Caporalato e manodopera agricola attraverso una prospettiva intersezionale

Caporalato and agricultural workforce through an intersectional perspective

In apertura: esempio di raccolta di pomodori, Basilicata, 2023 (Foto degli Autori).

1. Introduzione

Il caporalato è un fenomeno di intermediazione illecita tra le aziende e la manodopera agricola1, sotto il quale vi è un mondo fatto di discriminazioni e violenza su cui è necessario indagare e che, nel 2010, con la rivolta di Rosarno arriva all’attenzione dei mass media in maniera massiccia2. La figura del caporale, così come il sistema produttivo agroalimentare, nel tempo vede continui fenomeni di modernizzazione: il caporale cambia e si adatta al nuovo sistema economico e sociale in cui si trova inserito. A questa figura sono legati fenomeni di violenza e sfruttamento, che hanno intensità diverse in base al grado di vulnerabilità della lavoratrice o del lavoratore che ne saranno vittime. Lo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici impegnate nelle fasce giudicate più basse della produzione è una componente strutturale del capitalismo globale neoliberale e nella filiera agroalimentare questo è particolarmente riscontrabile3. Inoltre, proprio per come la filiera è organizzata e per la geo-localizzazione delle aziende agricole, è facile che si creino zone d’ombra in cui sfruttamento lavorativo e non solo si verificano più facilmente. Va specificato che la figura del caporale è solo uno degli attori coinvolti in questo sistema, colui che n’è diventato simbolo, ma ci sono dei maxi-attori a cui le cause dello sfruttamento lavorativo degli operai e operaie agricole devono essere in primis rimandate: le aziende agricole, le multinazionali che producono i macchinari agricoli e i fertilizzanti e soprattutto, la grande distribuzione4.

La composizione della manodopera agricola odierna si caratterizza per una grossa componente di operai e operaie straniere extra comunitarie o neocomunitarie:

Nel triennio 2018-2020 la distribuzione percentuale della classificazione per Paese di cittadinanza subisce variazioni di lieve entità e resta invariato l’ordine dei primi 5 Paesi. Nel suddetto triennio si è registrato un aumento del numero degli operai agricoli dipendenti extracomunitari pari al 4,3%, mentre il corrispondente dato nazionale è diminuito del 3,8%5.

Nel 2020, secondo quanto riportato dal Ministero del lavoro nel suo XI Rapporto6, in Italia, si registrano 216.710 operai agricoli dipendenti extracomunitari, cioè il 20, 9% del totale.
Il settore agroalimentare vede una massiccia presenza di operaie donne:

in base ai dati Istat, in Italia sono 233 mila le donne occupate in agricoltura, silvicoltura e pesca, il 48,3% delle quali risiede nel Mezzogiorno. Oltre la metà (53,3%) sono lavoratrici dipendenti, mentre le rimanenti sono imprenditrici e lavoratrici in proprio7.

Dopo il lavoro domestico e di cura, infatti, quello agricolo sembra essere il settore in cui trova occupazione gran parte delle donne migranti, ma in questo ambito troviamo una buona percentuale di donne italiane, soprattutto in Puglia, e in particolare nel brindisino:

Resta piuttosto alta la preminenza numerica degli addetti autoctoni, anche se un lavoratore su quattro è di origine straniera. I contingenti femminili raggiungono quasi il 40,0% dell’intera compagine occupata a tempo determinato, con una sostanziale preminenza delle italiane, tra le addette straniere sono numericamente maggiori le comunitarie8.

