Un altro Sessantanove. Intervista a Stefano Bartolini, Pietro Causarano e Stefano Gallo

Nel dicembre 2019, per il 50° anniversario dell’Autunno caldo, la Camera del Lavoro Metropolitana di Firenze, ha promosso il convegno “Un altro sguardo sul 1969”, in collaborazione con la Società italiana di storia del lavoro (SISLav) e con la partecipazione di altre associazioni storiche e organizzazioni sindacali. Il convegno ha cercato di indagare il rapporto complesso, dinamico, poco studiato fra il conflitto sociale (e industriale, in particolare) e la dimensione territoriale in cui si inserisce. L’Autunno caldo non è stato solo Mirafiori o Sesto San Giovanni, né ha avuto come unico protagonista l’operaio massa, giovane e immigrato. Esiste un altro Autunno caldo, partendo da esperienze considerate periferiche e da territori lasciati ai margini dalla riflessione storiografica.

Occorre, dunque, un allargamento della visuale sul 1969 operaio: Firenze e la Toscana dei distretti, la Terza Italia dell’Umbria e del Veneto, ma anche il Meridione di Napoli e della Basilicata, la Sardegna, Genova, Parma, Casale Monferrato e Bergamo. Dagli atti di quel convegno è nato il libro Un altro sguardo sul 1969. I territori del conflitto in Italia, curato da Stefano Bartolini, Pietro Causarano e Stefano Gallo. L’intervista ai tre curatori è stata realizzata da Eloisa Betti e Diego Graziola. L’immagine di apertura proviene dal fondo fotografico dell’Archivio storico della Camera del lavoro Cgil Pistoia.

Partendo dal titolo, Un altro sguardo sul 1969, qual è la prospettiva originale che il volume da voi curato vuole proporre al lettore?

CAUSARANO: Il libro è figlio di un convegno che si svolse alla fine del 2019 organizzato e sostenuto dalla Camera del lavoro di Firenze e dalla CGIL Toscana in collaborazione con Proteo Fare Sapere, la SISLav, l’AISO, la Fondazione Valore Lavoro e la Fondazione Giuseppe Di Vittorio. L’idea di fondo del convegno e poi del libro è stata quella di collegare la dimensione del lavoro a quella del conflitto sociale più generale, ribaltando due idee dominanti riguardo la rottura della fine degli anni ’60; considerando dunque non solo il ’69 ma anche il ’68 e in generale il ciclo degli anni dal ’67 al ’72-73. La prima è che i movimenti abbiano spinto la società italiana alla mobilitazione. Inizialmente si dice che questo avvenga in una sequenza canonica, partendo dai movimenti studenteschi – in particolare universitari –, anche se in realtà gli studi più recenti hanno mostrato il peso degli studenti medi, che sono una realtà significativa del caso italiano rispetto ad altri contesti europei, per poi successivamente arrivare alla mobilitazione operaia attorno all’esperienza dei delegati e dei Consigli di fabbrica. La società esterna, secondo questa prospettiva, è come se fosse stata investita da queste manifestazioni e in una certa misura mobilitata da queste avanguardie focalizzate nei propri ambiti ma capaci, comunque, di proporre una cultura, dei modelli politici e delle idee generali: di costruire quella che effettivamente si consolida come una egemonia, per quanto con molte fratture al proprio interno nel corso degli anni ’70. Da un lato è vero che la dimensione industriale è centrale nel definire il conflitto sociale dopo il ’69 e in una certa misura anche nel ’68-69, ma questa dimensione, a differenza di altre esperienze europee, è stata capace di proiettarsi al di fuori di se stessa in una prospettiva di emancipazione generale su più livelli, sia culturali sia relazionali. È visibile anche l’aporia del sindacato dei consigli che vuole essere da una parte sindacato di classe ma anche capace di essere sindacato generale e modificare la confederalità, uscendo da se stesso e proponendo un proprio modello a tutta la società: un modello di rappresentanza, di democrazia e di partecipazione. D’altro canto, è necessario chiedersi, ed è quello che noi abbiamo provato a fare, se la società ha solo risposto alle sollecitazioni di questi eventi oppure è stata capace di dimostrare una sua autonomia. Perché in realtà tante cose cominciano a muoversi a più livelli tra il ’67 e il ’69. L’altra idea di fondo da verificare è infatti quella per cui nelle letture del ’69, dell’autunno caldo e in generale di quegli anni, ci siano dei luoghi centrali e dei luoghi periferici; dei luoghi di irradiazione e dei luoghi di assorbimento dei fenomeni, delle idee, delle parole d’ordine e delle forme di mobilitazione. Noi non ci volevamo porre semplicemente il problema di fare un repertorio di altre esperienze rispetto ai luoghi canonici del triangolo industriale, volevamo individuare lo spazio sociale non come una semplice costellazione di luoghi del conflitto ma di veri e propri territori in cui il conflitto si sedimenta, si articola, viene prodotto, vissuto, diffuso: in una parola che viene socialmente costruito. Quindi indagare anche il modo con cui questo conflitto, nel definire la sua dimensione territoriale, si collega al decennio precedente caratterizzato dal centrosinistra ma anche quello successivo. In questo senso è importante l’idea che nell’esperienza di quelle lotte ogni territorio a modo suo è centrale, almeno rispetto agli attori che sono coinvolti e da questo punto di vista volevamo evidenziare le caratteristiche del ’69. Sicuramente ci sono dei luoghi che sono rimasti di più nella memoria e che per il loro peso, anche meramente quantitativo, hanno svolto un ruolo importante; però la tempistica differenziata, i margini di autonomia, la ricezione e la circolazione sono stati ampi. Faccio un esempio: si sottovaluta spesso il ruolo delle industrie pubbliche, delle partecipazioni statali nel ’68-69, che è una struttura aziendale di impresa moderna, ad esempio per la separazione tra proprietà e controllo, tipica dell’industria pubblica italiana e non delle grandi imprese italiane che avevano ancora un nucleo familiare nella gestione e nel controllo. Ecco, per esempio, il rapporto fra le strategie industriali delle imprese pubbliche con i territori a livello nazionale non è sufficientemente conosciuto e indagato e il ruolo, anche dal punto di vista dei contenuti, che l’industria pubblica ha svolto è molto meno conosciuto rispetto a quello dei luoghi canonici, e noi ne abbiamo alcuni esempi nel libro, soprattutto nel Mezzogiorno, la Basilicata e la Sardegna. Possiamo dire che questi sono i due filoni centrali che ci hanno spinto, e su cui abbiamo cercato di far ruotare sia il convegno che il libro.

