Introduzione al dossier, con una testimonianza di Vittoriano Ferioli

La casa del popolo è uno spazio gestito da una comunità, entro il quale si svolgono manifestazioni politiche, ricreative, culturali e più in generale associazionistiche1. Si configura come un importante luogo di aggregazione del territorio, con implicazioni mutualistiche e compartecipative, dato che la proprietà è quasi sempre cooperativa o comunque collettiva. La storia delle case del popolo inizia sul finire dell’Ottocento e arriva fino a oggi, ma in questo secolo abbondante, denso di vicende e di mutamenti economici, culturali e istituzionali, esse hanno cambiato pelle più di una volta.

La storiografia ha affrontato lo studio di tale fenomeno a più riprese e certamente si può affermare che di recente il tema è tornato di interesse, soprattutto per un impegno del Circolo cooperatori su questo versante2. Nel 2020 è uscito un nostro libro che ha dato conto di una ricerca qualitativa e quantitativa sul fenomeno delle case del popolo in Romagna3. Rischiando di sembrare immodesti, possiamo affermare che tale pubblicazione ha contribuito a rilanciare un dibattito pubblico, forse non tanto sulla storia delle case del popolo, ma certamente sul loro presente e sul loro futuro.

Ma le case del popolo non sono una specificità romagnola, pur se in quest’area si colloca una delle più repentine e straordinarie affermazioni del fenomeno. Esse esistono – talvolta con nomi simili, ma non troppo differenti – in varie altre regioni italiane, in particolare centro-settentrionali. E anzi, come spiegheremo fra poco, il fenomeno presenta addirittura dimensioni europee. Come anticipato, nel XIX e nel XX secolo, la casa del popolo appariva uno spazio autogestito da una comunità, destinato a manifestazioni di carattere politico, attività ricreative e di altro genere. Nacque per il bisogno di avere un luogo destinato a tale scopo.

Naturalmente, nell’incipiente società di massa, varie forze politiche avevano l’ambizione di creare spazi che favorissero l’aggregazione, così da intercettare una parte della società civile e avvicinarla al proprio alveo ideologico, in particolare soddisfacendo i nuovi bisogni di sociabilità, cultura e ricreazione che andavano emergendo all’interno delle classi lavoratrici, in forme peculiari e alternative rispetto a quelle delle classi superiori. E quindi si aveva bisogno di luoghi di incontro e di discussione, che potessero ospitare iniziative culturali o di altra natura. Indubbiamente, nel panorama italiano4, le case del popolo romagnole spiccano su tutte le restanti esperienze. Tra queste altre, molte sono emiliane per lo più riferite alla provincia reggiana5 e a quella bolognese6.

Ma oltre alle numerose ricerche sulle case del popolo dell’area emiliano-romagnola, ce ne sono state diverse altre riferite a casi di studio di ulteriori aree geografiche. Possiamo senz’altro citare la Toscana7, il Triveneto8 e il Piemonte9.

E come detto ci sono anche importanti esperienze estere, ovvero le case del popolo del movimento dei lavoratori nelle principali città europee10. Il Belgio fu probabilmente il paese con la più antica e fiorente esperienza di maisons du peuple o maisons des travailleurs. La prima fu realizzata a Jolimont nel 1872, e può fregiarsi del titolo di più antica casa del popolo europea. La maison du peuple di Bruxelles, detta anche volkshuis, in fiammingo, fu costruita tra il 1896 e il 1899. Inaugurata il 2 aprile di quest’ultimo anno appariva nella sua imponenza di edificio Art Nouveau un punto di riferimento a livello continentale11. A Gand, una maison du peuple analoga, chiamata Ons Huis (in fiammingo, «casa nostra»), fu inaugurata sempre nel 189912. La prima esperienza francese fu la maison du peuple di Clichy (1900), seguita da quella di Nantes nel 1902. In Spagna – dove nel 1936, alla vigilia della guerra civile, si contavano 900 casas del pueblo, cioè case del popolo – la prima fu costruita a Montijo, vicino a Badajoz, nel 1901. La Casa del Pueblo di Madrid, invece, fu realizzata nel 1908, e anch’essa per fattezze e dimensioni spiccava nel panorama nazionale e internazionale13.