Lo sfruttamento che le braccianti subiscono è molto pesante e differisce in parte da quello maschile, per questo è essenziale adottare una prospettiva di genere e intersezionale nell’analisi del fenomeno del caporalato. La condizione delle donne braccianti si caratterizza per una forte disparità salariale a fronte delle stesse mansioni e dello stesso numero di ore svolte dai colleghi uomini, per una maggiore incidenza di lavoro nero o grigio e, soprattutto, per sfruttamento sessuale sistemico o doppio sfruttamento. Le donne sono esposte a questi fenomeni a causa della loro “vulnerabilità”. Con l’utilizzo del termine vulnerabilità, qui, ci si allontana dal portato canonico che tale parola reca con sé: in una società di stampo patriarcale essa, infatti, è sempre stata utilizzata in riferimento alla donna come suo attributo intrinseco. Decostruendo il termine in questa accezione, riappropriandosene in una prospettiva intersezionale, la vulnerabilità diventa condizione situazionale, per cui una soggettività è più o meno esposta al rischio in base all’incrociarsi di diversi fattori economici, geografici, sociali, culturali e di genere in un determinato contesto socioculturale. Benché il fenomeno del caporalato sia ormai ampiamente indagato, i contributi che adottino un focus sulla condizione delle donne e sullo sfruttamento sessuale non sono ancora completi e bastevoli, soprattutto a causa dell’assenza di sufficienti fonti qualitative e di una normalizzazione, talvolta da parte delle braccianti stesse, delle condizioni di sfruttamento sessuale e non, dovuta a un’ideologia ancora dominante che fa del corpo della donna un oggetto sessualizzato di produzione e riproduzione. Inoltre, le donne si trovano spesso in difficoltà nel poter prendere parola contro il caporale o chi per lui, a causa di situazioni di ricatto che possono gravare sui propri figli, di dipendenza psicologica e abitativa dal caporale e, nel caso di donne straniere, di barriere culturali e linguistiche. Un ulteriore elemento aggravante è il peso della cura della prole tuttora quasi interamente sulla donna, oltre che una quasi totale assenza di condizioni di lavoro adeguate a donne in stato di gravidanza o con ciclo mestruale, nonché di un welfare accessibile che accompagni donne sole o in situazioni di difficoltà nella crescita dei figli e delle figlie9.

2. La disparità salariale all’interno del bracciantato agricolo come costante storica

La differenza salariale tra uomo e donna, non solo in agricoltura ma in ogni ambito lavorativo, è una costante storica. Nel 1934 in Italia fu adottato il coefficiente Serpieri, secondo il quale a parità di ore lavorative, il lavoro di una bracciante valeva circa due terzi di quello di un suo collega maschio10. Il regolamento non fu cancellato dopo la caduta del regime fascista, ma rimase in vigore per un trentennio circa. Ad inizio anni Sessanta, le braccianti, grazie anche all’intervento di associazioni femministe come l’Udi, le Acli e altre organizzazioni di stampo cattolico, protestarono affinché il regolamento venisse abolito e venisse stabilito un pari trattamento fra donne e uomini. Le voci delle braccianti furono ascoltate e il regolamento fu abolito nel 1964. Vi erano già delle leggi che tutelavano la parità salariale; ad esempio, nel 1951 l’Oil – Organizzazione Internazionale del Lavoro – ha elaborato quella che diverrà la convezione n. 100 dell’organizzazione:

Ogni Stato membro dovrà, con mezzi conformi ai metodi in vigore per la fissazione dei tassi di retribuzione, incoraggiare e, nella misura in cui ciò sia compatibile con detti metodi, assicurare la applicazione a tutti i lavoratori del principio dell’uguaglianza di retribuzione fra mano d’opera maschile e mano d’opera femminile per un lavoro di valore uguale11.

La convenzione verrà ratificata dall’Italia nel 1956. Inoltre, l’articolo 37 della Costituzione italiana tutela i diritti delle donne lavoratrici e la parità salariale12. Il coefficiente Serpieri violava, quindi, il suddetto articolo, ma rimase comunque in vigore molti più anni nell’Italia repubblicana che all’interno del regime fascista.

I diritti e le leggi in favore della parità di retribuzione non hanno dato seguito a un effettivo superamento della disparità salariale nel bracciantato agricolo, dato riscontrabile in quasi tutti gli altri ambiti lavorativi. In aggiunta, negli anni Sessanta e ancora nel presente, sulle braccianti grava il peso del lavoro domestico. Le donne non solo si trovano a svolgere un lavoro meno retribuito, con meno diritti e meno tutele, ma sono tenute a occuparsi dei lavori domestici e di cura attribuiti culturalmente al sesso femminile. Un’ulteriore considerazione che si può fare sul coefficiente Serpieri è che esso legittimava la percezione che il lavoro svolto dagli uomini avesse un maggior peso specifico – con il suo portato di tutele e diritti – rispetto a quello svolto dalle donne:

Molti a torto ritengono che il coefficiente Serpieri riguardi una norma legislativa: in realtà si tratta della capacità lavorativa delle donne della campagna, predisposta con criteri tecnico-economici dal Serpieri, che ha tenuto presente alcune consuetudini. In base a tale criterio il lavoro prestato dalla donna è valutato poco più della metà di quello dell’uomo. Per quanto si tratti di un criterio tecnico-economico esso ha avuto una certa rilevanza, anche per quanto riguarda la legislazione. Infatti, le leggi previdenziali e assistenziali considerano il lavoro della donna in modo inferiore, nel senso che i contributi versati dall’uomo – a parità di quantità di denaro sborsato – hanno una valutazione maggiore13.

