In apertura: riunione socialista, Ravenna, 1911 (Archivio G. Pinelli, Milano).
Almeno il 12% degli abitanti del mondo sono soci di imprese cooperative, che sono circa 3 milioni. 160 milioni di questi soci sono in Europa. Secondo le statistiche dell’International Co-operative alliance la cooperazione occupa il 28% della produzione globale nel campo delle assicurazioni e mutue, il 26% nell’agricoltura e nell’industria agro-alimentare, il 21% nel commercio alimentare al dettaglio, il 7% nelle banche, nei servizi finanziari, nell’industria e nelle utilities ed è presente anche in altri servizi e settori, tra i quali la salute e l’abitazione. Nonostante questi ragguardevoli numeri, pochi sono i testi disponibili sull’organizzazione di tali imprese, sulla loro finalità economica e la loro efficienza. Non molto è possibile sapere su queste realtà economiche e anche per quanto riguarda lo sviluppo storico dell’impresa cooperativa le notizie nei testi di storia del pensiero economico sono lacunose. In particolare non è facile trovare analisi sul contributo che il socialismo utopistico ha fornito nell’elaborare le idee di cooperazione, nel senso che gli storici del pensiero economico faticano a considerare i socialisti prima di Marx degli economisti e quindi ne sottovalutano il pensiero. Eppure è proprio il socialismo delle origini, o utopico, a proporre la pratica della cooperazione, intesa come modalità di trasformazione in positivo della società. La spiegazione di tale mancanza di informazioni probabilmente sta nel fatto che l’economia ortodossa ha preso un’altra strada, assumendo la concorrenza come motore dello sviluppo e non, come sostenevano i socialisti utopisti, come causa di povertà. La cooperazione storicamente è stato un sistema alternativo al capitalismo, più una comunità solidale che un’impresa. Ciò è vero per gli inizi, cioè a partire dai primi decenni del XIX secolo, ma nel corso del secolo la dimensione comunitaria viene via via ridimensionata a favore dell’idea pragmatica di impresa1.
Oggi prevale l’idea della cooperazione come impresa, tuttavia non bisogna dimenticare che la dimensione economica coesiste con quella civile. La cooperativa persegue anche fini extraeconomici, genera esternalità positive a vantaggio dei soci, ma anche di altri soggetti e potenzialmente dell’intera collettività. Essa è quindi un’impresa nella quale le relazioni tra i soci sono orientate al conseguimento di un fine comune: la realizzazione dello scopo mutualistico attraverso l’esercizio di una specifica attività imprenditoriale2. La cooperazione vive quindi un equilibrio, instabile, tra dimensione economica e dimensione civile, in cui i due fattori hanno avuto storicamente, a seconda dei tempi e dei contesti, un peso diverso.
In Italia il movimento cooperativo si è sviluppato a partire da metà Ottocento lungo tre principali filoni di pensiero, il marxismo, il mazzinianesimo, il pensiero sociale cristiano, che hanno delimitato tre aree di appartenenza a cui le cooperative si sono riferite: quella socialista, quella cattolica e quella repubblicana. Tuttavia un’altra corrente politica, intrecciata al socialismo, e cioè l’anarchismo ha avuto un ruolo importante nel caratterizzare il movimento cooperativo. Lo si vede dal caso italiano e più nello specifico nelle vicende della cooperazione agricola in provincia di Ravenna a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento.