BARTOLINI: Vorrei aggiungere una cosa, su un’altra lunghezza d’onda rispetto a quanto detto da Pietro Causarano, su cui ho riflettuto di recente: una prospettiva importante che ha questo volume è che punta anche alla microstoria. In alcuni saggi è proprio evidente l’approccio microstorico, magari non del tutto consapevole. Il dato interessante è il tentativo di far emergere le tante storie locali, spesso anche pregevoli, evitando di relegarle nella marginalità storiografica per contribuire in maniera più piena a determinare una visione di insieme di quello che avvenne nel Paese. Nel libro, anche se con una copertura non totale di tutte le singole situazioni regionali, men che meno provinciali, questo tentativo c’è.

GALLO: Quanto detto da Stefano Bartolini è vero anche dal punto di vista della visione politica del ’69. Mi spiego: per quel che mi riguarda, ma era una opinione condivisa, c’è anche una sorta di insofferenza verso quelle letture del conflitto del ’69 molto ancorate a specifiche interpretazioni politiche, spesso di realtà extraparlamentari, che nascono in quel periodo, o di tendenze specifiche che hanno nella grande fabbrica la loro base. La storia del ’69 la devono per forza fare solamente i figli o i reduci politici di quell’esperienza – un’esperienza che unì la forza sindacale e i movimenti extraparlamentari, ma che fondamentalmente è stata spesso raccontata con il punto di vista dei movimenti extraparlamentari – con una forte impostazione teorico-analitica che aveva le basi nella grande fabbrica oppure la questione è più larga, più complessa, più ampia e c’è bisogno di allargare le tipologie degli spazi sociali del conflitto? L’intento è provare a capire se l’unica visione può essere questa oppure se si possono fare emergere dinamiche un po’ diverse. A questo libro si è giunti così: la Camera del Lavoro di Firenze chiede a un gruppo di storici di organizzare qualcosa sul ’69 che abbia a che fare con il territorio fiorentino; il gruppo di storici rilancia, e si chiede perché, invece di limitarsi al territorio fiorentino, non si parta dalla prospettiva di un territorio peculiare come quello fiorentino per provare a rendere più complesso il quadro nazionale, restituire un altro ’69 andando a scardinare quelle visione un po’ stereotipate, un po’ fisse, che continuano a circolare, partendo proprio da una sensibilità che nasce dal fatto di avere le radici in un territorio peculiare. La grande fabbrica c’è anche qui, ma c’è anche tanto altro, tante forme espressive del conflitto che non hanno a che fare esclusivamente con la grande fabbrica. Abbiamo lanciato alla Camera del Lavoro questa proposta, la Camera del Lavoro l’ha fatta propria e siamo riusciti a farne un evento nazionale, anche se non aveva la copertura palmare – come dice Stefano – però insomma ci sono contributi sulla Basilicata, Napoli, il Nord-Est, l’Emilia, Genova. Oltre al discorso geografico c’è un discorso tematico: non solo il conflitto di fabbrica ma anche la lotta per la casa, i movimenti degli impiegati, le iniziative culturali che hanno a che fare con il ’69. C’è insomma il tentativo sia dal punto di vista geografico che tematico di allargare il ventaglio.

CAUSARANO: Una cosa che è venuta fuori dai saggi, compreso il mio su Firenze, è che in realtà le donne sono presenti, le operaie sono presenti, mentre noi tendenzialmente abbiamo un’idea del ’69 fondamentale come ’69 operaio ma proprio nel senso maschile e che le questioni del femminismo, il sindacalismo e il movimento operaio le acquisiscano magari in forma contradditoria e non pienamente consapevole solo successivamente. Questo in parte è vero, ma certi elementi affondano le radici in quelle vicende. Ad esempio, il settore tessile e altri interi settori in cui la presenza della forza lavoro femminile è dominante sono presenti in forma massiccia. L’esperienza dei delegati vuol dire che non arriva più il sindacalista esterno uomo a spiegare la condizione operaia, la lotta e come si fanno le vertenze, perché la rappresentanza di base, i delegati sindacali, sono espressione dei lavoratori e in alcuni contesti delle lavoratrici, quindi, c’è una crescita di autonomia da quel punto di vista, e non a caso nell’esperienza successiva delle 150 ore la presenza femminile sarà massiccia. Il ruolo delle 150 ore nella formazione e nella presa di consapevolezza al femminile del sindacalismo sono decisive, ma affondano le radici in quegli anni lì, di cui però sapevamo poco.

Ridefinendo il rapporto centro-periferia all’interno del volume, quali sono stati gli aspetti che vi hanno colpito nell’indagare i territori ritenuti marginali o periferici? Attraverso l’indagine di casi di studio che non erano stati al centro di ricerche precedenti, cambia anche l’idea di un ’69 concentrato nelle capitali del triangolo industriale e in alcuni luoghi simbolo per le lotte di quell’anno?

CAUSARANO: Sicuramente un punto importante è l’ampiezza settoriale della dimensione del ’68-69, perché noi ritroviamo nel ’68 massicce mobilitazioni di settori tradizionali, caratterizzati da forme di lavoro precario come l’edilizia o l’agricoltura che sono ancora fortemente presenti, voglio dire: gli ultimi due eccidi di piazza – Avola e Battipaglia –, compiuti dalla polizia che usa le armi nelle manifestazioni sindacali non colpiscono gli operai, alla fine del ’68 inizio ‘69, ma colpiscono i contadini ancora, secondo una tradizione che la polizia ha lungamente praticato nella storia repubblicana e non solo. Poi secondo me c’è anche un altro elemento differenziante che tradizionalmente nelle culture del lavoro del ’69 è considerato dominante: la figura dell’operaio massa, dell’operaio comune della fabbrica a produzione di serie. In realtà ci accorgiamo che il ’69 è fatto anche – forse maggioritariamente se uno va a vedere in numeri a livello nazionale – da altre figure professionali del lavoro industriale, questo emerge forse soprattutto nelle piccole e medie imprese. Non è secondaria neppure la mobilitazione del lavoro tecnico-impiegatizio, questo emerge poco forse nel nostro convegno, ma comunque c’è. Nel caso toscano poi emerge la differenza delle forme di mobilitazione, di cultura sindacale, di cultura del lavoro in rapporto al conflitto tra le fabbriche standardizzate a produzione di serie e le fabbriche che hanno mantenuto un forte legame con la tradizione del mestiere, che hanno delle specificità che costituiscono un elemento centrale del tessuto industriale, non solo delle piccole e medie imprese, ma tornando al settore pubblico, per esempio, della siderurgia e della chimica. La siderurgia mantiene fino a metà anni ’70 una forte tradizione innervata nel mestiere ed è però la siderurgia pubblica una delle ossature del movimento sindacale di quegli anni; nel settore chimico i lavoratori nel secondo dopoguerra sono tra quelli più qualificati, inevitabilmente per il tipo di lavoro e mansioni che debbono fare, e infatti hanno anche posizioni e situazioni sindacali che sono diverse da quelle dei metalmeccanici. Ampliando lo sguardo si vede le diversità di culture del lavoro presenti; il dato significativo però è che tutte sono coinvolte: col ’69 comincia anche la sindacalizzazione del pubblico impiego e la trasformazione della sindacalizzazione degli insegnanti, sono culture del lavoro differenti che però entrano in gioco e sono coinvolte da questo modello di sindacalismo industriale, dall’uso del conflitto e dalle forme ad esso collegate che derivano da una tradizione rinnovata col ’69 dal movimento operaio.