Si può notare come negli anni Sessanta le donne vivevano lo stigma di una minore capacità lavorativa e delle forti penalizzazioni riguardanti tutele, benessere e stile di vita.

Una problematica rilevante, nel trentennio citato e anche nel presente, è che le donne venivano e vengono assunte per lavori specializzati, che richiedono grande attenzione e know-how, oltre che grande fatica, ad esempio la raccolta dei frutti rossi e delle fragole. Infatti, era ed è ancora opinione comune attribuire alle donne una maggiore attitudine verso lavori delicati e di cura, assegnando invece agli uomini lavori che richiedevano e richiedono maggior forza ma minor attenzione. Nella raccolta dei frutti rossi le donne venivano e vengono assunte, secondo questa concezione, nell’ottica di un minor spreco di produzione e di risorse, e allo stesso tempo di un maggior risparmio sul salario14.

Attualmente, è difficile offrire un quadro chiaro della disparità salariale all’interno del bracciantato agricolo. L’Inps riporta dati che si focalizzano su rapporti «regolari», ovvero i rapporti contrattualizzati, sottintendendo che i dati noti all’amministrazione sono quelli registrati da un contratto, anche se magari irregolari nelle ore dichiarate e nella retribuzione. Dunque, emerge che nel 2019 i lavoratori agricoli erano 1,07 milioni, di cui il 68% uomini e il 32% donne15. In aggiunta, alcuni dati Istat, riportati nel Quinto rapporto Agromafie e Caporalato, affermano che tra il 2007 e il 2017 la presenza di donne nella manodopera agricola è aumentata del 200%16. Questi dati non offrono un quadro preciso ed esaustivo, perché non considerano l’incidenza del lavoro nero, temporaneo e irregolare/grigio. Alcuni studi territoriali ipotizzano che il bracciantato femminile sia tre volte maggiore rispetto ai dati riportati dall’Inps17. Vi è un’ulteriore particolarità: spesso i contratti delle operaie agricole sono a tempo determinato con meno di 50 giornate di lavoro annue. Ne consegue che le braccianti vengono escluse dall’accesso ad una serie di sussidi garantiti dal welfare italiano: disoccupazione agricola, maternità, malattia e assistenza per infortuni. Queste misure vengono infatti garantite a chi ha contratti al di sopra delle 51 giornate lavorative all’anno18. Non esistono dati ufficiali che permettano di stabilire con precisione la disparità salariale tra le braccianti e i braccianti, inoltre, tra le stesse braccianti vi è disparità salariale: il salario delle donne italiane è maggiore rispetto a quello della manodopera femminile migrante. Le indagini svolte da giornalisti indipendenti o da associazioni come Action Aid riportano che mediamente uomini e donne lavorano tra le 9 e le 10 ore al giorno, sette giorni su sette. I braccianti percepiscono dai 35 ai 45 euro al giorno di retribuzione, mentre le colleghe ne percepiscono dai 25 ai 35 euro al giorno, disparità che cambia anche a seconda dei territori presi in esame19. Inoltre, le condizioni di lavoro sono estenuanti, le lavoratrici sono costrette a stare in piedi o curve 9-10 ore al giorno, a diretto contatto con fitofarmaci aggressivi, senza le dovute protezioni. Il quadro qui presentato, non si basa su un dibattito accademico scientifico, ma riporta indagini indipendenti, come quelle condotte da Stefania Prandi, Alessandro Leogrande, Yvan Sagnet e Leonardo Palmisano. A queste inchieste si aggiungono i preziosi rapporti di Action Aid, Slaves No More e Osservatorio Placido Rizzotto. L’obiettivo è mostrare come persista una condizione di disparità tra le lavoratrici e i lavoratori, al di là di meri dati ufficiali. Si ritiene comunque importante che le scienze sociali inizino a farsi carico di tematiche del presente che trovano delle forti radici nel passato, raccogliendo le testimonianze dirette delle questioni riportate.