In Italia la cooperazione si innesta sulle società di mutuo soccorso, che si costituiscono per mano di artigiani e operai dopo il 1848 e con maggiore impulso dopo l’unità d’Italia. Al loro interno nascono cooperative di diverso tipo: di consumo, per l’edificazione di case, di produzione e di lavoro, panifici, magazzini e spacci cooperativi, farmacie sociali, banche di piccolo credito e cooperative per l’assunzione in appalto di opere agricole. Uno dei riferimenti teorici dei cooperatori è il pensiero di Pierre-Joseph Proudhon, intellettuale eclettico e originale, considerato anche uno dei padri dell’anarchismo. Nel delineare i contorni della società autogestita a venire, egli introduce il principio di cooperazione quale legge di scambio e di associazione che può bilanciare la competizione, o concorrenza, che è regola elementare e innegabile della vita. Delinea così un socialismo pluralista, in cui rimane la proprietà individuale, ma essa viene allo stesso tempo ripartita, o distribuita, e resa federativa. La nuova proprietà è, rispetto a ogni membro della società economica, «una coproprietà in mano comune»3. Nel movimento operaio e socialista dell’epoca, che ha al suo interno una pluralità di matrici, svolge una certa influenza anche un altro filone di pensiero, quello del socialismo sperimentale. Come è noto, la sezione italiana della Prima Internazionale, fondata nel 1872 con la Conferenza di Rimini, nasce anarchica, o meglio antiautoritaria e i suoi principali esponenti sono i giovani Carlo Cafiero, Errico Malatesta e Andrea Costa. Nella seconda metà degli anni Settanta le vie dei tre si separano, nel senso che si vanno delineando, sulla scia di quanto sta avvenendo in Europa, divergenze di metodo per arrivare al socialismo. Cafiero e Malatesta rimangono insurrezionalisti, cioè ritengono l’insurrezione popolare un mezzo fondamentale per compiere quella rivoluzione in grado di trasformare la società in senso egualitario e autogestito, mentre Costa opta per un’entrata nelle amministrazioni locali e poi nelle istituzioni parlamentari al fine di veicolare riforme che modifichino radicalmente in meglio le condizioni dei ceti più umili4.
Accanto a essa c’è una terza via, per così dire, che propugna la possibilità di sperimentare forme di socialismo nell’immediato per mezzo di colonie socialiste o «laboratori di chimica sociale». Tra i suoi fautori più influenti vi è il pisano Giovanni Rossi, alias Cardias. Poco più che ventenne, nel 1878, pubblica per la Biblioteca socialista del giornale “La Plebe” il pamphlet Un comune socialista. Bozzetto semi-veridico, che ha una certa diffusione, con cinque edizioni – di cui una con l’introduzione di Costa (Brescia, 1884) – riprodotte sia in opuscolo, sia su vari periodici. Nel testo, che ha evidenti richiami a Fourier, Owen, Saint-Simon e Cabet, si descrive in forma romanzata la metamorfosi di un paese immaginario del litorale tirreno, Poggio al Mare, che si trasforma in una florida colonia socialista. Essa si regge sull’associazione degli abitanti che costituiscono una cooperativa di produzione a capitale collettivo, realizzando così nell’immediato l’utopia di una società libera ed egualitaria.
Alle origini del cooperativismo italiano, e in particolare nella prima e più importante tra le cooperative agricole di lavoro, l’Associazione generale braccianti, fondata nella prima metà degli anni Ottanta dell’Ottocento nel ravennate, troviamo due visioni intrecciate e sovrapposte: la cooperativa è innanzitutto un mezzo per migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita. Ma è anche un inveramento, per quanto parziale, dell’utopia di una società liberata.
L’Associazione nasce in seguito a uno sciopero fallimentare dei braccianti nel marzo 1883, quando alcuni dei partecipanti alla lotta, aderenti al Partito socialista rivoluzionario di Romagna, convincono i propri compagni di lavoro ad associarsi in cooperativa per assumere direttamente gli appalti per i lavori di bonifica, eliminando ogni intermediazione. Gli iniziali 300 soci diventano 2.547 nel giro di due anni. Ogni socio sottoscrive un’azione di 25 lire, pagabili in 25 mensilità, mentre gli utili vengono così ripartiti: un 40% suddiviso tra i soci, un 40% destinato alla riserva e un 20% depositato nel fondo pensioni e per gli inabili al lavoro. Fin dalla sua fondazione essa assume lavori pubblici affidati dal Comune. La contrattazione su paga e ore di lavoro tra le due parti è portata avanti da un delegato o una delegata, che si affaccia dal palazzo municipale sulla piazza gremita di braccianti per sentire da loro se l’offerta sia da accettarsi o meno. Alla base dello statuto vi è l’affermazione di principio dell’obiettivo dell’associazione, ovvero avviare gli operai verso l’emancipazione soppiantando gli appaltatori (art. 2), al quale se ne affianca un altro che risente con evidenza del retaggio internazionalista, in quanto rivendica l’autonomia dell’associazione precisando che essa rifugge da ogni ingerenza politica o religiosa (art. 3).