BARTOLINI: Colpisce, spostando lo sguardo in periferia, come per altri momenti della storia d’Italia, che non è vero che lì non succede nulla e tutto rimane nel “centro”, ma “succedono cose”. Ciò che accade in quelle periferie non avviene magari precisamente nel ’69, emergono alcune periodizzazioni che hanno a che fare con le storie locali: qualcosa inizia dopo, qualcosa inizia prima. Le date segnanti sono un criterio che si danno gli storici decidendo di prendere come riferimento qualcosa, in questo caso l’autunno caldo del ’69 e la lotta dei metalmeccanici che si inseriscono all’interno di una fase che qualcuno fa partire dal ’62 e che poi continua più a lungo. Quindi abbiamo anche insorgenze, proteste, che noi chiamiamo ’69 ma magari risalgono al 1970, al ’67,’68 o ’71, però rientrano sempre in quel filone lì. Emerge un dato forte della storia italiana, un’unità nella diversità: tutto il territorio italiano comincia a mobilitarsi, con alcune differenze geografiche, culturali, di livello, in questo senso il saggio di Ferrarese sulla Basilicata è esemplificativo. Le rivendicazioni specifiche di quella regione rendono l’idea di una società che nel suo insieme, non solo nella classe operaia, produce certe spinte che diventano un fenomeno più grande che a sua volta dà avvio a momenti rivendicativi basati sulla condizione specifica di quella regione; la stessa cosa si può dire per il saggio sulle lotte per la casa a Napoli. Ci si confronta con un fenomeno che ha un suo livello di unità e anche un’omogeneità a livello nazionale ma allo stesso tempo molte diversità e specifiche che ci restituiscono un quadro più sfaccettato e più problematico di quella fase.

GALLO: Penso a questo proposito al saggio di Stefano Musso su Casale Monferrato perché è un classico esempio di provincia italiana del nord che è fuori dai grandi centri amministrativi, a metà tra Torino, Milano e Genova, ma con un’importanza produttiva non indifferente, in cui se si ricostruisce – come ha fatto Musso partendo da un’esperienza autobiografica ma con il mestiere dello storico – la vicenda del ’69 emergono per esempio l’importanza a livello giovanile del campo Emmaus, legato al mondo cattolico, o l’importanza del centro militare per le reclute, come cambia e come impatta in un piccolo borgo l’esperienza della leva, i circoli che si creano, la rilevanza degli studenti medi che rappresentano il mondo studentesco in una città dove non c’è l’università. Ciò che mi pare interessantissimo è il fatto che al centro ci sono le interconnessioni e gli scambi che si creano tra questi mondi e questo rinforza in qualche modo l’ipotesi di partenza, come dire, emerge come peculiarità di quella fase la capacità che hanno mondi diversi di compenetrarsi e di dialogare, istanze che circolano e trovano dei ricettori in contesti molto differenti: il mondo cattolico, il piccolo borgo con una socialità ancora legata al mondo contadino, ma anche una gioventù irrequieta o ambienti di lavoro con un sindacalismo tradizionale. Questo è vero soprattutto in una prima fase, poi le cose si solidificano e questo lo spiega bene Musso, ma è un’esperienza che ha riscontrato chi ha studiato i movimenti in quella fase: c’è una compenetrazione molto alta in una prima fase, poi si incanalano nelle varie “parrocchie” politiche. L’altra cosa importante che si nota di più in periferia è l’onda lunga del ’69, e anche questo lo si vede a Casale Monferrato e lo racconta benissimo Stefano Musso. Lo si evince ad esempio anche dal saggio di Boschiero sul Veneto: il fatto che ci siano delle esperienze che proseguono e lasciano importanti eredità attraverso le generazioni, e questo è ancora praticamente inesplorato dal punto di vista storiografico.

Stefano Gallo nell’ultimo intervento parlava della questione generazionale e del lascito per le generazioni successive; una parte del volume è dedicata alle autobiografie, alle narrazioni di protagonisti o comunque di chi ha fatto parte di quella generazione. Vi chiediamo a questo punto un approfondimento sull’importanza della questione generazionale e sul rapporto storici-testimoni, sui testimoni/militanti che scrivono della loro esperienza. Quanto incidono tali questioni nell’analisi del ’69 e come si può conoscere di più il ’69 grazie anche a queste narrazioni?

