Formazione professionale e traiettorie femminili: l’uso delle fonti orali

Questo Dossier rappresenta un’utile occasione per ragionare, dal punto di vista della storia orale, intorno alla problematica della formazione professionale, in connessione con la storia del lavoro e quella di genere, un crocevia senz’altro di grande interesse e foriero di sviluppi. In realtà la riflessione che intendo proporre muove, in maniera paradossale, dalla presa d’atto della mancata attenzione, da parte della storia orale e degli storici orali, intorno al nostro oggetto di discussione, che da una prima ricognizione non appare né affrontato né tematizzato. Non si trovano studi che abbiano come specifico oggetto la formazione al lavoro o l’istruzione professionale e che ne indaghino gli stretti rapporti con il mondo del lavoro e la dimensione di genere. Non escludo certo che possano esistere ricerche o comunque pubblicazioni di taglio locale realizzate con lo strumento dell’intervista, come ad esempio storie di determinate scuole o settori lavorativi, che affrontino principalmente o parzialmente il tema, così come è possibile che notizie siano rinvenibili in maniera sparsa all’interno delle “storie di vita” delle classi sociali popolari raccolte dai ricercatori nei diversi luoghi. Ma il tema comunque non è diffuso tra gli storici orali, che invece per altro verso hanno dedicato, e dedicano, attenzione alla storia dell’istruzione, intesa in senso generalista e come processo di crescita culturale,1 ed anche al “saper fare” nei diversi mestieri.

Si tratta quindi principalmente di iniziare a domandarsi quali siano le ragioni di questa “disattenzione” e successivamente, anche alla luce delle risposte che proverò a fornire a questa domanda, di individuare quali possano essere delle linee di ricerca da mettere in campo con gli strumenti della storia orale, individuando i possibili testimoni e gli interrogativi per lo storico. Una prima risposta alla nostra domanda può venirci da quanto ha acutamente evidenziato di recente Pietro Causarano a proposito di quello che ha definito come «il nesso controverso nel tempo e nello spazio fra educazione, alfabetizzazione e lavoro», constatando sul piano generale che «il lavoro (compreso spesso l’addestramento ad esso) di solito è stato individuato come il fattore storicamente negativo contrapposto a quello positivo, l’istruzione, all’interno dell’affermazione di una nuova idea di infanzia e di diritto, con una scarsa problematizzazione rispetto al contesto storico e alle dinamiche relazionali e socio-economiche che hanno portato in passato (ma portano ancora oggi, in forme e luoghi diversi) i minori al lavoro, sottraendoli all’istruzione nella loro formazione».2

Troviamo già qui dei nodi importanti da prendere in esame. Prima di tutto la contrapposizione tra l’istruzione, da una parte, e l’addestramento al lavoro (e quindi anche il suo disciplinamento in qualche modo) dall’altra. Effettivamente è indubbio che qui risieda un groviglio problematico, tra la funzione dell’istruzione come crescita culturale dell’individuo e la sua funzione più materiale di percorso di apprendimento di capacità tecniche e professionali in stretto legame con il mondo del lavoro, un’ambivalenza che genera continui cortocircuiti e che si riverbera nell’ordinamento scolastico e nelle politiche dell’istruzione ancor oggi, con eredità di lungo periodo, squilibri evidenti, pregiudizi e non ultime differenziazioni di classe. Chiara Martinelli ha ben illustrato il percorso travagliato e sofferto che ha interessato nel nostro paese, fin dall’età liberale, l’integrazione della formazione al lavoro all’interno del sistema scolastico, in una storia che arriva fino al nostro presente.3 Il punto, lungi dall’essere un semplice tecnicismo, ha dunque ricadute politiche non indifferenti.

In aggiunta, sottolinea sempre Causarano: «nel nostro paese, la ricerca sul rapporto fra lavoro e formazione è stata in ogni caso sicuramente più occasionale e meno sistematica di altri contesti, attratta prioritariamente dall’educazione popolare in generale».4 Semplificando, potremmo dunque dire che – complice anche la posizione egemone della cultura umanistica in Italia tanto nell’informare il concetto di cosa sia “istruzione” e “cultura” quanto nel modellare l’approccio, la mentalità e gli interessi dei ricercatori – il tema della formazione al lavoro e dell’istruzione professionale è stato visto (ed è visto) a seconda dei casi con minor interesse, in subordine, come scadimento della “vera” istruzione e, negli approcci più radicali e attivisti, come funzionale alle logiche del capitalismo. D’altro canto, questa disattenzione può essere anche uno degli innumerevoli riflessi concreti di quel carattere della storiografia italiana degli ultimi decenni che dedica più attenzione alla storia culturale e politica e ai movimenti sociali che alle strutture del lavoro, di cui la formazione ne è una parte. Infine, va evidenziato come la stessa storiografia sull’istruzione abbia scarsamente frequentato questo campo, almeno nel nostro paese. Come osserva Martinelli:

