Borgata Paraloup, situata nel comune di Rittana in Valle Stura, è un luogo di memoria legato alla storia della Resistenza che, per usare le parole di Marco Revelli, fu “una fucina di democrazia per circa 150 giovani ventenni di tutta Italia, che qui si radunarono per essere trasformati in partigiani”. In questi luoghi, tra il settembre 1943 e la primavera del 1944 si organizzò il primo quartier generale delle bande partigiane di Giustizia e Libertà del cuneese, capitanato fra gli altri da Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Giorgio Bocca e, in seguito, Nuto Revelli.
Per valorizzare questo luogo denso di storia, a Rittana è stato realizzato un “museo diffuso”, termine coniato dall’architetto Fredi Drugman negli anni Settanta che si riferisce al ruolo del museo nella tutela e valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale di un territorio e che si sostanzia in una rete di luoghi legati da una narrazione. Della realtà di Paraloup è parte fondamentale dal 2020 anche un Museo dei racconti. Ne abbiamo parlato con Beatrice Verri, direttrice della Fondazione Nuto Revelli. L’intervista è a cura di Paola E. Boccalatte.
Da quale consapevolezza nasce la volontà di costruire un percorso di questo tipo?
L’idea di dotare la Borgata Paraloup di una sala espositiva che, attraverso l’elemento del racconto, desse voce agli abitanti di questi luoghi è stata presente fin dalle origini del progetto di recupero. Le persone che frequentano la borgata hanno sempre chiesto quale fossero le ragioni storiche e sociali della rigenerazione del luogo, e la Fondazione Nuto Revelli, che è stata l’anima e il motore del suo recupero, conserva e valorizza un archivio storico e sonoro in grado di raccontare la storia di quel luogo nel tempo e il mutare delle sue genti. Da qui l’avvio del progetto di ricerca che ha portato all’allestimento del Museo dei racconti, che è stato naturale inserire nel circuito del Museo diffuso di Rittana, il capoluogo, così da proseguire un allestimento territoriale di Valle e tenere attivo il dialogo con la comunità.
Nell’estate del 2020 in Borgata Paraloup, dove sono già presenti un teatro, una cineteca e un sentiero a realtà aumentata, nasce il Museo dei racconti, un’installazione multimediale interattiva ospitata in una delle baite oggetto di recupero e rifunzionalizzazione. Potremmo anche definirlo “centro d’interpretazione”, per usare un’espressione più tecnica e meno comunicativa, di quel territorio e delle storie che racchiude. Perché avete voluto chiamarlo Museo nonostante non presenti degli oggetti, come invece il pubblico potrebbe aspettarsi?
Sull’uso del termine “museo” si è molto dibattuto dentro e fuori il comitato scientifico, e ancora si dibatte. Da un lato, il termine, come hai giustamente rilevato, non sembra così adatto a un’installazione multimediale interattiva, per quanto permanente. Non sono esposti oggetti: il corpus espositivo è costituito dalle voci, dai racconti dei testimoni delle varie stagioni di Paraloup. Tuttavia, nella configurazione topografica della Borgata, fin dalla progettazione iniziale, si è sempre parlato di “museo” e di musei si ragiona quando si parla di luoghi di memoria visitabili o quando ci si rapporta agli enti istituzionali di riferimento, che parlano di “reti museali”. Così ci si è orientati per un’espressione volendo un po’ provocatoria come il “Museo dei racconti”.
Il Museo dei racconti è, a tutti gli effetti, un’operazione di public history, condotta con rigore scientifico e l’utilizzo di strumenti digitali. Vorrei ci raccontassi qualcosa a proposito del linguaggio utilizzato da questa installazione, del tipo di narrazione proposta, della scelta delle immagini, delle parole e del dispositivo, che è insieme strumento e interpretazione.