CAUSARANO: Uno degli elementi di originalità di cui siamo orgogliosi è la parte dedicata alle autobiografie di parte, ovvero a tre interventi, in realtà quattro con quello di Boschiero sul Veneto che però è messo a conclusione perché si occupa di una fase successiva rispetto al ’69, in parte si occupa anche degli anni Settanta. Sono tre interventi che si concentrano su come i rispettivi autori rileggono, da intellettuali con esperienze diverse, questa vicenda. Un contributo è quello di Stefano Musso, proveniente da una famiglia di origine operaia che è diventato uno storico, studioso, professore universitario, che racconta come ha vissuto lui e cos’era Casale Monferrato, una periferia industriale del Piemonte industriale, in quegli anni. Casale Monferrato però è anche un ambiente ancora fortemente agrario, caratterizzato da una dimensione di cultura rurale. Un altro saggio è quello di Giorgio Sacchetti, apprendista aretino in quegli anni, anch’egli diventato poi storico, e l’ultimo è di Fossati-Bacigalupi, insegnanti e protagonisti di uno dei primi tentativi di rinnovamento di una cultura non più borghese rispetto agli strumenti della formazione, per la conoscenza scolastica. Questi tentativi sono emblematici indubbiamente di una dimensione generazionale e proprio su questo porrei un’avvertenza: l’insistenza sulla rottura generazionale, i figli che si svincolano dalla tutela dei padri, è molto figlia del fatto che la centralità della ricostruzione della memoria su quegli anni è più centrata sul ’68 che sul ’69 e gli studenti che hanno fatto quell’esperienza sono invecchiati, ma allora erano tutti giovani inevitabilmente, proprio per il ruolo che avevano. Però a me sembra molto più complesso questo tema relativo ai luoghi di lavoro. Ovviamente una rottura generazionale c’è stata e la si vede se si va a studiare il passaggio dalle Commissioni interne ai Consigli di fabbrica, ma è molto sfaccettata questa dinamica. In ogni caso negli anni ’70, ancorché i delegati siano anagraficamente più giovani, c’è stato effettivamente un consistente ricambio anche perché le forme della rappresentanza si sono ampliate e diffuse rispetto a quelle precedenti, all’autunno caldo e allo Statuto dei lavoratori. Bisogna pensare che il ’69, a differenza del ’68 studentesco, non l’hanno fatto solo i giovani operai, e questo lo si vede molto bene fuori dai contesti canonici, perché nel Mezzogiorno, nel Centro Italia, nel Nord Est ma in realtà anche nel Nord Ovest, se si studia effettivamente ciò che è successo alla Fiat ci si accorge che non è che i vecchi operai siano scomparsi; lì ci sono anche altre dinamiche che spesso si sottovalutano: si parla di gente che lavora, e un cinquantenne che ha la famiglia o un quarantenne che ha la famiglia, ha molto meno tempo e disponibilità di un giovane che non ce l’ha e quindi all’interno dei contesti di mobilitazione è ovvio che si strutturano delle forme naturali di divisione del lavoro. In più c’è da dire un’altra cosa: le giovani generazioni sono molto più scolarizzate rispetto a quelle precedenti (e gli uomini molto più delle donne) e quindi si formano dei meccanismi di leadership naturale. Un elemento su cui gli storici dovrebbero soffermarsi – ma forse più per gli anni ’60 che per l’autunno caldo e i primi anni ’70 – è la massiccia immissione di nuove generazioni nel lavoro industriale. Queste comportano una modificazione dell’atteggiamento e della ricerca di senso nel lavoro, e questo è uno dei grandi problemi in cui si troverà a dibattere successivamente il sindacato. Perché è vero che si vuole migliorare il lavoro alla catena di montaggio, ma la catena di montaggio resta la catena di montaggio, almeno negli anni ’70 all’interno del perimetro fordista. Le condizioni di lavoro migliorano ma restano quelle. Quello che cambierà definitivamente sarà il passaggio tra gli anni ’80 e ’90, quando cambia completamente la società industriale, anche grazie a quella rottura. Quindi sì, l’impatto generazionale c’è stato ma bisogna tener conto che anche in quel contesto di egemonia agli scioperi, ai picchetti o alle manifestazioni interne non partecipano solo i giovani e questo lo si vede anche fuori: le battaglie sui diritti, la questione degli asili nido e dei servizi sociali investono nuclei familiari e quindi qualcosa che va ben aldilà del tema delle giovani generazioni.

BARTOLINI: Secondo me è evidente, e Pietro Causarano lo ha sottolineato bene, che se si incentra lo sguardo sul movimento studentesco e sul ’68 si sottolinea fortemente il fattore generazionale, se non altro per un dato fisiologico: si parla infatti di scuola e università. Le ultime ricerche, in particolare quella di Monica Galfré, ci dicono quanto pesino gli studenti medi delle periferie oltre agli universitari. Però è chiaro che si sottolinea un momento di rottura generazionale, perché i tuoi soggetti, i tuoi agenti della storia appartengono a una corte di età di quel tipo lì.

CAUSARANO: Però Stefano, ad esempio Monica Galfré sottolinea il peso degli istituti tecnici e degli istituti professionali; quelli sono ragazzi che sanno che poi da grandi andranno a fare gli operai e che lo faranno tutta la vita e queste sono differenze fondamentali rispetto agli studenti universitari e liceali.

BARTOLINI: Infatti, per citare la mia periferia, Pistoia, il ’68 lo fanno gli studenti dell’istituto tecnico commerciale in primis, poi si aggregano gli altri, ma parte da lì. È comunque un mondo che sta formando impiegati in quel momento ancora in gran parte di fabbrica, non c’è il colletto bianco dell’attualità. Sul luogo di lavoro l’elemento intergenerazionale diventa più centrale, certo ci sono alcuni elementi di spinta. Il classico operaio-massa emigrato dal sud verso nord si porta dietro una sua carica di conflittualità, un suo repertorio, però arriva in un contesto intergenerazionale e qui in qualche modo si ibrida. Faccio un esempio su cui forse non si è riflettuto tanto che ci mostra anche il peso del passato: dal ’69 nascono i Consigli di fabbrica, o meglio riemergono i Consigli di fabbrica; è evidente che su questo fatto ci sia un peso del passato del movimento operaio, che non sono strutture sconosciute, si va a ripescare direttamente in quella storia e in questo giocheranno un ruolo cruciale le culture e le politiche sindacali di più lungo periodo, anche portate da generazioni più anziane che sono lì, che anche se non hanno esperienza diretta magari ne hanno più memoria rispetto ai giovani. Cioè non viene fuori una struttura del tutto inedita come se fosse un movimento nazionale che rompe completamente con il passato e porta del nuovo. Questo secondo me è abbastanza forte nel momento in cui ampliamo il nostro sguardo sul territorio. Qui un’altra volta ritornano centrali questioni che non impattano solo su una generazione ma su più di una: le lotte per la casa investono problemi di più lungo periodo, entrano in gioco anche i ruoli delle famiglie, delle comunità territoriali e locali. Il movimento operaio e la mobilitazione del ’69 ci mostrano un’Italia che nel suo insieme entra in questo sommovimento.