L’associazione ha una struttura semplice, senza particolari apparati organizzativi, né fondi cospicui, né capitale immobilizzato, né attività continuativa; quando ottiene un appalto vi impiega squadre composte da cinque o dieci operai, per lo più terrazzieri, che si occupano di lavori stradali, allargamenti, rialzi di argini, bonifiche. Nel giro di poco tempo i soci impiantano anche magazzini alimentari, dormitori e infermerie sociali, nel tentativo di rispondere col metodo cooperativo alle esigenze più importanti della vita quotidiana: lavoro, cibo, alloggio, salute.
Alla base del suo funzionamento sta il principio della solidarietà. Le norme interne garantiscono una reale uguaglianza e ogni socio ha diritto di voto, di proposta e di interpellanza nelle assemblee che sono il vero organo decisionale, secondo un criterio di democrazia diretta. Sono le assemblee ad eleggere gli organi tecnici dell’associazione, che rimangono in carica due anni: il consiglio direttivo formato da cinque associati, il comitato tecnico (quattro soci) e la commissione di controllo (tre soci). Cooperative con una simile impostazione, bracciantili e non, sono fondate negli anni successivi, nel ravennate e in altre parti della Romagna, fino all’Emilia e alla Lombardia. A Forlì è un bracciante anarchico, l’ex internazionalista Romeo Mingozzi, alla fine del 1885 a fondare la locale Associazione fra gli operai braccianti del comune di Forlì, che arriverà a contare 1.200 soci e si basa su uno statuto identico a quello dell’Associazione ravennate.
Nonostante all’atto della fondazione il contributo del Partito socialista rivoluzionario di Romagna sia determinante, Associazione e Partito sono due entità diverse. L’Associazione comprende al proprio interno diverse correnti ideali: i socialisti sono in maggioranza, ma ci sono anarchici, repubblicani e soprattutto “apolitici”, che comunque condividono per lo più un’impostazione socialista. La realtà cooperativa bracciantile è quindi fin dal suo sorgere questione complessa in quanto vi concorrono ideali, pratiche, motivazioni diverse tra loro.
Dal loro punto di vista le autorità di polizia mostrano un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’Associazione. Da una parte sono ben consapevoli che a costituirla sia uno strato sociale intriso di sovversivismo, d’altra parte sperano che esso, potenzialmente pericoloso e pronto a insorgere, possa essere “calmato” alleviando i fattori di ingiustizia più palesi. Ancora, chi fino a quel momento, e cioè i proprietari terrieri, ha svolto la funzione di intermediazione tra il primo datore di lavoro e il bracciantato si sente espropriato del proprio ruolo e della propria fonte di ricchezza. L’Associazione così è un terreno di incontro e di contesa non solo tra le varie tendenze del sovversivismo, ma anche tra amministrazioni locali, tra le varie articolazioni dello Stato, le forze di polizia, i piccoli e grandi proprietari terrieri.
Tra i primi lavori ottenuti dall’Associazione ci sono la manutenzione delle strade municipali, l’arginatura del fiume Lamone, la costruzione di un tratto della ferrovia per Rimini e la bonifica di vasti territori paludosi lungo il litorale, tra i quali quella dei settori disseccati della pineta di S. Vitale. Questa porzione di bosco fa parte di un più vasto «tenimento», denominato Manzona, composto di circa quarantacinque ettari del quale l’Associazione ottiene dal Comune l’affittanza collettiva, primo esempio che si conosca di un accordo di tal genere. I braccianti così, oltre che continuare a essere impiegati nei poderi mezzadrili per lo più per i lavori stagionali (mietitura, trebbiatura e vendemmia), sono occupati in misura crescente sia nelle opere pubbliche, comunali e governative, sia nelle “larghe”, cioè nelle zone arative nude di recente bonifica.
Un anno dopo la fondazione dell’Associazione, nel marzo del 1884, 1.200 soci si trovano in assemblea al teatro Mariani di Ravenna e decidono di prendere parte a lavori di bonifica idraulica nell’Agro romano, in particolare degli stagni di Maccarese, Camposalino, Ostia e Isola Sacra, paludi malariche già oggetto di precedenti interventi statali, tutti falliti.
