Agricolture, ambiente, salute: che fare?

Agriculture, environment, health: how to deal with it?

In apertura: particolare della locandina del ciclo di incontri “Agricolture, ambiente e salute: che fare?”, Bologna, febbraio 2023, promosso dalla Cooperativa Arvaia.

A febbraio 2023 si è svolta a Bologna una piccola rassegna di incontri che hanno visto due importanti ricercatori (e ottimi divulgatori) discutere di questi importanti temi con l’esperienza della Cooperativa Arvaia: Giovanni Dinelli, docente di agronomia presso l’Università di Bologna, e Patrizia Gentilini, oncologa ed ematologa della Fondazione “Allineare, Sanità e Salute”. La cooperativa Arvaia, promotrice dell’iniziativa, è nata a Bologna nel 2013 ispirandosi a un modello di agricoltura diffuso all’estero (in particolare “GartenCoop” di Friburgo) ma ancora sconosciuto in Italia: l’Agricoltura Sostenuta dalla Comunità (Community Supported Agricolture, CSA). Nelle esperienze di CSA un gruppo di cittadini si organizza per gestire collettivamente un’azienda agricola: all’inizio dell’anno i soci della cooperativa pianificano la coltivazione di un determinato terreno agricolo, stimano i costi di questa produzione e li anticipano per poi suddividersi in parti uguali quanto prodotto durante l’anno. Questo consente di svincolarsi dai meccanismi di mercato e dall’acquisto di prodotti in base a un prezzo stabilito collettivizzando i rischi d’impresa. Arvaia ha in affitto dal Comune di Bologna circa 40 ettari situati nel Parco Città Campagna (zona Borgo Panigale) che gestisce a seminativo e a coltivazioni ortofrutticole secondo i principi dell’agroecologia. I soci negli anni sono aumentati da 50 fino a 300. Le famiglie e le persone che sostengono la CSA prefinanziando l’attività agricola e mangiando i frutti del campo nel 2022 sono state 170 e nella cooperativa lavorano 7 dipendenti fissi più alcuni stagionali. Si tratta quindi di una comunità abbastanza estesa e coinvolta direttamente nella gestione della cooperativa e nel lavoro dei campi: ognuno dei soci può infatti lavorare come volontario in campo oppure partecipare alla gestione della cooperativa sia attraverso i tradizionali strumenti sociali (assemblea dei soci, Cda ecc.) sia attraverso l’impegno in uno dei gruppi di lavoro attivi (eventi, comunicazione, distribuzione ecc.) o nelle riunioni del “coordinamento” che affianca il Cda nel lavoro di indirizzo, pianificazione e monitoraggio delle attività. Sono previsti anche meccanismi interni di solidarietà e mutuo aiuto: durante un’assemblea, chiamata asta, i soci sono invitati a fare un’offerta per l’anno agricolo in partenza tenendo conto della quota media consigliata. Ogni socio decide in autonomia la cifra da offrire: se tutte versano la cifra consigliata il budget è coperto. Se alcune offrono di più per consentire la partecipazione anche a chi non riesce a coprire l’intera quota, non solo si collabora alla crescita della comunità, ma si partecipa attivamente alla costruzione di un’economia interna diversa, basata sulla solidarietà reciproca. L’asta si chiude quando il budget è coperto dall’offerta totale di tutti i soci partecipanti. I soci diventano quindi diretti finanziatori della cooperativa e imprenditori insieme a chi coltiva i campi.

Sul territorio bolognese la sperimentazione della cooperativa Arvaia è stata preceduta da altre importanti esperienze, come quella dell’associazione “Campi Aperti”1 nata dall’impegno di consumatori e produttori per creare condizioni di accessibilità a cibo sano e prodotto nel rispetto dell’ambiente, oltre che sostenibile anche per il tessuto di piccole aziende che li producono. Questa associazione ha dato vita ormai più di vent’anni fa ai primi mercati contadini di quartiere, negli anni in cui la diffusione incontrollata della grande distribuzione organizzata modificava profondamente il tessuto commerciale del territorio e il panorama produttivo, spingendo ad una forte accentramento delle coltivazioni in poche aziende di grande estensione e sempre più dominate da un approccio industriale e meccanizzato2.

Il diffondersi di queste nuove forme di impegno sociale e politico risponde a una diffusa esigenza di sperimentare nuove forme di economia e di socialità, ma anche alla necessità di accedere a cibo fresco, genuino, la cui coltivazione avviene nel rispetto dell’ambiente, della salute dei consumatori e delle condizioni di vita e di lavoro dei produttori.