A differenza della storiografia nazionale sull’istruzione classica ed elementare, quella sull’istruzione professionale ha conosciuto uno sviluppo contraddittorio: esistono molti lavori sui singoli istituti, e alcuni resoconti regionali, ma vi sono poche ricerche di sintesi. La situazione appare ancora più carente se raffrontata con quella di altre nazioni come la Francia, la Germania, il Giappone e i paesi scandinavi, dove dagli anni Settanta e Ottanta esiste una storiografia consolidata. Grazie al lavoro di Tonelli del 1964 è nota la storia istituzionale delle scuole professionali dall’Unità fino agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, ma la mancanza di serie storiche nazionali, regionali e provinciali impedisce di comprendere l’impatto di queste scuole sul sistema scolastico italiano e sulla crescita economica.5

Il risultato è che, quando cerchiamo di documentarci in maniera più approfondita sul tema, rischiamo di rimanere a bocca asciutta, soprattutto per quanto attiene alla storia orale. In quest’ambito, tradizionalmente frequentato da persone orientate a sinistra e caratterizzato anche da una certa dose di impegno civile quando non da un afflato attivistico esplicito, la ricerca sulla formazione e sull’istruzione professionale sembrerebbe aver suscitato scarso interesse. Un’eccezione parziale è rappresentata dalla formazione del corpo docente, un percorso che capita di incontrare nelle storie di vita degli insegnanti raccolte dagli storici orali, come emerge anche dal recente libro di Lucia Paciaroni, dove sono molte le testimonianze sulla formazione magistrale dei maestri e delle maestre. Tuttavia al tema non viene dedicata un’attenzione specifica e un’analisi circostanziata, ma emerge come parte di una più generale testimonianza sulla traiettoria del lavoro di insegnante.6 Senz’altro l’oggetto è meno avvincente rispetto, ad esempio, alle già menzionate scuole popolari, all’esperienza dei doposcuola informati dalle sensibilità sollevate da Don Milani o a quella delle 150 ore. C’è anche da considerare che in non pochi casi chi ha studiato la scuola ha coinciso con gli attivisti dei movimenti che hanno contribuito a rinnovarla a partire dagli anni Sessanta, più attenti quindi a queste esperienze e, per la contrapposizione sopra richiamata, meno interessati magari a un percorso considerato come funzionale alla creazione del lavoratore, e della lavoratrice, “macchina”.

All’opposto invece gli storici orali hanno dedicato attenzione – come ci ricorda un recente intervento di Giovanni Contini ad un convegno sul 1969 – al “sapere” dei lavoratori e delle lavoratrici, a quella professionalità costruita dal basso e tramandata in maniera informale, generazionale, familiare, continuamente rivendicata e spesso al centro della costruzione di linee di conflitto, di riconoscimento professionale e identitario. Meritano di essere citate alcune osservazioni di Contini, che rendono l’idea di come anche il lavoro sia un luogo dove si costruisce e si accumula un “sapere”, certo empirico e non scolastico, che viene trasmesso di generazione in generazione. Un sapere che è anche un capitale umano e personale, spendibile nella propria vita, necessario alla sopravvivenza, capace di modellare le interpretazioni dell’ambiente circostante:

Grazie alle fonti orali ho scoperto invece nella condizione operaia una fortissima tensione perché venisse riconosciuta la professionalità dei lavoratori, per esempio nelle miniere e soprattutto nelle miniere di cinabro, quelle più estese, dove l’operaio lavora col suo aiutante, da solo.
I minatori partivano da problemi di sicurezza sul lavoro, in realtà direi di sopravvivenza, dato che era questione di vita o di morte sapere esattamente dove andare a puntellare il fronte di coltivazione immediatamente dopo che era avvenuta l’esplosione, la “volata” delle mine: si poteva cominciare da destra o da sinistra, e spesso da questa scelta dipendeva la sopravvivenza del minatore; puntellare per prima la parte più solida del fronte di coltivazione poteva voler dire che la parte più friabile poteva franargli addosso nel frattempo, uccidendolo. Quindi da questa esigenza di autodifesa partiva una vera e propria conoscenza pratica della geologia, di come era strutturato il terreno della montagna, il minerale che si andava a “coltivare”, a scavare.
Così da una preoccupazione autodifensiva nasceva una conoscenza molto più ampia che faceva in modo che – questo l’ho potuto verificare – i lavoratori venissero spesso consultati dalla direzione, in vari modi, prevalentemente tramite i sorveglianti alla fine del turno di lavoro, per avere da loro un parere su come fossero disposte le vene di minerale. In questo modo l’azienda riusciva a risparmiare moltissimo sui carotaggi, che sono molto costosi perché si tratta di trivellare profondamente in varie direzioni per vedere dove il minerale è più ricco.
 