Il 16 novembre parte il primo gruppo di quaranta braccianti, cui segue il 24 il grosso della spedizione: quattrocentoventi uomini – secondo il prefetto, in gran parte «giovani ardimentosi e iscritti a società sovversive» – e cinquanta donne salgono su treni speciali dalla stazione di Ravenna salutati da una numerosa folla, alla presenza tra gli altri del sindaco e di Costa. Portano con loro paletti, carriole, mannaie e picconi, necessari al lavoro. Oltre ai braccianti ci sono anche fornai, macellai, barbieri, calzolai e dodici tra donne e ragazzi che si devono occupare delle pulizie. Si dividono in due gruppi principali, uno, composto da circa venti squadre di dieci persone, si stabilisce nella zona di Ostia e l’altro di circa trenta squadre in quella di Fiumicino, in particolare nelle località di Maccarese e Camposalino. L’opera di bonifica che comincia il 26 novembre 1884 è improba, in particolare il prosciugamento dei due stagni maggiori, a Ostia e a Maccarese.
Le difficoltà più rilevanti sono legate alla natura del tutto particolare del suolo e al fatto che i terreni sono sotto il livello del mare e quindi in balia delle piene del Tevere, delle piogge, dell’afflusso idrico dalle zone collinari. La prima cosa da fare è separare le acque basse da quelle alte aprendo un sistema di canali che permetta alle acque alte di arrivare direttamente al mare senza penetrare nelle zone palustri. Per fare ciò i braccianti romagnoli utilizzano tecniche e strumenti sperimentati in Romagna e sconosciuti nell’Agro romano. Hanno importanti esperienze precedenti e grandi abilità tecniche e ripropongono nel Lazio un’organizzazione del lavoro già affinata con successo. I capisquadra, che sono eletti, surclassano gli ingegneri del genio civile mandati dal governo e li stupiscono con un lavoro collettivo straordinario: suddivisi in terrazzieri e scariolanti, gli operai sono veloci e precisi. Lavorano con strumenti leggeri, come la carriola, di legno e non di ferro, capace di poco carico (venti chili) ma più leggera e di grande mobilità, il paletto e il «palone» di legno. Cominciano alle 5.30 e si fermano alle 16.30, dopo dieci ore. Hanno l’obbligo di rimanere almeno tre mesi nella campagna romana e a garanzia di ciò l’Associazione trattiene il 20% della paga giornaliera. I turni sono a rotazione ogni tre mesi, il monte salari viene messo in comune e poi ripartito tra i componenti delle squadre a seconda delle giornate di lavoro. I guadagni sono buoni, anche se forse non così lauti come era stato promesso prima della partenza, ovvero fino a tre volte maggiori delle 1,50 lire che è il salario medio del bracciante a Ravenna e provincia. È vero che gli operai, che lavorano secondo un meccanismo di cottimo collettivo (per squadra) e non individuale, arrivano a guadagnare fino a 4 lire al giorno, ma spesso, e in particolare nelle zone con un terreno più insidioso, non superano le 2,50. In media la paga giornaliera è di 3,25 lire, ben superiore alle paghe della Romagna. La loro maggiore fonte di preoccupazione è la malaria: il primo anno si registrano quasi cento caduti, a indicare un altissimo tasso di mortalità che continua anche negli anni successivi: alla fine saranno circa seicento i ravennati a morire nell’Agro romano, per lo più di malaria, ma anche di polmonite e di infezioni tetaniche. Nonostante il costo di vite altissimo, le grandi fatiche e la situazione economica dell’Associazione sicuramente non florida, la bonifica avrà successo, portando a popolare intere plaghe con una trasformazione epocale del territorio da palude a fertile campagna adatta a diversi tipi di coltivazioni e alla nascita di borgate e paesi. Alcuni braccianti si trasformeranno in coloni, assumendo terreni in affitto, in enfiteusi e in affittanze collettive. I lavoratori della terra ravennati riescono laddove lo Stato aveva fallito per incapacità tecnica, deficitarie modalità di lavoro e per il sovrapporsi di ritardi e polemiche sui fondi utilizzati. Lo fanno mantenendo una forte dimensione collettiva, caratterizzata dalla democrazia interna: l’assemblea mensile permette a tutti i braccianti di esprimere proposte e dissensi ed è affiancata da periodiche riunioni dei capi-squadra con il consiglio direttivo. A unire socialisti, anarchici e repubblicani è il comune obiettivo della bonifica e la volontà di dare al territorio un nuovo assetto socio-culturale, utilizzando gli strumenti della cooperazione agricola e bracciantile che avevano sperimentato negli anni precedenti.