In Danimarca le case del popolo avevano il nome di folkets hus. La prima fu fondata a Copenhagen nel 1879. A questa esperienza seguirono quelle di Helsingør (1889) e Aarhus (1892). Lo stesso nome era utilizzato in Svezia: qui la prima sorse a Kristianstad nel 1899. In Finlandia la prima casa del popolo (työväentalo) sorse a Tampere nel 1900. In Germania, invece, avevano il nome di volkshaus. La prima fu costruita a Jena, tra il 1898 e il 1903. A questa seguirono poi quelle di Lipsia e di Halle-sur-Saale, entrambe inaugurate nel 1906. In Austria-Ungheria, le prime due case del popolo (arbeiterheim) sorsero a Vienna, nel 1902 e nel 1907, nei quartieri Favoriten e Ottakring. In Svizzera l’esperienza più antica fu quella della volkshaus di San Gallo, del 1899.

Anche altri paesi europei svilupparono esperienze di case del popolo, pur se in una cornice politica sensibilmente differente. In Russia, ad esempio, l’esperienza dei narodnj dom appare legato al paternalismo zarista. Quella della città di Tomsk risale al 1882 ed è la più vecchia del paese. Tra le più importanti, invece, ricordiamo la casa del popolo di San Pietroburgo, intitolata allo zar Nicola II. Anche in Inghilterra, nonostante qui fossero nati i primi sindacati e le prime cooperative, la people’s house (o people’s palace) non fu troppo legata al movimento operaio, risultando un centro culturale promosso dai fautori della temperanza in antitesi al pub14.

C’erano alcune differenze fondamentali tra tutte queste esperienze e quelle italiane. Innanzi tutto, in praticamente tutti i paesi europei le case del popolo erano di esclusiva espressione della cultura politica socialista, mentre in Italia, e in particolare Romagna, a questa si affiancava la tradizione repubblicana. In secondo luogo, le case del popolo delle principali città europee erano spesso grandi edifici, che fungevano da sede di partito, da luogo di organizzazione sindacale, da centro politico cruciale di un territorio molto vasto. In questo senso assomigliavano anche alle camere del lavoro italiane. Non a caso, si tende a inserire nell’esperienza delle case del popolo francesi anche la Bourse du Travail di Parigi, costruita fra il 1888 e il 1896, ma già funzionante dal 1892. Appariva come un gigantesco edificio in stile Rinascimento, che faceva da riferimento per il movimento operaio della capitale francese15.

Infine, vi era un’altra differenza importante, relativa alla proprietà dell’edificio, che a Madrid, a Copenaghen o a Bruxelles era in capo a un’organizzazione politico-sindacale. Viceversa, a livello giuridico e statutario, la maggioranza delle case del popolo nate in Italia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo aveva una natura cooperativa. E lo stesso si può affermare per quelle del secondo dopoguerra. Vale a dire che erano registrate come imprese o associazioni con finalità culturali e ricreative, con una proprietà collettiva composta dai soci che avevano contribuito concretamente a realizzarla. In questo senso, l’esperienza delle case del popolo del nostro paese appare meglio collegata al mutuo soccorso, al movimento cooperativo e più in generale all’associazionismo.

Relativamente a questi temi, la storiografia si è concentrata essenzialmente su due aspetti. Il primo è l’analisi dei contenuti politici delle case del popolo, in quanto luoghi di discussione che spesso erano anche sede di sezioni locali dei partiti a cui aderivano i soci della cooperativa e di altre organizzazioni e associazioni afferenti alla medesima subcultura politica (sindacati, associazioni femminili o ricreativo-culturali, ecc.). Il secondo è il tema del cambiamento a seguito dell’onda lunga del boom economico: in una società sempre più contraddistinta dalla motorizzazione di massa, dal moltiplicarsi di bar, cinema, discoteche e altri locali, la casa del popolo ha perso la sua importanza originaria, finendo per essere percepita come un luogo tra i tanti.