L’installazione è stata concepita come immersiva e interattiva: il visitatore scosta la tenda oscurante, entra nella sala, si avvicina alla linea del tempo e la scorre, individuando quale stagione della storia di Paraloup attivare. Le stagioni sono quattro: 1861-1935, momento di indagine delle radici della civiltà contadina, quella delle migrazioni stagionali, che ha vissuto la tragedia della Prima Guerra Mondiale, che ha visto l’ascesa del Fascismo; 1943-1945: la generazione delle scelte, della Lotta di Liberazione dal nazifascismo, il caso particolare della Resistenza di comunità di Paraloup; 1960-1980: lo spopolamento delle valli alpine con l’apertura delle grandi fabbriche a fondovalle (Michelin, Ferrero, Miroglio); 2008-oggi: la stagione dei ritorni e della rigenerazione di Paraloup, le prospettive di ritorno nelle Alpi come territorio aperto, innovativo, inclusivo e sostenibile. Dopo una breve introduzione per ogni epoca, è il visitatore a scegliere quali domande porre ai protagonisti, innescando un dialogo inter-epocale e inter-generazionale. Il mezzo scelto è digitale, ma un digitale rispettoso, che ha saputo mettersi in ascolto della Storia e, attraverso una sorta di “mise en abȋme”, stimola ma non soverchia il contenuto. Le immagini, fotografie del contesto alpino, storiche e d’archivio, si compongono davanti agli occhi di chi ascolta come ideale completamento del racconto e come raccordo all’oggi. Le finestre della sala sono oscurate ma si intravedono le facciate in pietra delle baite circostanti così che, come in ogni punto di Paraloup, il luogo partecipa del racconto della propria storia.
Sappiamo che ormai è presupposto di ogni operazione museale l’intenzione di raggiungere un pubblico ampio, ma questo pubblico (o per meglio dire pubblici) è composito e presenta esigenze peculiari e ampie. A chi vi siete rivolti prioritariamente? E ti chiedo, provocatoriamente, c’è un pubblico che questo museo non può raggiungere?
La fortuna di Paraloup è quella di intercettare, per la sua ubicazione, un pubblico molto eterogeneo: ogni anno dal sentiero che lambisce la borgata, che è un percorso turistico di outdoor molto frequentato, passano oltre 30.000 persone che fanno trekking o vanno in mountain bike. A questo pubblico, molto interessante per un nuovo centro culturale che voglia evitare la trappola dell’autoreferenzialità, si aggiungono gli appassionati di storia, architettura, rigenerazione rurale che ci “cercano” e, infine, target per noi importante e privilegiato, le scuole, che si recano in viaggio di istruzione. Nel pensare alle domande, ci siamo messi anche nei panni dei bambini, così ai partigiani si può anche chiedere come passavano il tempo quando non combattevano, cosa mangiavano o se si innamoravano. Abbiamo cercato di fare in modo che nessuno si sentisse escluso, ipoteticamente è un museo che si può anche solo ascoltare, a occhi chiusi e il volume è regolabile anche per gli uditi non più finissimi. È un’installazione digitale molto semplice da attivare ma un pubblico che potrebbe necessitare di accompagnamento è quello meno abituato al digitale: per questo motivo è nostra cura fare sì che ci sia sempre uno di noi pronto a supportare il pubblico. Per quanto riguarda l’accessibilità, infine, la Fondazione sta portando avanti un ragionamento complessivo di adeguamento dell’intera borgata e presto attiverà un laboratorio multidisciplinare proprio su questo tema.
Nell’installazione compaiono alcune domande che il visitatore può porre ai testimoni protagonisti delle diverse “stagioni” di Paraloup. Si tratta di un espediente retorico utilizzato da molti musei per favorire l’interazione con i contenuti, soprattutto quando questi sono costituiti da una testimonianza, un’esperienza personale che si fa racconto. Ci sono domande che il Museo più o meno implicitamente pone, invece, al visitatore?
Più che espediente retorico, l’abbiamo concepito come un innesco filosofico. Viviamo un periodo che, forse più di altri, sente un profondo bisogno di immaginare il futuro attraverso domande utili. Ebbene, le domande hanno proprio la funzione di collegare le testimonianze storiche con l’oggi attraverso un meccanismo che fa sì che poi le stesse domande risuonino nella testa del visitatore anche dopo la visita, ponendo interrogativi aperti sull’oggi. Un esempio: com’erano i rapporti uomo-donna nella civiltà contadina? E durante la Resistenza: che contributo hanno dato le donne, se di “contributo” si deve parlare e non di protagonismo? Dunque, di riflesso sull’oggi, il Museo ci interroga: com’è cambiato il ruolo della donna nella famiglia, nella società e in politica? È cambiato?
“A volte basta il suono di una voce, perché un muro crolli” raccontava un testimone de Il mondo dei vinti di Nuto Revelli. Avete voluto interpretare questa frase in modo molto interessante, sfruttando la parola muro, che segna il nostro tempo e geografie ampie e appartiene al vocabolario di chi si occupa di diritti umani e diritti sociali. Mi racconti questa vostra lettura?