Anche nelle cave di marmo di Carrara ho trovato una grande professionalità: anche lì i cavatori, che magari non avevano un’istruzione scolastica o quasi, erano però quelli che poi sapevano esattamente localizzare il marmo buono, cosa che spesso non riusciva al direttore dei lavori, forte di un corso specifico di geologia e di una laurea. Questo avveniva perché i cavatori disponevano di una serie di informazioni acquisite fin da piccoli, perché si entrava in cava molto giovani; spesso venivano da famiglie che per secoli avevano cavato il marmo e avevano elaborato nel tempo e trasmesso alle generazioni successive un sapere implicito (c’entra, direi, il paradigma indiziario di Carlo Ginzburg!) che li rendeva orgogliosamente capaci di trovare il marmo partendo da minimi indizi, invisibili agli occhi degli altri. Questa trasmissione familiare creava competenza nel lavoro, professionalità.
Ho intervistato vecchi capicava che non avevano frequentato neanche tutta la scuola elementare: ma erano loro quelli che “sapevano”; il direttore dei lavori presente all’intervista assentiva. Il marmo può avere una serie di difetti, delle intrusioni che vengono chiamate in vari modi e che consistono in strisce di materiale scuro che deturpano le bancate di marmo. Altri difetti si producono durante il lavoro di scavo della cava perché sottraendo materiale al piede della montagna si alterano i volumi e si creano spesso delle combinazioni di forze che fratturano il marmo; così, magari, il marmo è buono e non ha intrusioni naturali, però è inutilizzabile perché fratturato. I vecchi capicava scoprivano questi difetti in anticipo, anche se poi li spiegavano utilizzando un fraseggio arcaico e certamente non “scientifico” .
 
…i mezzadri dirò che anche la loro attività era caratterizzata non da un solo tipo di professionalità, ma da una professionalità multipla. Dovevano infatti possedere nozioni di veterinaria per poter curare il bestiame, dovevano saper prevedere l’andamento meteorologico, dovevano conoscere le diverse tipologie del terreno presenti nel podere. […]. Notevole il fatto che nelle famiglie contadine queste competenze plurime fossero spesso il risultato di un lunghissimo processo di osservazione, con una trasmissione dell’esperienza attraverso le generazioni che rendevano spesso i mezzadri più competenti degli agronomi nel sapere cosa piantare, dove farlo, come avrebbero reagito le coltivazioni agli eventi straordinari come il grande gelo o la grande siccità.
É interessante notare come la professionalità dei lavoratori nei settori sopra menzionati sia stata sistematicamente diminuita, o persino negata, dai loro datori di lavoro. La stessa sottovalutazione operò anche nei confronti dei lavoratori dell’industria vera e propria. Ho trovato infatti un forte orgoglio di mestiere anche presso gli operai di una serie di importanti industrie fiorentine (e non solo) che negli anni dell’Autunno Caldo erano molto lontane da quella configurazione che noi operaisti immaginavamo ormai definitiva della classe operaia, quella dell’”operaio massa”. Penso alle Officine Galileo, dove una professionalità e una lotta sulla professionalità è continuata a lungo, e la stessa cosa l’ho trovata alla Pignone, sempre a Firenze.7

Ma qui siamo appunto su un piano diverso, dove è la soggettività del lavoro a essere protagonista, di contro alla “formazione” che può essere interpretata come calata dall’alto, subordinata agli interessi aziendali e all’organizzazione del lavoro capitalista. In realtà un sottile trait d’union traspare tra queste due dimensioni già nei passaggi citati, ed è costituito da quei processi di apprendistato informale a cui erano sottoposti i giovani e le giovani nelle campagne, nelle miniere, nelle manifatture ecc…, progressivamente formalizzatosi e istituzionalizzatosi (anche se in precedenza non esisteva solo un apprendistato informale, basti pensare alle forme in cui fin da tempi remoti questo era regolato nelle botteghe artigiane) fino a dar vita agli odierni assetti, che continuano a vedere una dualità tra l’istruzione professionale di tipo scolastico e la formazione professionale somministrata in ambiti diversi dalla scuola.