Alla luce di queste considerazioni, l’intento di questo «dossier» è quello di allargare lo sguardo storiografico ad altri territori e a nuovi temi. Molto probabilmente, il futuro della ricerca sulle case del popolo sarà sempre più contraddistinto da una metodologia comparativa. Già di recente all’approccio più propriamente storico si è affiancato con efficacia quello antropologico16. Questo dossier, quindi, ospita saggi con vari tagli interpretativi, e riferiti a casi di studio su aree geografiche differenti, ma anche a tematiche che spaziano dal contesto politico a quello culturale. L’intento è proprio quello di comporre un mosaico che avvicini il lettore alla complessità del fenomeno.

A tal proposito, vogliamo completare questa introduzione con un’appendice che raccoglie la bella testimonianza di Vittoriano Ferioli, cooperatore e animatore delle case del popolo in Lombardia, che in questa regione hanno il nome di circoli cooperativi. Pur essendo la Lombardia storicamente un’area con forti vocazioni mutualistiche17, ad oggi la storiografia ha sostanzialmente trascurato il fenomeno dei circoli cooperativi. La testimonianza suaccennata compensa parzialmente questo vuoto e soprattutto funge da invito e da stimolo per l’avvio di ricerche su questo contesto.

 

Appendice

Le case del popolo in Lombardia si chiamano circoli cooperativi, una testimonianza di Vittoriano Ferioli, da ventinove anni Presidente del Circolo sociale Fratellanza e Pace di Legnano, e per dieci anni Coordinatore dei Circoli Cooperativi di Legacoop Lombardia.

Non ho un’esperienza diretta con delle case del popolo romagnole, ma penso che i circoli cooperativi lombardi le assomiglino molto. Sono nati alla fine dell’Ottocento. A Bancole, in provincia di Mantova c’è forse il più antico Circolo di Lombardia, datato 1868. La cooperativa ancora attiva, ma è cosa rara. Lo sviluppo si ebbe agli inizi del Novecento e poi nel dopoguerra sino al 1980. Da qui inizia una lenta ma continua decadenza di una storia popolare e di esperienze incredibilmente ricche: di conquiste, di emancipazione, di diritti, di lotte sindacali, di battaglie politiche e sociali. Ora senza entrare in analisi particolari che ci porterebbero verso altri argomenti, posso dire senza essere smentito che mentre a Legacoop Lombardia aderirono oltre a circoli che definirei laici, i circoli cooperativi che si rifacevano alla visione comunista, socialista e poi in alcuni casi alle frange extraparlamentari, mentre a Confcooperative aderirono i circoli di area o credo cattolico. Oggi di quelle impronte politiche restano solo delle tracce qua e là più marcate, ma certamente rimangono i valori cooperativi tutelati negli statuti, mentre la partecipazione politica si è fortemente modificata e adeguata alle trasformazioni avvenute nella società nazionale.

Per cui preferisco partire da una definizione istituzionale: la legge Regionale 36 tra Regione Lombardia e Cooperazione, del novembre 2015, all’articolo 12 definisce così i Circoli: «Si definiscono Circoli Cooperativi le Società cooperative il cui scopo principale è la gestione di centri di aggregazione e promozione sociale, anche con attività di somministrazione di alimenti e bevande, che realizzano iniziative socio-educative, solidali, ricreative e del tempo libero».

Avendo contribuito alla sua formulazione non posso che condividerla, e che un circolo non sia un semplice bar o un ristorante è bene che la legge regionale lo specifichi e fa piacere leggerlo. I circoli nel vasto mondo della cooperazione sono cooperative d’utenza, e sono aperti a tutti i cittadini, operano con licenze di pubblico esercizio. Poi nel contesto della somministrazione sono un soggetto altro perché da sempre propongono sia l’attività di bar e/o ristoro quale luogo d’incontro, ma anche la partecipazione sociale e altre attività varie, con particolarità solidali, culturali, educative, fino alle più frequenti e caratteristiche da sempre, quelle ludico-ricreative: i giochi da tavolo, le carte, le bocce, le feste danzanti. I circoli sono luoghi di ritrovo utili all’incontro, quindi con un tratto comune con le case del popolo, che direi fondamentale: luoghi gestiti e amministrati da liberi cittadini in forma associativa e cooperativa senza scopo di lucro.