3. Sfruttamento sessuale e doppio sfruttamento ai danni delle operaie nella filiera agricola

L’abuso sessuale ai danni delle lavoratrici interessate nella filiera agroalimentare non è una tantum, ma un elemento sistemico di svalutazione della persona e uno strumento di coercizione al lavoro socialmente radicato nella società italiana, utilizzato da caporali e proprietari. La molestia sessuale sul lavoro ai danni delle donne non è solo violenza, ma una discriminazione di genere, che affonda le sue radici in un’ideologia ben radicata nella società:

Questo fa sì che le molestie rientrino a pieno titolo nella discriminazione sessuale: se non si è proprietarie di beni oppure di patrimoni (se non si è ricche di famiglia), lavorare e quindi guadagnare resta l’unico modo per essere indipendenti. Pertanto, penalizzando l’accesso al reddito, le molestie sessuali possono essere considerate una delle violazioni più gravi, per l’autodeterminazione femminile20.

Dal momento che la figura del caporale con il passare del tempo ha acquisito sempre nuove mansioni, tra cui la ricerca e la gestione dell’alloggio per le braccianti o il trasporto di quest’ultime sul luogo di lavoro, sempre più forte è la dipendenza e la vicinanza tra lavoratrici e caporale e, di conseguenza, sempre più alto il rischio d’essere abusate. Oggi, ad essere maggiormente vittime di sfruttamento sessuale o ad essere impiegate sia nella produzione agricola che nella tratta, sono soprattutto le donne straniere. È emblematico a tal proposito, che la responsabile del progetto Aquilone di Foggia, Rosaria Capozzi, definisca l’abuso dei datori di lavoro sulle donne straniere uno «ius primae noctis odierno»21: questo dà l’idea di tutto il portato ideologicamente razzista e patriarcale dietro questa forma di sfruttamento.

Avere dei dati quantitativi sullo sfruttamento sessuale ai danni delle operaie agricole è molto complesso; pertanto, si utilizzano fonti di tipo qualitativo come reportage o interviste raccolte da associazioni umanitarie in contrasto alla violenza di genere o, ancora, i rapporti dei sindacati. Una delle poche fonti quantitative che può restituire un’idea parziale dell’onnipresenza del fenomeno è la percentuale delle interruzioni di gravidanza dal 2016 al 2018 sia in provincia di Foggia che di Ragusa, due delle zone che raccolgono il numero più massiccio di manodopera agricola stagionale.

Un dato utile, evidenziato anche dalla ricerca di CREA-PB e ActionAid Italia, è il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza: come riportano i dati Istat, relativi agli anni 2016, 2017 e 2018, molti degli aborti volontari di donne di nazionalità rumena in Puglia sono avvenuti nella Provincia di Foggia, rappresentando il numero più alto a livello regionale. Nel 2017, ad esempio, su 324 interruzioni volontarie di gravidanza condotte su donne rumene in Puglia, 119 sono state effettuate nell’area di Foggia22.

Lo sfruttamento sessuale assume anche la forma di doppio sfruttamento e obbligo per le braccianti alla prostituzione nei ghetti dei colleghi uomini, mezzo utilizzato dai caporali per fidelizzare i lavoratori uomini e per trarre guadagno economico. Il corpo della donna diviene quindi merce di scambio a tutti gli effetti.

4. Conclusione

Quello che si è cercato qui di fornire è un quadro generale della condizione di una buona parte delle operaie agricole in Italia. Restituire un’analisi completa e approfondita, in assenza di sufficienti fonti, è complesso e non si pretende di esaurire qui la discussione. Anzi, si spera che questo contributo porti chiunque lo legga ad interrogarsi e informarsi sulla provenienza e le condizioni di lavoro che hanno portato frutta e verdura nei supermercati. In Ghetto Italia, i braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento (2015) di Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet, si legge: «E mi domando cosa siamo, noi, se mangiando un mandarino a tavola, d’inverno, non sentiamo il sapore amaro della prigionia»23. Con ciò non s’intende addossare la responsabilità delle condizioni di sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori agricoli sul singolo consumatore, ma generare consapevolezza profonda sulle scelte che compiamo giornalmente, sulla posizione che decidiamo di prendere nella società e nel saper riconoscere i reali colpevoli di un sistema complesso come quello agroalimentare, un sistema fitto di interconnessioni tra diversi attori, ma che tutto preme, come sempre, sugli ultimi degli ultimi o le ultime tra gli ultimi.