Possiamo ipotizzare che la prima parte di questo processo abbia attratto l’attenzione degli storici orali, in quanto forma particolare di agency, mentre la seconda sia apparsa come una degenerazione, o un’eterogenesi dei fini. Ma è appunto in questi passaggi, nella verifica di cosa sia effettivamente accaduto e come, che si trova, per dirla con Marc Bloch, la carne per gli storici.8 Un punto da cui potrebbe proficuamente partire un’odierno approccio di storia orale è dato proprio da quanto illuminato a suo tempo dagli attivisti dei movimenti della scuola degli anni Sessanta e Settanta, spesso appartenenti al cattolicesimo del dissenso e alla sinistra extraparlamentare, con le loro inchieste sociali e sulla scuola, da cui emergeva il carattere di classe, di genere e anche geografico (ennesima riproposizione della frattura città-campagna) della dispersione scolastica. Ne da ben conto Alessandro Casellato nel suo saggio introduttivo al numero di «Venetica» del 2012 dedicato alla scuola, illustrando i risultati di una di queste inchieste a Spinea, nella periferia di Mestre, su iniziativa di un parroco, don Giorgio Morlin.

I “renitenti” all’obbligo scolastico abitano soprattutto nelle case isolate, lontane dal centro, in zone rurali. Le motivazioni che i genitori intervistati portano per giustificare le loro scelte sono rivelatrici del permanere di una mentalità e di un modo di vedere l’impegno scolastico che un tempo erano stati molto diffusi nel mondo contadino, e che negli anni Sessanta sono ancora presenti negli ambienti meno coinvolti dai processi di urbanizzazione.
Innanzi tutto pesa la lontananza dal capoluogo e dalla scuola, in un territorio comunale non servito dai mezzi pubblici e nel quale intervengono le distanze anche culturali e di status tra chi vive “in centro” e chi ancora “in campagna” […] Su 90 studenti mancati, 71 sono ragazze; il pregiudizio sull’inutilità dell’istruzione per le donne allignava all’interno delle famiglie, tra le stesse madri.
 
In alcuni casi, la scuola era considerata inutile a migliorare la propria condizione sociale: «Io le scuole le ritengo utili, ma per quelli che hanno la possibilità di andarci. Dato che noi possiamo sistemarli in qualche bottega o fabbrica, perché perdere gli anni di guadagno?». Andare a scuola oltre una certa età era considerato un lusso, mentre il lavoro era la vera palestra di vita, nella quale si imparavano le cose che contano per davvero: «Sono andato a lavorare anch’io quand’ero molto giovane. Può farlo anche lui. Se andasse ancora a scuola sarebbe un peso per la famiglia, mentre invece così ci aiuta!».
L’inchiesta ebbe un seguito: da essa prese avvio un “doposcuola” popolare serale, collocato in uno dei quartieri più popolosi di Spinea e frequentato soprattutto da operai e casalinghe. Accanto a chi rifiutava – per vari motivi – la scuola, esisteva infatti un numero consistente di adulti che esprimevano una domanda di istruzione. In molti casi si trattava di una richiesta finalizzata al conseguimento del diploma di terza media, necessario per ottenere certi lavori. Ma spesso la decisione di tornare a scuola da parte di donne e uomini adulti era anche espressione di un bisogno di stare al passo con l’evoluzione di una società sempre più complessa, nella quale era difficile orientarsi senza un corredo culturale di base. Questo era evidente soprattutto a quanti partecipavano a una cultura urbana e industriale: per costoro, acquisire una istruzione moderna voleva dire emanciparsi e intraprendere un percorso di mobilità sociale.9

Se questi aspetti fornirono, agli attivisti dell’epoca, uno degli impulsi per la costruzione dei doposcuola e delle scuole popolari, mentre al movimento sindacale dettero uno sprone per la rivendicazione delle 150 ore, sono utili anche per noi oggi nel provare a inquadrare il terreno da cui muovere. La domanda ovvia per lo storico è quanto la progressiva “scolarizzazione” della formazione al lavoro all’interno degli istituti tecnici e professionali abbia contribuito ad aumentare il tasso di scolarità ed a combattere la dispersione. La risposta, in senso positivo, è altrettanto ovvia: è sufficiente gettare uno sguardo alle statistiche per poterlo apprezzare da un punto di vista quantitativo. Tuttavia manchiamo a tutt’oggi di numerosi elementi qualitativi, ed è proprio qui che la storia orale può dare un suo contributo nel ricostruire le storie di vita, le traiettorie individuali, fornendo soggettività a queste storie per inserirle all’interno di una ricostruzione più generale, di una storia collettiva come parte della storia sociale italiana, cercando di comprendere anche gli esiti di un processo storico che per certi aspetti non si è ancora del tutto concluso.