Vorrei ora approfondire il tema dell’aggregazione, tra valori, cultura e impresa. Cosa fosse o a cosa servisse un circolo fino alla fine degli anni sessanta più o meno lo si sapeva; cosa dovrebbe essere oggi potrebbe essere più complesso e qualcuno trova normale chiedere se hanno ancora senso i circoli con tutto quello che oramai offre il mercato e la società per il tempo libero. La risposta per me, oltre ad essere affermativa, apre ad un ampio territorio sociale dove l’utilità del circolo, se non la sua necessità, deve essere riaffermata e valorizzata. È evidente che si sono modificati i riferimenti legati alla politica: come dicevo prima i partiti si sono trasformati in continuo e le appartenenze, frequentate per anni e che hanno marchiato anche le nostre insegne, oggi sono meno obbligate, oltre che commercialmente sconvenienti. Inoltre, ci troviamo a vivere in una società in rapido mutamento, con un mercato soggetto a continue sollecitazioni e cambiamenti. Tutto questo produce per ambiti non strettamente professionali, come possono essere i circoli, una sensazione disorientante. Ma ieri come oggi un circolo deve sapere da dove viene, perché è nato, quali fattori l’hanno caratterizzato e se risponde ancora ai bisogni dei propri soci e cittadini.

La questione complicata, semmai, è come rispondere alle dinamiche economiche in una società sempre più orientata al profitto e al versante commerciale, che tende a relegare le attività sociali e culturali in ambiti marginali, bollate da giudizi antieconomici. A tal proposito, è tristemente famosa l’affermazione «con la cultura non si mangia» dall’ex ministro Tremonti e ahinoi condivisa da molti altri. Come circoli, intanto, dovremmo affermare che con le nostre attività, bistrattate ma utili alla società, dobbiamo mangiare; il problema semmai è: ma quanto si mangia?

Vorrei esplicitare un aspetto, già prima richiamato: i circoli cooperativi sono necessari. Negli anni durante i quali ho operato come coordinatore regionale ho sempre sostenuto che i circoli sono principalmente luoghi di ritrovo e di aggregazione, che rispondono ad un bisogno preciso, ieri come oggi e auspicabilmente per molto tempo ancora. Oltre a vendere un bicchiere di vino o una birra, i circoli producono un bene immateriale, non economicamente misurabile ma prezioso per la nostra società: producono relazioni e possono animare interessi e passioni. Si tratta di una medicina incredibilmente utile contro solitudine, isolamento, emarginazione, malesseri che compaiono a qualsiasi età e sempre più spesso nel nostro modo di vivere metropolitano. A qualsiasi età si può iniziare a soffrire di depressione, di malanni causati da stress o di ansia da prestazioni. Ora nei circoli non so se ci siano regolari corsi antistress o metodologie antidepressive, ma regolarmente avviene l’incontro con «amici», lo scambio fra generazioni diverse: i pensionati e i giovani, i lavoratori e gli studenti, coloro che hanno bisogno di una pausa e coloro che non vogliono stare da soli.

Nei circoli ci si mette attorno a un tavolo, per giocare o riunirsi, con accanto a un bicchiere o davanti un piatto di pasta. Sotto un palco nascono amicizie e si dà spazio a progetti e idee, perché i circoli sono luoghi di relazioni, dove trovare occasioni di svago e di utilità sociale, dove darsi da fare o semplicemente stare, ognuno a modo suo. Pensateci bene, ma nei circoli come nelle case del popolo si distribuisce una «medicina» straordinaria e impalpabile fatta di sana socialità.