Nel corso della sua presentazione Giovanni Dinelli è partito dalla constatazione che il sistema di produzione, distribuzione e commercializzazione del cibo a livello globale semplicemente non funziona: nonostante le incredibili innovazioni genetiche e tecnologiche e i vertiginosi aumenti delle capacità produttive degli ultimi decenni gran parte della popolazione mondiale soffre a causa di un’alimentazione carente oppure di disturbi legati alla sovralimentazione. Inoltre il livello di spreco alimentare che questo sistema comporta si fa sempre più grave, arrivando a buttare quasi il 30% di quanto prodotto3. Dopo millenni in cui i progressi in agricoltura erano stati tutto sommato contenuti, negli ultimi 50 anni la produzione di cibo e, più in generale, le aree rurali, sono state letteralmente stravolte dalla “rivoluzione verde”4 avviata alla metà del XX secolo che, grazie a un mix di meccanizzazione, utilizzo intensivo di fertilizzanti e pesticidi chimici e selezione di poche varietà sempre più capaci di adattarsi a queste nuove condizioni, ha aumentato a dismisura le capacità produttive, producendo però una serie di gravi esternalità negative.

La prima è quella che riguarda il suolo: l’approccio puramente “estrattivo” lo ha velocemente impoverito e la banalizzazione dovuta alla diffusione di monoculture intensive sempre più vaste lo ha privato della capacità di rigenerarsi e rinnovarsi, con una progressiva e sempre più grave perdita di capacità produttive (che induce inevitabilmente a un uso maggiore di prodotti chimici), un progressivo inquinamento delle falde acquifere e dei prodotti agricoli e una minore capacità sia di assorbimento dell’anidride carbonica che drenaggio dell’acqua. Tutti questi fattori aggravano anche la capacità di far fronte ai cambiamenti climatici: i terreni sottoposti a decenni di agricoltura intensiva sono più esposti ai processi di “desertificazione” se combinati ai sempre più prolungati ed estesi periodi di grave siccità e, in caso di precipitazioni estreme, faticano a drenare l’acqua e tendono a rimanere allagati più a lungo5. Al contrario le coltivazioni improntate ai principi dell’agroecologia6 cercano di recuperare un approccio alla produzione agricola più attento all’ambiente circostante, che non viene più visto come nemico o ostacolo da abbattere, ma come un potenziale alleato per una agricoltura ecologica e libera dall’eccesso di prodotti chimici: alberature e siepi (sparite dalle grandi estensioni di monoculture) forniscono dei “servizi ecosistemici” importanti, la combinazione di colture differenti tra loro aiuta la rigenerazione del terreno e il mantenimento di un buon livello di fertilità, la diversità e varietà delle produzioni diminuisce il rischio di perdere tutto il raccolto in caso di avversità (maltempo, malattie, attacchi di parassiti ecc.).

La metafora proposta da Giovanni Dinelli è stata quindi quella di un confronto tra una Ferrari (l’agricoltura industriale intensiva) e una utilitaria (l’agroecologia). L’agricoltura industriale ha livelli di prestazioni eccezionali da un punto di vista produttivo, ma è pericolosa per l’alta velocità a cui viaggia, consuma moltissima energia, inquina di più e, soprattutto, è totalmente fuori scala rispetto alle esigenze di spostamento quotidiane di ognuno di noi, per la quale è probabilmente più che sufficiente una utilitaria meno potente da un punto di vista produttivo ma più sostenibile e compatibile con il nostro ambiente.

Patrizia Gentili ha invece ragionato sulle conseguenze per la salute umana dell’agricoltura industriale. L’assunto di partenza è del tutto simile a quello di Dinelli. La rivoluzione industriale in agricoltura ha fallito: la fame nel mondo e la malnutrizione esistono ancora su larga scala, in ampie aree del mondo c’è un enorme problema di obesità e sovralimentazione, lo spreco del cibo prodotto è molto alto (circa un terzo) e i brevetti delle sementi e di tutti i prodotti necessari per la loro coltivazione sono in mano a poche, potentissime multinazionali. Inoltre ha portato a una drammatica perdita di biodiversità e di qualità dei suoli, con conseguenze drammatiche non solo ambientali ma anche sul piano della salute generale. L’agricoltura è oramai legata in modo forte ai progressi tecnologici, ma slegata da una visione complessiva, sistemica dell’ambiente.

Patrizia Gentilini è sostenitrice dell’approccio “one health” alle questioni mediche, secondo il quale “non si può essere sani in mondo malato” poiché la salute umana non può considerarsi disgiunta e indipendente dalla salute del pianeta. Da diversi anni si stanno diffondendo studi che analizzano l’approccio olistico sulle malattie cronico-degenerative e infettive e che mettono in luce l’importanza di preservare i servizi ambientali, ecosistemici e la biodiversità per la salute generale.