In merito alla tua domanda sulle “autobiografie di parte”, questa è una sezione interessante del libro dove abbiamo fatto un passo avanti rispetto alla storiografia precedente, nel senso che abbiamo sollecitato delle testimonianze che sono anche quello che oggi chiamiamo ego-histoire, ovvero fare la storia che appartiene alla propria esperienza. In questo caso si è voluto in qualche modo svelare la posizione, chiedendo allo stesso tempo di mantenere la postura metodologica dello storico. Questo è stato chiesto a Musso ma anche ad altri, ad esempio Contini che ha affrontato il rapporto tra storia orale e storia del lavoro partendo dal suo percorso biografico. Quando nel suo saggio parla di un testimone che gli raccontava di uno che girava con una Renault 4 rossa con le trombe incitando gli operai alla rivolta, quello che guidava la macchina era Contini stesso! Quindi c’è la postura metodologica da storico ma è anche rivelata la soggettività, infatti, il titolo è “autobiografie di parte”: è storiografia fatta da chi c’era che rivela chi è e si situa, lo rivela immediatamente e ci restituisce tutta la complessità del nostro mestiere: l’essere sempre in una continua mediazione tra la soggettività di chi vive la storia – e che poi magari si pone anche il problema di scriverla nei decenni successivi –, quella storia stessa e la postura metodologica.

GALLO: Quest’ultima cosa che ha detto Stefano Bartolini è interessante. Mi pare che l’aspetto generazionale sia evidente in quei saggi racchiusi nella sezione “autobiografie di parte”, lo è meno negli altri. O quantomeno negli altri contributi è un aspetto che deve dialogare con ulteriori elementi: dalla politica alla questione territoriale, sono caratteri che si relazionano con l’aspetto generazionale, ma che non vengono assorbiti interamente da questo. I saggi autobiografici sono sicuramente, da un certo punto di vista, più ricchi perché avendo un punto di vista soggettivo restituiscono delle sfumature, il sapore di un vissuto che attraverso i documenti non si riesce ad avere. Al tempo stesso però la loro partigianeria, il loro essere situati, li rende in qualche maniera parziali, è una visione dichiaratamente parziale perché è la mia e tramite questa io ti do qualcosa di più ma sicuramente dichiaro qual è il limite. Nel fare questa operazione credo che sia successo qualcosa di interessante: il confronto con gli altri saggi fa emergere la dimensione generazionale che richiamava prima Pietro Causarano, ma in questi saggi in prima persona l’io è un io giovane è l’io del tempo e quindi ha un punto di vista specifico e dichiarato. Questa è in qualche modo anche una questione metodologica abbastanza utile, cioè lo diventa nel momento in cui qualcun altro raccoglie e porta avanti dandone un seguito dal punto di vista della produzione storiografica.

Secondo voi qual è l’attualità, se c’è, o comunque che senso ha a 50 anni di distanza parlare ancora di autunno caldo? Questa stagione di forte conflittualità ha un’importanza secondo voi dal punto di vista sindacale, o anche della memoria del sindacato, visto che avete fatto questo convegno anche in collaborazione con le strutture sindacali?

BARTOLINI: C’è una dimensione che mi incuriosisce molto, che trovo abbia a che fare con la dialettica con il presente, dove siamo oggi. Il volume in tanti aspetti riconferma le letture ormai canoniche della storiografia, lo slogan del movimento in quel momento, “dalla fabbrica alla città”. Secondo me in realtà è un ritorno sul territorio, cioè di un qualcosa che era stata separato – la persona che era stata divisa fra la persona nella sua comunità e la persona in fabbrica – e ritorna sul territorio da dove è partito, ad una dimensione di conflittualità che tiene insieme il luogo di lavoro con il territorio, una dimensione precedentemente molto forte non solo nel sindacalismo agricolo che l’ha in qualche modo insita ma anche in tutte le più piccole manifatture di inizio secolo. Però nel fare questo passaggio di recupero territoriale ci si porta dietro anche altre cose: le battaglie sulla nocività, sulla salute e la sicurezza, che impattano anche sull’ambiente, un tema attuale questo che non riguarda solo il luogo di lavoro. In questo “ritornare” il movimento pone anche il tema molto vasto della cosiddetta democrazia industriale sotto forma di piena cittadinanza anche costituzionale. La Costituzione inizia infatti a sedimentarsi e ad essere matura in quel periodo; diverse norme costituzionali trovano attuazione e si dice anche che la Costituzione entra nelle fabbriche con lo Statuto dei lavoratori. A me sembra che in quel momento il Paese entri definitivamente nella modernità, quella modernità in cui ancora siamo oggi. Sembra un po’ strano perché noi stiamo sempre qui a guardare quanto la società attuale si sia allontanata dai temi posti in quel momento, dai diritti conquistati, però siamo sempre dentro quel tipo di contemporaneità. Il saggio sul Veneto e la battaglia sulla mobilità, sui trasporti, ad esempio quanto è ancora attuale, quanto è ancora moderna quella battaglia? Tantissimo secondo me. E lì viene posta in termini inediti rispetto al passato; cioè non è che la questione della mobilità non ci fosse, però quel tipo di rivendicazione posta in Veneto in quel momento, la gratuità, la contrattazione e quant’altro implicano la piena consapevolezza di essere in una società dove la mobilità è diventata qualcosa di strategico anche per la gestione della vita delle persone, non è più semplicemente il disagio di andare a lavorare in un luogo lontano. È proprio la consapevolezza di una mobilità che diventa strategica: se pensiamo a quanto parliamo di mobilità oggi, questa modernità che in quel momento si afferma è ancora fortemente presente. Un’ultima cosa: in quel momento inizia ad affermarsi anche quel fenomeno che oggi chiamiamo femminismo sindacale; non è che le donne non fossero mai state protagoniste di lotte prima, lo erano state da sempre, le ricerche ce lo consegnano, e di lotte anche forti, radicali, però in quel momento emerge con più forza la consapevolezza politica della condizione femminile. Infatti, emerge con forza la questione dell’autodeterminazione, un tema su cui probabilmente c’è ancora molto da lavorare però è molto interessante, e si sviluppa il femminismo. Questo tema è ancora all’ordine del giorno, basta vedere i movimenti politici e sociali che si agitano oggi. E infatti in quel momento cominciano a nascere anche nuovi radicalismi, che sono quelli caratteristici della modernità attuale, dalla questione della nocività e della salute poi si passa alla questione ambientale che abbiamo ancora oggi – e che ancora oggi ha un nesso dialettico con il mondo del lavoro e della produzione industriale –, la questione del genere e della condizione femminile. Secondo me il dato che dialoga con il presente è un po’ questo, poi ci sono tanti aspetti più puntuali, più immediati che riguardano anche magari le forme della rappresentanza, prendiamo GKN, che ci sta ponendo un’altra volta il problema della rappresentanza sindacale in fabbrica, con questa struttura del Collettivo di fabbrica che, come dichiarano loro stessi, è chiaramente ispirata ai Consigli di fabbrica. Nella fattispecie loro si richiamano ai consigli di fabbrica degli anni ’70, noi possiamo allargare il discorso anche ai Consigli di fabbrica precedenti, però si ritorna un’altra volta a temi che erano stati posti con forza in quel momento: come allargare le maglie della partecipazione, dell’attività sindacale, della rappresentanza in fabbrica, come questa serva come terreno di lotta quotidiano nel luogo di lavoro per contrastare determinate politiche. È significativo che gli operai della GKN dicano che il Collettivo di fabbrica è nato in risposta a un tentativo di cambiamento dell’organizzazione interna del lavoro sul modello Marchionne con la figura del team leader, che una volta si sarebbe chiamato caporeparto o caposquadra o capolinea, in tanti modi: e chi sarebbe costui? È una figura messa lì dall’azienda a cui si chiede di rivolgersi per tutte le questioni relative al lavoro, non solo quelle tecniche, ma anche quelle relative agli assegni famigliari, alla mensa, una sorta di nuovo agente del paternalismo. Allora i lavoratori in risposta si inventano la figura del delegato di raccordo, che poi è una sorta di delegato di linea come si sarebbe chiamato una volta, o delegato di reparto, e come risultato hai un qualcosa che non si chiama Consiglio di fabbrica ma che di fatto lo è. Quindi siamo ancora oggi dentro a quel tipo di modernità emersa nel Novecento.