Inoltre, tra diversi lavoratori che decidono di partire per l’Agro romano è presente la volontà di impiantare una colonia di stampo egualitario, o collettivista. Le motivazioni quindi combinano il necessario aspetto materiale a quella dimensione utopica che attraversa il movimento socialista sin dalle sue origini e che è base dell’indirizzo sperimentalista di cui si diceva sopra, tanto che lo stesso Giovanni Rossi guarda con interesse a quanto sta avvenendo a Ostia e cerca, invano, di trasformare questo progetto in una colonia sperimentale a livello nazionale (cioè con braccianti provenienti da varie parti della Penisola e non solo dal ravennate). Fallito quanto tentativo, decide di procedere autonomamente e tra il 1886 e il 1887, fonda a Cittadella, nel comune di Stagno Lombardo, in provincia di Cremona, l’omonima Associazione agricola cooperativa, il cui statuto è del tutto simile a quello dell’Associazione generale braccianti. L’esperimento di Cittadella riesce sotto il profilo economico, ma a parere di Rossi anch’essa rimane più una cooperativa che una comunità collettivista come egli vorrebbe. Nel 1890, dopo tre anni di esercizio, la cooperativa si scioglie e Rossi parte per il Brasile, dove sotto gli auspici dell’imperatore Pedro III darà vita alla colonia Cecilia, vicino Curitiba, cui partecipano fino a duecentoquaranta coloni per lo più toscani e lombardi che fondano un piccolo villaggio, denominato Anarchia. L’esperienza di vita e lavoro in comune naufraga una prima volta nel 1891 e poi, dopo una nuova rifondazione, definitivamente nel 1894, ma essa diventa un riferimento e un modello per vari esperimenti di vita comunitari, in Europa e altrove, nel corso del Novecento5.
Note
1 Antonio Zanotti, Prima di Rochdale. Dal “cooperativismo” alla “cooperazione”, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019.
2Tito Menzani, introduzione a Antonio Senta, Anarchia e cooperazione. Alle origini di un rapporto, Urbino, Malamente, 2023, pp. 9-14. Per approfondire tali tematiche cfr. anche Tito Menzani, Cooperative: persone oltre che imprese. Risultati di ricerca e spunti di riflessione sul movimento cooperativo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015; Luigino Bruni, Stefano Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Bologna, Il Mulino, 2003; Guido Candela, Economia, Stato, anarchia. Regole, proprietà e distribuzione tra dominio e libertà, Milano, Elèuthera, 2004; Guido Candela, Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, Milano, Elèuthera, 2017; Guido Candela, Verso un’economia comunitaria, Milano, Elèuthera, 2021.
3Pierre-Joseph Proudhon, Critica della proprietà e dello Stato, Milano, Elèuthera, 2009.
4 Carlo De Maria, Come Andrea Costa pervenne al federalismo comunale del 1883, in “Storia Amministrazione Costituzione. Annale Isap”, 2012, n. 20, pp. 25-44.
5 Cfr. Luisa Betri (a cura di), Cittadella e Cecilia: due esperimenti di colonia agricola socialista. Carte inedite e un saggio introduttivo su l’utopia contadina, Milano, Edizioni del Gallo, 1971; Isabelle Felici, La Colonia Cecilia, fra leggenda e realtà, in “Rivista Storica dell’anarchismo”, a. III, luglio-dicembre 1996, n. 2 (6), pp. 103-110; Elena Bignami, In viaggio dall’utopia al Brasile. Gli anarchici italiani nell’emigrazione transoceanica (1876-1919), Bologna, Bononia University Press, 2017, pp. 35-99.