Attraverso questo testo si è voluto creare uno spazio di riflessione anche in risposta alla percezione che a volte si ha della ricerca storica come scissa dall’investitura sociale e politica che intrinsecamente ricopre. È essenziale che il sapere storico rimarchi la sua componente reale di influenza nel sociale contemporaneo, prendendo posizione e adottando diverse prospettive ormai non più ignorabili, come quella intersezionale di genere. Così facendo, immancabilmente la ricerca storica diviene anche mezzo di comunicazione per lavoratrici e lavoratori che vivono le condizioni poc’anzi prese in esame, dalla disparità salariale, alle più aberranti condizioni di vita in soluzioni abitative estremamente disagianti, fino alla violenza fisica, psicologica, sessuale e alle discriminazioni razziali, classiste e di genere, che vanno a ledere la dignità umana.

Note

1 Art. 603 bis c.p. introdotta dal D.L. 138/2011(Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro).

2 Mimmo Perrotta, Rosarno, la rivolta e dopo: cosa è successo nelle campagne del Sud, San Giuliano Milanese (MI), Edizioni dell’Asino, 2020.

3Alessandra Corrado, Un nuovo regime alimentare, in Ilaria Ippolito, Mimmo Perrotta, Timothy Raeymaekers (a cura di), Braccia rubate all’ agricoltura: pratiche di sfruttamento del lavoro migrante, Torino, Edizioni Seb 27, 2021.

4  Ibid.

5 Coordinamento Generale Statistico Attuariale dell’Inps, I lavoratori immigrati dipendenti per tipologia di contratto, in Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione al lavoro (a cura di), XI Rapporto annuale: Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia, 2021, p. 75.

6 XI Rapporto annuale, Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia, a cura della Direzione generale dell’Immigrazione e delle politiche di Integrazione, 2021.

7Action Aid, Cambia terra: dall’invisibilità al protagonismo delle donne in agricoltura, 2022, p. 17.

8 Francesco Carchedi, La componente di lavoro indecente nel settore agricolo. Casi di Studio territoriali, in Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di), Agromafie e caporalato. Quinto rapporto, Roma, Ediesse: Futura, 2020, p. 324.

9Ilaria Ippolito, Mimmo Perrotta, Timothy Raeymaekers, Braccia rubate all’agricoltura: pratiche di sfruttamento del lavoro migrante, Torino, Edizioni Seb 27, 2021; Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di), Agromafie e caporalato. Quinto rapporto, Roma, Ediesse: Futura, 2020.

10 Sui campi qualcosa di nuovo, in “Noi Donne”, 3 aprile 1960, n. 14.

11 Art. 2, convezione n.100 Oil, «100 Convenzione sull’uguaglianza di retribuzione fra mano d’opera maschile e mano d’opera femminile per un lavoro di valore uguale, 1951».

12 https://www.governo.it/it/costituzione-italiana/parte-prima-diritti-e-doveri-dei-cittadini/titolo-iii-rapporti-economici/2850#:~:text=37.,bambino%20una%20speciale%20adeguata%20protezione, ultima consultazione: 11 luglio 2023.

13 Truffa in percentuale, in “Noi Donne”, n. 48, dicembre 1961, p. 28.

14 Su questo si veda Stefania Prandi, Oro rosso: fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo, Cagli, Settenove edizioni, 2018.

15 Francesco Carchedi, Francesca Cocchi, Maria Grazia Giammarinaro, Giulia Pino, Chiara Lavanna, (Rapporto a cura di), Donne gravemente sfruttate. Il diritto di essere protagoniste, Roma, Associazione Slaves No More presso le Figlie di Maria SS. dell’Orto, 2022, p. 59.

16 Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di), Agromafie e caporalato, cit., p. 81.

17 Ibid.

18 Ivi, p. 85.

19 Carchedi, Cocchi, Giammarinaro, Pino, Lavanna (Rapporto a cura di), Donne gravemente sfruttate, cit., p. 85.

20 Stefania Prandi, Oro rosso, p. 97.

21 Maria Grazia Giammarinaro, Un’analisi di genere dello sfruttamento in agricoltura, in Maria Grazia Giammarinaro, Francesca Cocchi, Chiara Lavanna, Francesco Carchedi, Giulia Pino (a cura di), Slaves no more, Donne gravemente sfruttate: il diritto di essere protagoniste, Rapporto sfruttamento 2022, p. 119. Si veda anche: Stefania Prandi, Oro rosso.

22 Maria Grazia Giammarinaro, Letizia Palumbo, Le donne migranti in agricoltura: sfruttamento, vulnerabilità, dignità, autonomia, in Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di), Agromafie e caporalato: quinto rapporto, cit., p. 87.

23 Yvan Sagnet, Leonardo Palmisano, Ghetto Italia: i braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento, Roma, Fandango, 2015.