CAUSARANO: A questa domanda, io risponderei dividendo le due cose: che cosa lascia agli storici e alla storiografia da una parte e cosa può ancora dire alle culture sindacali. Due punti su tutte e due le questioni. Dal punto di vista storiografico il tentativo di questo libro, ma già quello dell’esperienza della Associazione Biondi-Bartolini nel decennale precedente con “1969 e dintorni”, è di affermare il fatto che il ’69 non è semplicemente qualcosa di agganciato al ’68. È dentro a quello che a livello globale chiamiamo Sessantotto, ma ha una sua specificità, una sua autonomia ma soprattutto una capacità proiettiva successiva, perché in realtà l’istituzionalizzazione di gran parte delle trasformazioni sociali e culturali che sono figlie del ’68 passano attraverso il peso che hanno avuto le organizzazioni sindacali e questo vale in particolare per l’Italia ma anche per altri contesti europei, anche perché quel conflitto non è solo italiano ma in realtà è un problema che andrebbe riaffrontato in chiave quantomeno continentale, europea, perché quegli anni andrebbero riletti in tutti i paesi industrializzati. È una fase di passaggio in tutti quei paesi; gli anni ’70 fino all’inizio degli ’80 coincidono con quello che è stato definito da un gruppo di lavoro internazionale, in un volume francese vecchio di qualche anno, “l’apogeo del sindacalismo”. In termini di sindacalizzazione, per esempio, in tutti i paesi industrializzati la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 corrispondono all’apice di quel processo ed è una delle rare volte in cui il sindacato crede di aver trovato il bandolo della matassa del lavoro reale, concreto e organizzato, e di poter incidere sull’organizzazione del lavoro, su come funziona la macchina delle imprese, delle istituzioni, e controllare il mercato interno del lavoro. Da lì a poco tutto questo cambierà. Però l’idea è che tutto questo può essere studiato non solo vedendo il ’68 o il ’69 come un fiume unitario, c’è anche questo elemento, ma diviso, con le sue eccezioni e i suoi tempi differenziati ma anche nella dimensione molecolare. È un’esplosione simile a quanto avviene nei contesti vulcanici: prima molecolarmente viene fuori e poi chimicamente si addensa e si ricompone. In questo senso le istituzioni intermedie, comprese le organizzazioni di massa, svolgono un ruolo importante perché tutte sono messe in questione. Qui ci sono tante differenze a livello europeo, ma in Italia sono state capaci di rispondere indubbiamente a questa esplosione molecolare. L’altro elemento su questo piano che io vorrei sottolineare è che la concezione del conflitto sociale legato al lavoro si giochi dentro i luoghi di lavoro, questa era una fissazione di Bruno Trentin. È una caratteristica molto sottovalutata e messa da parte, spesso anche dagli storici perché la considerano una questione tecnica, che riguarda la pratica sindacale. Il problema è che in tutte queste vicende e nel decennio successivo ciò che è centrale è il luogo di lavoro, che significa principalmente condizioni di lavoro e come queste si proiettano sulle condizioni di vita. Stefano Bartolini faceva riferimento al saggio di Thirion sul pendolarismo e le vertenze sul trasporto locale, un tema direi all’ordine del giorno ma su cui oggi il sindacato è sostanzialmente assente. Il dato interessante è che intorno al tema della mobilità noi vediamo anche come si sta modificando il tessuto urbano. I mezzi di trasporto di massa e la gestione del traporto pubblico sono questioni che hanno a che fare con il lavoro: ci sono inchieste, giustappunto in Veneto, dove emerge che il lavoro porta via 10-11 ore della giornata anche se l’orario ne considera 8, si tratta di ore in più per recarsi e tornare dal lavoro. Io faccio il pendolare e sono fortunato che ho mezz’ora di treno, ma guardate che fa la differenza mezz’ora di treno con il condizionamento degli orari o non doverlo prendere e muoversi in bicicletta o motorino in città a parità di orario di lavoro. Queste sono tutte cose che investono il ruolo del sindacato e che in quegli anni gli è riuscito tenere insieme, c’è stata questa capacità anche egemonica di rappresentare unitariamente tutti i mondi del lavoro attorno a un’idea di lavoro unificato che però è figlia del ‘900 e quindi di quel modello di società industriale, di quel perimetro culturale. Appena cambia la società industriale e l’organizzazione del lavoro, il sindacato rischia di ritrovarsi non dico con un pugno di mosche ma in forte difficoltà.