Basti pensare all’istituto professionale della mia città, Pistoia, nato come bottega-scuola nel tornante fra XIX e XX secolo con la duplice finalità di formare e fornire manodopera alle piccole manifatture artigiane e di “educare” i poveri e i ceti popolari, poi divenuto una “culla” per generazione di operai della fabbrica di treni e autobus cittadina. Dominato dal genere maschile per decenni, negli ultimi anni ha subito una forte femminilizzazione con l’inserimento di corsi e classi per estetiste e parrucchiere (frequentati da studentesse che, in precedenza, spesso abbandonavano la scuola dopo la terza media o dopo i primissimi anni di scuola secondaria superiore).

In particolare per le donne, come è già emerso dalla citazione precedente, questo rappresenta uno snodo fondamentale. L’accesso delle donne agli istituti tecnici e professionali è un aspetto del lungo processo emancipativo della condizione femminile, e lo stretto legame con la formazione al lavoro, il suo essere percepito come “utile”, facilità l’ingresso, scardinando le diffidenze e gli ostacoli. Questo si apprezza maggiormente durante la cosiddetta “grande trasformazione” dagli anni Cinquanta ai Settanta, quando diviene un fenomeno di massa, ma i suoi inizi risalgono perlomeno all’età liberale. Ma quanto, e come, l’istituzionalizzazione della formazione al lavoro, e poi la sua scolarizzazione, hanno contribuito a modificare l’approccio alla scuola dei gruppi sociali popolari, delle famiglie, nei confronti dell’istruzione?

A questa prima domanda ne possiamo far seguire molte altre. L’integrazione della formazione dentro all’istruzione, negli istituti tecnici e professionali, porta a una elevazione culturale dei ceti popolari o a una loro ghettizzazione nelle scale più basse del sistema educativo? Oppure questi due fenomeni coesistono? L’istruzione professionale si è realizzata a discapito dell’educazione, specie umanistica, oppure una volta inserita all’interno del sistema pubblico contribuisce a rafforzarla e a diffonderla? Come interagisce l’istruzione professionale con i processi di spopolamento delle campagne e dei territori collinari e montani, con la de-ruralizzazione e l’urbanizzazione? Le donne che provengono dagli ambienti rurali che accedono all’istruzione professionale, e in parte anche tecnica, all’interno delle strategie familiari di ricerca del lavoro si ritrovano spesso catapultate in un altro mondo. Si limitano solo ad acquisire competenze tecniche oppure c’è una trasformazione culturale in senso antropologico di queste persone? E se si, come? Questi percorsi dentro a istituti dalla forte caratterizzazione sociale, contribuiscono a costruire reti socio-relazionali e un’identità di classe, che poi si dispiega appieno successivamente nei luoghi di lavoro? Infine, esistono differenze territoriali e nelle subculture regionali in questi processi?

Sono interrogativi non secondari per gli studiosi. La sfida allora è quella di provare a rompere la contrapposizione tra formazione professionale e istruzione per andare a vedere dal basso cosa avviene all’interno di questi processi. In questo, la storia orale è una risorsa strategica, proprio per la sua capacità di far parlare i protagonisti, gli attori sociali, per la possibilità che offre di creare fonti che altrimenti non esisterebbero, andando a indagare le esperienze, le traiettorie di vita, i punti di vista senza voce, che restano fuori dalle statistiche. Ci sono almeno due generazioni in vita che potrebbero essere intervistate, a partire dai nati nel secondo dopoguerra.

