato. La società è cambiata, e con questa le abitudini, i tempi di vita e di lavoro, gli spostamenti delle persone. Quelle esigenze a cui i circoli per anni hanno saputo dare risposte concrete oggi sono sfumate, sono andate mischiandosi ad altre necessità, altre criticità sociali, altre diseguaglianze. Ne sono prova le basi sociali di queste realtà: dove prima si contavano centinaia di soci, oggi spesso ci si ferma a qualche decina. I gruppi dirigenti si pongono poi il problema del rinnovamento, per dare continuità a quelle strutture anche rispondendo a uno dei dogmi della cooperazione, ovvero l’intergenerazionalità: perché chi coopera sa che la cooperativa non appartiene ai soci di oggi, ma è un bene che deve restare ai soci di domani e che, come tale, va tutelato e fatto crescere. Ci si interroga dunque sul futuro, con la consapevolezza di non voler abbandonare la storia e la potenzialità di questi punti di aggregazione al caso, ma anche con la chiara percezione della crisi che stanno attraversando queste strutture. E questo porta anche a una riflessione più ampia rispetto al significato di mutualità cooperativa che può esprimere oggi un circolo, come abbiamo accennato nel caso pratese: è possibile parlare di vantaggi verso i soci, e non verso l’intera comunità? Chi beneficia, in fondo, di un bandone aperto in una piccola frazione tra le colline senesi, chi va alle sagre del tartufo nel Valdarno inferiore, chi manda i bambini a fare i corsi di inglese presso un circolo a Pistoia? È possibile continuare a circoscrivere la mutualità relativamente alla base sociale? Da un punto di vista formale, è possibile e doveroso: i bilanci e soprattutto le note integrative evidenziano l’attività svolta nei confronti dei propri soci. Da un punto di vista sostanziale, registriamo oggi l’urgenza di un cambio di passo: l’apertura dei circoli all’esterno rappresenta l’unica strada per ripensarne lo scopo e costruire una prospettiva. Abbiamo visto in queste settimane, ad esempio, come alcune strutture di questo genere si siano messe a disposizione delle istituzioni nella campagna vaccinale contro il Coronavirus. Altre realtà, come quella lucchese, hanno aperto i propri spazi a progetti di imprenditoria sociale legati alla cooperazione sociale di tipo B, ovvero con finalità relative all’inclusione sociale. A Montelaterone, nel comune amiatino di Arcidosso, un circolo Arci ha dato vita a una cooperativa di comunità, che offre servizi ricettivi e intorno a questa risorsa economica costruisce opportunità e aiuti per i residenti. Lo stesso dicasi a Torrano, frazione di Pontremoli: un’altra esperienza di trasformazione in cooperativa di comunità che affonda le proprie radici nella realtà di un circolo. A Fornacette, invece, la cooperativa ha avviato un percorso di partecipazione per coinvolgere i residenti nelle scelte sul futuro utilizzo degli spazi18.

Diversa è la riflessione sulle prospettive dei circoli nei centri urbani: esperienze positive come quella pistoiese delle Fornaci rappresentano sicuramente un punto di riferimento, ma non è facile immaginare di circoscrivere una comunità in una città di medie o grandi dimensioni. In questi casi il senso aggregativo si è spesso sfilacciato da più tempo, i partiti e i sindacati hanno chiuso le proprie stanze nei circoli. Restano i bar, a volte i ristoranti affidati a gestioni esterne: luoghi aperti, ma che stanno perdendo la propria funzione primaria, che era sociale e culturale. È dalle criticità della società attuale, dalle linee che segnano le disuguaglianze sociali, le fratture contemporanee, che questi spazi possono ripartire interpretando un ruolo nuovo: quello di fornitori di risposte innovative a problemi più complessi. L’interculturalità e la conseguente necessità di integrazione; le fragilità legate a un sistema di precarizzazione sempre più accentuato nel mondo del lavoro; l’aumento di abbandono scolastico e di Neet; le nuove modalità di conciliazione dei tempi di vita tra lavoro e sfera privata; la solitudine sempre più accentuata degli anziani: sono molte le sfide che stanno davanti a noi, e che i circoli cooperativi, rispolverando quel sentimento di collaborazione tra soggetti diversi del mondo del Terzo Settore e non solo, possono provare ad affrontare. Immaginando queste strutture – patrimonio dei soci, della storia e della comunità – come punti focali di incontro e scambio innovativo, risorse a disposizione di comunità ampie, nuove, e forse più di prima profondamente deboli. Sarebbe una riscoperta della spinta propulsiva del cooperare: unire per creare una nuova forza, che si ponga come argine alle storture della società.


Note

1 Cfr. Comitato di difesa della Casa del Popolo contro la minaccia dello sfratto (a cura di), Sessantanove anni di vita della Casa del Popolo del Pignone, Firenze, Nuova Editrice Popolare, 1954, p. 17.

2 Augusto Borchi, Una data nefasta il 6 maggio 1921. In difesa delle Case del Popolo, in «Il Terzolle. Organo della Compagnia del Ponte di Rifredi esce quando gli fa comodo dice quello che gli pare», Secolo I, Anno I, Rifredi 6 agosto 1921, n. 11, pp. 1 e 2.

3 Archivio Fondazione Turati (AFT), Sezione Movimento operaio e socialista in Toscana, cc. Vasco Frilli, f. 7, Verbale di assemblea straordinaria SMS di Rifredi, 11 ottobre 1930, p. 5.

4 Cfr. Antonio Fanelli, A casa del popolo. Antropologia e storia dell’associazionismo ricreativo, Roma, Donzelli, 2014, p. 15.

5 Dalle risposte fornitemi dal CdA del circolo cooperativo Vescovado di Murlo sulla storia e le prospettive della cooperativa, 25 marzo 2021.

6 Dalle risposte fornitemi da Ivan Ferrucci, presidente della Cooperativa Casa del Popolo di Fornacette, 22 giugno 2021.

7 Cfr. Luigi Tomassini, L’associazionismo culturale e ricreativo: le case del popolo a Firenze (1945-1956), in Pier Luigi Ballini, Luigi Lotti, Mario G. Rossi (a cura di), La Toscana nel secondo dopoguerra, Milano, FrancoAngeli, 1991, p. 392.

8 Francesco Cecchetti, I Diavoletti, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 2017, p. 7.

9 Cfr. Fanelli, A casa del popolo, cit., pp. 6-7.

10 Ivi, pp. 39-40.

11 Cfr. Ufficio Studi Legacoop, Note Brevi. I Circoli cooperativi, gennaio 2021.

12 Dalle risposte fornitemi da Ivan Ferrucci, presidente della Cooperativa Casa del Popolo di Fornacette, 22 giugno 2021.

13 Dalle risposte fornitemi da Massimo Chiarugi in una intervista sulla storia e le prospettive del circolo cooperativo, 22.02.2021.

14 Dalle risposte fornitemi da Pietro Fedi, presidente della cooperativa, in una intervista sulla storia e le prospettive del circolo cooperativo, 10.02.2021.

15 Cfr. Cecchetti, I Diavoletti, cit. p. 27.

16 Ivi, p. 28.

17 Ivi, p. 46.

18 Si vedano a tal proposito i recenti articoli usciti sulla stampa locale, ed anche il post sul sito di Legacoop Toscana https://legacooptoscana.coop/cooperativa-casa-del-popolo-di-fornacette-un-percorso-per-coprogettare-gli-spazi/.