Passo a trattare le eredità sindacali: molte delle questioni che vengono poste in quei termini in quegli anni sono rimaste fondamentalmente aperte, alcune le richiamava già Stefano Bartolini, un’altra secondo me riguarda la qualità del lavoro, cioè, il tema della mobilità professionale e quindi della mobilità sociale. Per esempio, la questione della flessibilità, intesa come possibilità di cambiare lavoro, non con il significato che ha assunto oggi: quella era una polivalenza nella stabilità e non una flessibilità nella precarietà come quella odierna. Il tema della qualificazione del lavoro, del controllo e dell’autocontrollo sulle prestazioni (quindi poi anche la salute e la sicurezza) sono temi strettamente legati a chi controlla le modalità di erogazione delle prestazioni: tanto meno il lavoratore le controlla quanto più aumentano i rischi sul piano della salute e degli infortuni, peggiora la qualità del lavoro, la fatica. L’ultimo elemento è la formazione, lo butto lì, però per la prima volta il sindacato se ne occupa seriamente dopo il ’69, è un tema figlio del ’69 e di tutte le trasformazioni legate al controllo dell’organizzazione del lavoro e delle aspettative, delle ambizioni individuali e anche del senso da dare al lavoro. D’altro canto, c’è anche l’incomprensione, anche un certo moralismo, derivante dalla tradizione del produttivismo industrialista del sindacato rispetto al fatto che questa scolarizzazione, la crescente formazione, l’acculturamento modifichino il rapporto rispetto al senso del lavoro. Torna qui anche a una problematica relazione con le giovani generazioni.

GALLO: Mi riaggancio a ciò che ha detto Pietro Causarano riconducendolo a ciò da cui siamo partiti. Per raccontare il ’69, che è una fase della storia italiana fondamentale, in un’accezione ampia e per capire ciò che succede dopo e quindi quello che siamo oggi, è fondamentale l’allargamento delle richieste e dei repertori di azione. Ricostruire il ‘69 in una maniera più complessa e svincolata dalla sola realtà di fabbrica, che com’era all’epoca non esiste più. Se rimaniamo ancorati a una modalità di raccontare la fabbrica legata a quei paradigmi di cui si diceva, che oggi sembrano davvero una preistoria (leggendo alcuni lavori d’epoca sembra quasi di leggere delle tavole babilonesi dalla distanza che si percepisce con quel lessico) questo crea un problema: un senso di estraneità e di conseguenza il rischio di buttar via il bambino con l’acqua sporca. È tutta un’esperienza incredibilmente interessante, ma siccome non la riusciamo più a comprendere perché non abbiamo gli strumenti per leggere le tavole babilonesi o comunque ci appaiono molto distanti, noi la mettiamo da parte. Provare ad allargare lo sguardo, sperando che ci sia chi riesca a farlo meglio di noi, serve a cogliere sia le parti che rimanevano fuori dal racconto che al tempo stesso reinserire le parti forti della narrazione in un contesto più leggibile con gli occhi di oggi e quindi restituire in maniera più vivace e più diretta, ma anche più utile e più corrispondente a dei codici contemporanei, una stagione di elaborazioni, di riflessioni e di conflitti. Non scordiamo che l’Italia dell’epoca è molto nota all’estero per ciò che ha prodotto da un punto di vista del conflitto sociale, non è un caso; quell’esperienza però va riletta con un occhiale fabbricato oggi o comunque con un occhiale più vicino alle nostre sensibilità, che poi sono anche le sensibilità della società in cui viviamo e quindi cercare di parlare a un pubblico più vasto e anche al sindacato e alla società civile. Anche gli storici quella fase lì l’hanno un po’ lasciata da parte, se non alcune nicchie che parlano perlopiù a se stesse. Lo si diceva all’inizio: rimettere il ’69 all’interno della storia più ampia e non farne una parentesi tra il ’68 degli studenti e gli anni di piombo è un obiettivo decisivo per la sensibilità storica e per la società di oggi.

Vorremmo chiedere una cosa in particolare a Stefano Bartolini. Tra gli enti promotori del convegno da cui è scaturito il libro figura anche la Fondazione Valore Lavoro di cui sei direttore. Indubbiamente, la Fondazione attraverso questo convegno, il volume e altri progetti sta contribuendo a far emergere degli aspetti inediti della storia del lavoro, della storia del movimento operaio in Toscana. Che tipo di progetti avete per il futuro?

BARTOLINI: La Fondazione Valore Lavoro nasce molto territorializzata in periferia, a Pistoia, partendo dagli archivi della Camera del lavoro di Pistoia, però sin da subito con un afflato più ampio; anche quando ci occupavamo di storia locale con un raggio d’azione limitato alla provincia di Pistoia, inserivamo questi elementi non in una storia localistica ma in un’ottica microstorica, di articolazione locale di qualcosa di più vasto con eventualmente le proprie specificità e le proprie periodizzazioni. Di recente, nel corso del 2021, la Fondazione ha anche acquisito la gestione del Centro di documentazione archivio storico della CGIL Toscana, che chiaramente ha fornito e consolidato una proiezione più larga in parte già praticata, con uno sviluppo su base regionale. Adesso stiamo lavorando alla messa a punto di quella che può essere un’azione più vasta a livello regionale e ci stiamo dotando di un po’ di strumenti che fungono anche da linee guida: da una parte, direi in maniera anche abbastanza consapevole, si sta cercando di riprendere il punto da dove era stato lasciato dalla già nominata Associazione Biondi-Bartolini, insomma riprendere quello spirito di lavoro e rilanciarlo, chiaramente con una nuova struttura, ma nel solco di un’eredità e di un terreno che era già stato dissodato da una persona a cui abbiamo anche dedicato il libro, che non abbiamo finora rammentato ma credo sia doveroso a questo punto farlo, Gigi Falossi, che ci ha lasciato tanto su cui riflettere e anche tanto metodo da portare avanti. C’è quindi innanzitutto anche questo afflato ideale e scientifico. Un’idea è quella di lanciare una collana sui temi della storia e del lavoro in Toscana, magari anche aperta a ottiche diverse, che possa costituire una voce scientifica nel panorama e promuovere una stagione di ricerca, o fornire se non altro un contenitore per le ricerche che in qualche modo circolano, emergono o farne scaturire anche di nuove. Poi ci vorremmo dotare di uno strumento più moderno su cui siamo già al lavoro, che è un sito, un portale di storia del lavoro in Toscana, un luogo di accesso con una mappatura, divisa per territori, che arrivi fino ad oggi. L’intento è mostrare come sono mutati questi territori, i diversi passaggi, la caratterizzazione agricola che hanno avuto, la loro storia industriale, ma anche la storia di deindustrializzazione che hanno avuto e che stanno avendo e infine come si stanno riconvertendo e dove sono assestati oggi, quali sono le nuove economie e quali le nuove classi lavoratrici che li popolano, la questione del terziario, della grande distribuzione, il peso del turismo sulla costa; quindi qualcosa che ci addentri nei vari territori fornendoci anche una mappa di chi già opera sul campo: istituti, musei, archivi, associazioni e quant’altro. L’idea è anche quella di ospitare sul portale una sezione per l’inserimento di banche dati dagli archivi del sindacato che sono la nostra specializzazione. In ultimo abbiamo organizzato un convegno che sta al crocevia fra l’area tematica della storia del lavoro e il modello metodologico della storia orale, sulla storia orale del lavoro. In questo caso la prospettiva è stata più vasta della Toscana, si pensava di farlo a livello nazionale ma alla fine abbiamo avuto addirittura due relazioni di tipo internazionale: un contributo su Cile-Argentina e uno sul Brasile. Senz’altro la storia orale, anche come metodologia di indagine da utilizzare in Toscana, sarà proficua e direi strategica nei prossimi anni.