Sono sempre maggiori gli studi che evidenziano l’impatto delle foreste sulla salute, sulla circolazione e sulle malattie cardiache, oltre al benessere psicologico e, dove maggiore era la superficie boscata più attenuato è stato l’impatto del Covid, che sembra invece aver colpito più duramente le aree in cui si pratica agricoltura intensiva su larga scala. Patrizia Gentilini ha inoltre sottolineato il legame tra la perdita di biodiversità nell’ambiente e nel corpo umano: i prodotti agricoli sono ormai legati a pochissimi brevetti, ovunque si mangia lo stesso tipo di cereali o di pomodori e questo si riflette in una perdita di biodiversità anche nel corpo umano. È ormai accertata l’importanza del microbiota intestinale per le nostre difese immunitarie. Gli studi scientifici dedicati al microbiota intestinale e alle sue molteplici relazioni con la salute umana sono letteralmente esplosi dal 2020/21 e ci dicono che gli stili di vita e l’attività umana impattano negativamente non solo sull’ambiente ma anche sul nostro microbiota, il cui progressivo impoverimento è un fattore che favorisce l’aumentano delle allergie, ha un forte impatto a livello neurologico e comporta criticità anche per le malattie cronico-degenerative.

Esiste ormai una ampia e solida letteratura scientifica che illustra i danni che le esternalità negative della produzione agricola industriale hanno non solo per l’ambiente ma anche per la salute di produttori e consumatori. Attraverso l’alimentazione di cibo industriale assumiamo sostanze note come “interferenti endocrini” che interferiscono anche a basse dosi con il nostro sistema ormonale, con conseguenze sul sistema neurologico e immunitario. Sono inoltre numerosi i pesticidi che hanno ormai contaminato numerose falde acquifere, che sono diffusi nell’aria e che si trovano nel cibo che mangiamo. L’esposizione cronica a queste sostanze, anche in piccoli quantitativi, attraverso cibo, acqua e aria favorisce l’insorgere di problemi di fertilità, di molti tipi di tumori, di diabete, malattie neurodegenerative e di malattie respiratorie. Questo tipo di esposizione ha conseguenze molto più gravi sui bambini che ne subiscono gli effetti nocivi a partire dalla gravidanza. È quindi chiaro che in un tale contesto non è sufficiente limitarsi a cercare di mettere a punto cure sempre più adeguate alle malattie più diffuse del nostro tempo, ma diventa anche fondamentale, per poter promuovere in maniera efficace la salute pubblica, individuare e rimuovere le cause che portano a tali malattie. E questo comporta inevitabilmente la necessità di vivere in un ambiente meno inquinato e di mangiare cibo più sano.


Note

1 Sull’esperienza di Campi Aperti, si possono leggere, tra gli altri studi: Massimo De Angelis e Dagmar Diesner, “A revolution under our feet”: Food sovereignty and the commons in the case of Campi Aperti, in Derya Özkan, Güldem Baykal Büyüksaraç (eds.), Commoning the City. Empirical Perspectives on Urban Ecology, Economics and Ethics, London, Routledge, 2020, pp. 69-85; Giulia Rossi, Agroecology: an assessment of Campi Aperti transformative potential, Master Thesis in Sustainable Development, University of Uppsala, 2021.

2 Per un’analisi generale di queste trasformazioni dell’agricoltura italiana degli ultimi decenni, rimando a Alessandra Corrado, Martina Lo Cascio, Domenico Perrotta, Introduzione. Per un’analisi critica delle filiere e dei sistemi agroalimentari in Italia, in “Meridiana”, 2018, n. 93, pp. 9-26.

3 Cfr. il report Chi ci nutrirà, della Ong ETC group, terza edizione, 2017; il testo si trova sul sito www.etcgroup.org, ultima consultazione: 22 maggio 2023.

4 Raj Patel, The Long Green Revolution, in “The Journal of Peasant Studies”, 2013, vol. 40, n. 1, pp. 1-63.

5 Cfr. Giovanni Dinelli, Agroecologia: innovazione e sviluppo tecnologico per ridurre gli input negativi e qualificare le filiere, in Angelo Gentili, Giorgio Zampetti (a cura di), Agroecologia circolare: dal campo alla tavola: coltivare biodiversità e innovazione, Milano, Ambiente, 2021.

6 Uno dei testi di riferimento sull’agroecologia è: Miguel A. Altieri, Peter M. Rosset, Sulla via della madre terra. Agroecologia: una rivoluzione tra scienza e politica, Sansepolcro, Aboca, 2019.