E poi ci sono i docenti, e le docenti, con il loro sguardo di lungo periodo, che raccoglie il passaggio di più ondate di studenti (e di migrazioni). Chi erano e chi sono? Come si approcciano al loro lavoro in un territorio difficile come gli istituti professionali? È solo un lavoro o sono animati anche da un senso civico, oppure lo sviluppano progressivamente come conseguenza del tipo di ambiente in cui operano? Che tipo di esperienza è insegnare in questi settori? Ci sono specificità di genere? In cosa sono diversi e in cosa invece assomigliano da chi animava le scuole popolari e le 150 ore?10

Infine, l’indagine su questo crinale si presta anche a interventi di Public History maturi, che non siano divulgazione ma partecipazione, anche di tipo intergenerazionale, e sollecitazione dei problemi che questa storia lascia a tutt’oggi aperti. La pratica dei Workshop sembra in questo caso particolarmente adatta. Per un verso, sarebbe di grande interesse costruire dei “teatri della memoria” coinvolgendo i testimoni, qualcosa di più di un’intervista collettiva ma un momento di discussione e confronto a partire dalla propria esperienza, coordinati dagli storici orali che potrebbero mettere sul tappeto alcune questioni iniziali quali, oltre ai temi già richiamati, anche il tipo di insegnamento impartito, le questioni propriamente tecniche, le tecnologie e le metodologie didattiche utilizzate, la predilezione verso quali materie da parte degli studenti, l’utilità effettiva del percorso formativo svolto nel facilitare poi la ricerca del lavoro, il mondo delle relazioni sociali, l’ambiente scolastico ecc. Dall’altro, si potrebbero sollecitare momenti di confronto intergenerazionale con gli studenti di oggi (in particolare degli istituti tecnici e professionali) che potrebbero intervistare gli ex studenti e lavoratori ma anche essere messi a confronto in maniera orizzontale in dei workshop con i testimoni, invitando entrambi i soggetti a riflettere sulle peculiarità della questione della formazione al lavoro, anche a partire dagli strumenti del passato comparati con quelli del presente, come la tanto discussa Alternanza scuola-lavoro, per comprendere meglio il nesso tra lavoro, formazione e istruzione ma anche per favorire lo sviluppo di una storicizzazione del tema in maniera consapevole, un metodo che avrebbe di per sé anche un risvolto di tipo didattico nei confronti degli attuali studenti. Attività di questo tipo potrebbero anche interagire con i centri culturali che operano nei contesti locali, come il Museo del patrimonio industriale qui a Bologna, laddove inserite in maniera proficua nel calendario delle iniziative, facendo valere gli stretti legami che questi centri intessono con il territorio di riferimento e con le istituzioni scolastiche, che ne verrebbero rafforzati.

In conclusione, per la storia orale una concettualizzazione degli aspetti problematici del nesso tra lavoro, formazione e istruzione, declinata anche secondo le linee di genere, sarebbe forse in grado di innescare una campagna di raccolta di testimonianze i cui esiti potrebbero essere ricchi e per certi versi inaspettati, contribuendo a migliorare la nostra conoscenza delle culture del lavoro e delle classi sociali popolari.


Note

1 Un libro di Lucia Paciaroni conferma la vivacità di questo approccio, presentando una serie di interviste a maestri e maestre delle Marche. Cfr. Lucia Paciaroni, Memorie di scuola. Contributo a una storia delle pratiche didattiche ed educative nelle scuole marchigiane attraverso le testimonianze di maestri e maestre (1945-1985), Urbino, Eum, 2020.

2 Pietro Causarano, Editoriale, in «Rivista di storia dell’educazione» 1 (2016), sezione monografica Lavoro, formazione e educazione in prospettiva storica: sollecitazioni e ipotesi per nuovi campi di ricerca, p. V.

3 Chiara Martinelli, Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico-industriali italiane in età liberale, Roma, Aracne, 2019.

4 Causarano, Editoriale, cit., p. VI.

5 Martinelli, Fare i lavoratori?, cit., pp. 10-11.

6 Paciaroni, Memorie di scuola, cit., pp. 87-179.

7 Giovanni Contini, Le fonti orali per la storia del lavoro, in Un altro 1969: i territori del conflitto in Italia, a cura di Stefano Bartolini, Pietro Causarano, Stefano Gallo, Palermo, NDF, 2020, pp. 199-214.

8 «Il bravo storico, invece, somiglia all’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere dello storico, Torino, Einaudi, 1998 (2009), p. 157.

9 Alessandro Casellato, Uno sguardo d’insieme, in «Venetica» 26 (2012), pp. XVII-XVIII.

10 Il già citato libro della Paciaroni lambisce questi temi, facendo emergere dalle testimonianze diversi spunti di interesse, tuttavia il libro come già detto non è incentrato sulla formazione o sull’istruzione professionale ma sull’educazione ed inoltre l’autrice, nel riportare quanto raccolto con le interviste, non approfondisce in maniera significative queste tematiche sul piano storiografico.