CAUSARANO: Aggiungo una cosa visto che Stefano Bartolini richiamava la figura di Gigi Falossi. Secondo me fra i programmi a breve termine della Fondazione ma anche di altri soggetti come la SISLav e l’AISO si deve pensare per l’anno prossimo a un convegno per il decennale della morte di Gigi, non tanto per farne una commemorazione, che poi non sarebbe stata nemmeno nello stile e nei desiderata del personaggio, ma proprio per riflettere sul potenziale di modi nuovi in cui è possibile affrontare la storia del lavoro all’interno della società del passato in funzione anche di quella presente. Gigi aveva sempre avuto una tendenza a cercare di aprirsi al di fuori della regione, ad altre situazioni, quantomeno italiane che lui era in grado di controllare e dominare; questo secondo me potrebbe essere un progetto a medio-breve termine sui cui coinvolgere una pluralità di soggetti secondo la tradizione che richiamava Stefano Bartolini che poi è stata anche alla base del modo con cui è nato il convegno e poi il libro, con una differenza di fondo: paradossalmente Gigi era costretto a rincorrere il sindacato per fare le cose, in questo caso è stato il sindacato che è venuto a cercare gli eredi di Gigi per organizzare il convegno sul ’69.

GALLO: Faccio una domanda a Pietro Causarano, i volumi sul ’69 o su questioni operaie fatte dalla Biondi-Bartolini sono dei punti di riferimento in un panorama storiografico scarno, avete rappresentato una bandiera; come vedi questo volume rispetto agli altri? Cambiano la formazione e la sensibilità, però c’è una continuità di approcci e soggetti oppure no, secondo te?

CAUSARANO: C’è una continuità sia di soggetti istituzionali che hanno contribuito, sia delle persone, perché molte che son dietro a questo volume sono le stesse che nel tempo hanno collaborato alla Biondi-Bartolini con Gigi Falossi. L’associazione è stata attiva dal 2000 al 2010, Gigi poi ha proseguito fino a che non è morto fino al 2012. Dal punto di vista del merito dei contenuti secondo me una continuità è rappresentata da questa attenzione al territorio, nelle forme diverse che abbiamo qui richiamato, dall’altra noi abbiamo anche parlato tanto di sindacato, del protagonismo di soggetti e attori sociali e come questi si relazionano e costruiscono e ricostruiscono le organizzazioni che esprimono. Non c’è mai stato il tentativo prima e nemmeno in quest’ultimo volume di contrapporre una sorta di spontaneismo sociale operaio a istituzioni burocratizzate e pletoriche, anche se le istituzioni possono essere burocratizzate e pletoriche, ma per sua caratteristica il sindacato è sempre in mezzo tra movimenti sociali e istituzioni; sono organismi che riescono a funzionare in una dinamica che interagisce e rivitalizza gli uni e gli altri. I movimenti senza le organizzazioni vanno poco lontani. Questi sono gli elementi di continuità. Un elemento di discontinuità rispetto alle attività della Biondi-Bartolini secondo me è che tendenzialmente Gigi e la Biondi-Bartolini, di cui facevo parte anche io, sceglievano le persone da coinvolgere. Si faceva un convegno e ci si chiedeva, in base all’argomento scelto, chi poteva parlarne al meglio e lo si contattava. In questo caso noi ci siamo mossi in un modo diverso, con una call: questo ha voluto dire che fra gli autori e i partecipanti al convegno ci sono non solo giovani studiosi ma anche una bella fetta di precari, ed è interessante anche riflettere su questo tema.

GALLO: Anche non studiosi, io questa cosa la evidenzierei. Penso a Prunetti, Bacigalupi, ecc.

CAUSARANO: Non sono storici ma in realtà nemmeno scienziati sociali o attivi in altri ambiti di studio; sono insegnanti, letterati, organizzatori di cultura. Questo è un elemento interessante, e non a caso si son sentiti sollecitati, proprio perché era quello il tema, forse se li avessimo cercati per qualcos’altro di più convenzionale non li avremmo trovati. E come li abbiamo incrociati? Attraverso una Call for papers buttata nel maremagnum dei social e della comunicazione scientifica. È significativo il fatto che sia arrivata a soggetti che magari non sono pienamente presenti nei circuiti della comunicazione, della circolazione delle informazioni accademiche e scientifiche. C’è stata quindi una forte combinazione e questa era anche l’idea per sollecitare il pluralismo che stava dietro nei territori sociali del conflitto, come si chiamava il titolo del convegno, e questo io credo che sia riuscito. Quello che a me ha colpito, e lo debbo dire, è che mentre nei vecchi lavori, anche della Biondi-Bartolini, la centralità dei luoghi canonici, Torino, Milano, Genova, era presente in maniera significativa, qui è stata superata. Io non sono molto d’accordo sui concetti di centralità e perifericità ma diciamo che i luoghi su cui ci interessava porre attenzione non erano quelli canonici centrali nella memoria e nella rara storiografia sul ’69. Noi pensavamo che potesse essere però l’occasione di rileggere anche in modo nuovo le vicende più note e centrali nella memoria e nella storia dell’autunno caldo e del ’69 e questo paradossalmente invece solo in minima parte lo abbiamo ritrovato e sarebbe una cosa interessante su cui riflettere. È un effetto-rigetto come a volte succede con la Resistenza: dato che sempre si parla di quei posti, poi basta, la gente non ne può più, e l’idea di parlarne in un modo diverso sfuma, perché hanno stufato. Questo, tra l’altro, si lega anche al ruolo che può avere una riflessione rispetto al sindacato oggi, perché questi contesti sono stati messi da parte e spesso proiettati in una cosa ormai inconoscibile, non trasferibile, non comunicabile alle nuove generazioni di quadri e di delegati sindacali con un’aura mitica, tipo chanson de geste del medioevo ma priva di significato attuale, quando invece tante cose son venute fuori nei termini attuali allora.