La frase che citi l’abbiamo scritta sulla parete d’ingresso del Museo dei racconti dandone un’interpretazione rovesciata, in una prospettiva di rinascita e rivalsa. La pronuncia un testimone di Nuto descrivendo una situazione di grande desolazione e abbandono della montagna, in cui la solitudine era tale per cui anche solo il suono di una voce sarebbe bastato a far crollare l’ultimo muro precario di una baita vuota e non governata. Nel Museo dei racconti, invece, abbiamo voluto far risuonare le voci affinché crollino i muri dell’ignoranza, del pregiudizio, della diffidenza e della paura. Ascoltando dalla sua viva voce il dolore di un abitante di queste valli che ha dovuto emigrare e che magari non è più tornato, lo spavento di un bambino che a sei anni veniva mandato in altura con le bestie da solo o che veniva affittato per il lavoro stagionale sulla piazza di Barcelonnette, necessariamente si pensa alle persone migranti oggi, si fa un collegamento anche emotivo e ci si pone qualche domanda a riguardo.
Cultura e innovazione sociale sono i due filoni su cui si muove la Fondazione Nuto Revelli, con quale processo di coinvolgimento della comunità e su quali orizzonti valoriali si attiva questo doppio binario di attività? A quali bisogni ha risposto questo posizionamento?
Tutto è partito da Nuto Revelli, dalla sua personale parabola di vita, dalle sue scelte, dalla sua attività a tutela della memoria degli ultimi, dei dimenticati della grande Storia. È nel rispetto di quella sensibilità e di quell’urgenza umana che lo hanno sempre spinto che è scaturito naturalmente l’impianto del progetto Paraloup, così radicato sul territorio e attento alle radici della sua comunità. Più in generale, è così che è nata la predisposizione generale delle nostre attività all’ascolto del mondo in cui viviamo e alla lettura che serve darne per essere, come ci poniamo da Statuto, un ente di utilità sociale: dal laboratorio didattico territoriale, al concorso letterario artistico per migranti Scrivere altrove, al progetto sulle memorie femminili, la nostra cifra sono attenzione e apertura. Antonella Tarpino, che studia le geografie della memoria e, con il progetto Memoranda, ha riflettuto sul potenziale dei luoghi quotidiani come attivatori di memoria, ci ha consegnato una citazione che abbiamo, anche quella, voluto scrivere su un muro della borgata. È una frase della poetessa russa Marija Stepanova, tratta dal suo libro Memoria della memoria e recita: “Quando la memoria spinge passato e presente a confrontarsi, è per una ricerca di giustizia”.
L’attuale difficile momento che stiamo vivendo, che ci ha privati della possibilità di attingere a tanti riferimenti culturali, fra i quali i musei e i luoghi di memoria, ha dato impulso a una rinnovata, e spesso acritica, fiducia nella trasposizione dell’esperienza museale in un prodotto fruibile da remoto, come per esempio visite ‘virtuali’ variamente declinate. Paraloup e il Museo dei racconti potrebbero cogliere quest’opportunità e orientarsi in questa direzione?
In questo periodo così complesso, Paraloup sperimenta molti modi diversi di accogliere i visitatori. Durante le fasi di lockdown più severo abbiamo vissuto come un’opportunità il restare chiusi dentro la nostra comunità più prossima: abbiamo conosciuto i vicini di borgata, molti dei quali, durante le passeggiate, erano attirati dalla luce accesa del ristoro e si fermavano anche solo per una chiacchierata a debita distanza. Ecco, quella luce accesa è il simbolo di Paraloup come presidio di comunità: su quello vogliamo puntare, davvero ci piace che gli abitanti di questa valle sentano Paraloup come una casa con le porte sempre aperte, tutto l’anno. Nei periodi di apertura, invece, abbiamo ricevuto molte più visite di quante ne ricevevamo gli anni passati in bassa stagione, in modo più continuativo lungo la settimana, piuttosto che concentrate solo nel weekend, perché stanno cambiando i modi, i tempi e i luoghi con cui fruire della cultura. Per ora non sentiamo, quindi, il bisogno di “far uscire” i contenuti dal Museo dei racconti. Ci piace immaginare che, con i tempi giusti, le voci dei testimoni si metteranno in dialogo con chi avrà la pazienza e la voglia di raggiungere un posto magari un po’ scomodo, ma i cui valori sapranno ricompensarli e farli andare via trasformati come quei 200 giovani che nel terribile inverno del ’43 si radunarono quassù per diventare partigiani. Stiamo anche noi vivendo un lungo inverno, la nostra resistenza, da cui, se vogliamo, potremo uscire rinnovati: il Museo dei racconti serve anche a questo.