Passiamo al versante dell’impresa. Se quanto sopra espresso è chiaro, un circolo sa che oggi deve saper interpretare le trasformazioni sociali e commerciali, adattarsi alla contemporaneità, indicare il bagaglio valoriale, leggere le nuove regole, proporsi nel mercato consapevole del proprio ruolo, trovare nuove risorse economiche in tutte le sue attività, che siano culturali, educative e gastronomiche.

Tener vivo questo patrimonio di esperienze e convivialità non è semplice e di questi tempi non è sempre economicamente sostenibile, perché non si opera per business e i listini devono rispecchiare il lato popolare del circolo. Questo dovrebbe essere meglio capito dalle istituzioni e da quei soggetti decisori che possono agire con politiche attive e contribuire al sostegno di esperienze della società civile. Ma, nonostante la legge Regionale sopra citata, la miopia istituzionale purtroppo è molto diffusa.

Io ho sempre detto di non fermarsi alla sola ricerca di un buon barista per gestire bene un circolo, perché un circolo non può essere solo un bar. Occorre relazionarsi sempre con le associazioni del territorio, siano esse sportive o culturali, e coi gruppi e gli esperti di arti o discipline. Bisogna sviluppare lo spettacolo, inventare progetti educativi, agganciare passioni e occasioni d’incontro attraverso le arti o le conoscenze ed arricchire di attività il circolo. E tutte queste attività, se possibile devono essere, accompagnate da un incasso, perché un circolo non può vivere solo di vino e patatine.

L’esempio realizzato più di 30 anni fa nel mio circolo a Legnano continuo a suggerirlo in ogni occasione: «dove possibile, sostituite il campo da bocce inutilizzato con un palco e aprite alle arti espressive» Spesso si può far pagare un biglietto d’ingresso o valorizzare diversamente una cena. I circoli, come le case del popolo, sono «beni comuni», ovvero ricchezza per il territorio. E se non li difendiamo economicamente moriranno nonostante la loro utilità.


Note

1 Nell’immagine di apertura: pubblico a un dibattito alla casa del popolo di Sant’Egidio (Cesena), 1965.

2 Si rimanda all’intervista a Giancarlo Ciani da parte di Laura Tavilla in questo dossier.

3 Tito Menzani, Federico Morgagni, Nel cuore della comunità. Storia delle case del popolo in Romagna, Milano, Franco Angeli, 2020.

4 Maurizio Degl’Innocenti (a cura di), Le case del popolo in Europa. Dalle origini alla seconda guerra mondiale, Firenze, Sansoni, 1984.

5 Antonio Rangoni, La Casa del popolo di Correggio (1905-1954), Correggio, Società di studi storici, 2006; Antonio Canovi, Marco Fincardi, Roberta Pavarini, Mauro Poletti, Renzo Testi, (a cura di), Di nuovo a Massenzatico. Storie e geografie della cooperazione e delle case del popolo, Soveria Mannelli, Rubettino, 2012.

6 Mario Gandini, Le Case del popolo a S. Giovanni in Persiceto. XXV della fondazione della Casa del popolo «Loredano Bizzarri», San Giovanni in Persiceto, s.n., 1974; Learco Andalò, Come sorsero le Case del popolo, in 80 anni di Camera del lavoro a Imola, Imola, Cooperativa editrice Anselmo Marabini, 1981, pp. 25-37; Cinzia Venturoli, Cent’anni di storia. La Cooperativa Casa del popolo di Anzola dell’Emilia, Crespellano, Piccinini, 2006; Saveria Bologna, La casa delle associazioni operaie. Le Case del popolo nel Bolognese prima del fascismo, in «l’Almanacco», nn. 55-56, 2010, pp. 113-122 e 57, 2011, pp. 21-38.

7 Alessandro Angiolini, La Casa del popolo e la Casa del Fascio ad Abbadia di Montepulciano. Storia di lotte politiche, violenze e omicidi dal «Biennio Rosso» al secondo dopoguerra, Siena, I libri di polis, 2007; Antonio Fanelli, A casa del popolo. Antropologia e storia dell’associazionismo ricreativo, Roma, Donzelli, 2014.

8 Luciano Chilese, Vicenza operaia: le origini del socialismo urbano tra mutualità, cooperazione e resistenza, in Emilio Franzina (a cura di), La classe, gli uomini e i partiti. Storia del movimento operaio e socialista in una provincia bianca: il Vicentino (1873-1948), Vicenza, Odeonlibri, 1982, vol. I, pp. 311-344; Tiziano Merlin, L’osteria, gli anarchici e “la boje” nel basso Veneto. Rivolte e movimenti contadini nella Valle padana di fine Ottocento, in «Annale dell’Istituto Alcide Cervi», n. 6, 1984, pp. 171-201; Gian Luigi Bettoli, Case del Popolo nel Friuli Occidentale. Prime sedi dell’organizzazione socialista a Torre di Pordenone ed a Castelnuovo del Friuli, Prato Carnico, s.n., 2002; Teresina Degan, La Casa del popolo nella storia di Torre, Pordenone, Euro 92, 2003.

9 Gabriele Invernizzi, La Casa del popolo di Trecate: 1893-1965, Novara, Società cooperativa Casa del popolo di Trecate, 1965; Luigi Moranino, La casa del popolo di Crocemosso, Pollone, Leone & Griffa, 1992.

10 Marco De Michelis (a cura di), Case del popolo. Un’architettura monumentale del moderno, Venezia, Marsilio, 1986; Margareth Kohn, Radical Space. Building the House of the People, Ithaca-Londra, Cornell Università Press, 2003.

11 Cfr. Robert Flagothier, Contributo allo studio delle case del popolo in Vallonia e a Bruxelles (1872-1982), in Degl’Innocenti (a cura di), Le case del popolo in Europa, cit., pp. 271-310; Franco Borsi, Victor Horta e la Maison du Peuple di Bruxelles, in De Michelis (a cura di), Case del popolo, cit., pp. 43-53; Roberto Nasi, La Maison du peuple di Bruxelles, in Di nuovo a Massenzatico, cit., pp. 87-100.

12 Jean Moors, La belle époque des maison du peuple en province de Liège, Liegi, Grâce-Hollogne, 2007; Antonio Canovi, Case comuni. Osservazioni sull’invenzione del socialismo tra Gand e Massenzatico, in Di nuovo a Massenzatico, cit., pp. 231-294.

13 Jean Lois Guereña, Les socialistes espagnols et la culture. La “Casa del Pueblo” de Madrid au début du XX siècle, in Jacques Maurice, Brigitte Magnien, Danièle Bussy-Genevois (a cura di), Culture et Société. Peuple, mouvement ouvrier, culture dans l’Espagne contemporaine. Culture populaires, cultures ouvières en Espagne de 1840 à 1936, Saint-Denis, Presses universitaires de Vinciennes, 1990, pp. 23-37; Jean Lois Guereña, Las Casas del Pueblo y la educacion obrera a principios del siglo XX, in «Hispania», n. 178, 1991, pp. 645-692; Francisco De Luis Martìn, Luis Aria Gonzàles, Las Casas del Pueblo socialistas en España (1900-1936), Estudio social y arquitectonico, Barcellona, Ariel Historia, 1997.

14 Rebecca Smith, The Temperance Movement and Class Struggle in Victorian England, New Orleans, Department of History of Loyola university, 1993.

15 Jean L. Cohen, Dalle borse del lavoro al tempo libero: le trasformazioni della socialità operaia (Francia 1914-1939), in De Michelis (a cura di), Case del popolo, cit., pp. 93-113.

16 Fanelli, A casa del popolo, cit.; Alison Sánchez Hall, “Tutti o nessuno”. La rivoluzione cooperativa dei braccianti di Romagna, Ravenna, Giorgio Pozzi, 2019.

17 Mattia Granata, La Lombardia cooperativa. La Lega nazionale cooperative e mutue nel secondo dopoguerra, Milano, Franco Angeli, 2002.