In apertura: tavolo di studio prima di un esame (da Wikimedia Commons, https://commons.wikimedia.org).
1. Una scienza fondata epistemologicamente?
Assistiamo oggi, da parte di certa pedagogia, alla richiesta di abolizione del voto in tutti gli ordini di scuola per sostituirlo con una descrizione della prestazione, che nei fatti è una certificazione. La motivazione sarebbe che questa è più attenta al soggetto e meno “bloccante” rispetto ad un voto, inteso come un’ordalia nel suo darsi e concludersi con un numero. Gli studenti perciò studierebbero solo per avere questo numero e non per i contenuti culturali; voto usato anche, dai docenti, per punire, controllare o dominare gli alunni. Tale proposta può spiazzare, presupponendo e producendo un’estremizzazione delle posizioni che raramente è stata corrispondente alla realtà, dal momento che sovente ogni voto è stato spiegato (evocativa l’immagine dello studente alla cattedra al momento della consegna delle verifiche). Un’estremizzazione che può fare il gioco di chi la provoca, dal momento che essa può abbassare i livelli di guardia, ingenerando una balcanizzazione che alla fine favorisce in modo strumentale le posizioni epocali. Attribuire quest’orientamento a motivazioni esclusivamente pedagogiche non aiuta a comprendere a fondo la questione. Purtroppo questo è l’atteggiamento di molti pedagogisti accademici attuali1 che, in nome della scienza e di un aprioristico progresso scientifico incarnato da loro, vorrebbero imporre quanto propalano solo perché rispondente a quest’idea riduttiva e distorta di scienza (escludendo a priori che la cosa sia solamente motivo di pubblicazioni per salire nei ranking). Le loro scoperte sono presentate come novità assolute, frutto di una partenogenesi del tempo presente. Nel loro essere avanguardisti, nell’accezione di interpretare ogni aspetto della storia alla luce dei concetti presenti intesi come frutto di una rottura assoluta rispetto al passato, essi ignorano che ogni progresso scientifico, come affermava Imre Lakatos2, si nutre ed è composto dalle scoperte e dagli stessi concetti che gli erano precedenti3. Oltre al pensatore ungherese, Thomas Kuhn4 evidenzia ancora più esplicitamente il legame di ogni scoperta scientifica nel suo darsi a partire da un «paradigma», ovvero una costellazione che tiene uniti, in una logica combinatoria particolare, molti vari aspetti (culturali, sociali, economici ecc.) che caratterizzano un determinato tempo, privilegiandone alcuni e marginalizzandone altri. Per questo la pedagogia intesa come scienza, a meno di non scontare un semplicismo e un riduttivismo positivista di ottocentesca memoria, non può considerarsi irrelata dall’epoca e dal tempo nel quale sorge. Nessun pedagogista è dunque creatore del mondo, ma in esso vi si inserisce, sia che voglia darne corso, sia che voglia trasformarlo. Senza questa consapevolezza non si è altro che ierofanti dell’ideologia che permea lo status quo, vero «orizzonte» del tempo presente. La guerra al voto trova terreno fertile proprio qui.
2. Uno sguardo storico
Se si applica uno sguardo al passato anche recente, si coglie agilmente come il depotenziamento del voto abbia un’origine esplicita addirittura quasi trentennale, in particolare con la L. 425/97, ovvero la legge istitutiva dell’Esame di Stato, che riservava una parte della valutazione finale ad un massimo di 20 crediti accumulabili nel triennio. Certo, il voto rimaneva comunque, ma esso non era più la conseguenza di un evento coincidente con l’hic et nunc dell’esame, perché comprendeva la sommatoria di crediti derivanti da stages, volontariato, l’andamento dello studente nel triennio e altre amenità che con la scuola e lo studio poco avevano a che fare. Inoltre, la stessa legge prevedeva che, per i candidati esterni, potessero trasformarsi in crediti le attività professionali precedenti. Con questa legge si assiste ad una «desacralizzazione» del momento della valutazione, da un lato perché esso inizia ad incamerare una molteplicità di elementi anche eterogenei accumulabili in tempi diacronici; dall’altro si evidenzia lo spostamento di baricentro nell’anticipo temporale, quasi a voler anestetizzare il rischio della singola prova d’esame, la sua possibile rottura rispetto ad un percorso pluriennale, col suo carico di imprevedibilità ed aleatorietà, tipico della vita che scorre e che non ha argini che riescano a contenerla. L’impressione è che già allora si volesse rendere l’esame una prova più piana, meno imprevedibile e più statica, di modo che non riservasse sorprese – nel bene, come nel male – rispetto al gretto nel quale era corsa la vita scolastica negli anni precedenti, in un apparente buonismo che sapeva di umana comprensione, contrapposto all’ansia dell’esame inteso come ordalia separata da tutto il resto. Anodizzare la prova d’esame è il frutto di una concezione che intende la valutazione come se essa slittasse dal sapere alla persona, e guarda caso questo è proprio uno degli argomenti da cui parte l’accusa che i pedagogisti ultra contemporanei attribuiscono al voto: quello di bloccare l’apprendimento perché in qualche modo riferibile direttamente al soggetto invece che alla prova svolta, quasi ci fosse una sovrapposizione immediata tra questi due elementi, quando invece essi sono indissolubilmente legati, ma allo stesso tempo anche fratti e mai perfettamente corrispondenti. A ciò è seguito il Dlgs. 59/04, attraverso il quale si sopprimeva l’esame di quinta elementare.
3. Un inquadramento della questione
Tutto questo è a mio avviso corrispondente all’orientamento di soffocare ogni sovvertimento allo status quo, ogni imprevedibilità, in una logica di contenimento e profilazione in cui l’economicità della previsione e la conseguente stabilità abbiano la meglio, a favore di un’efficienza che riduce lo spreco di risorse, ma allo stesso tempo preclude il guizzo, la creazione, il nuovo e l’inaspettato, che sono lo sgorgare della vita. Al contempo si premia chi a quel percorso precostituito si conforma giorno per giorno. Anestetizzare la valutazione della singola prova, slegandola dall’esclusivo ambito scolastico o grazie ad un suo dissolvimento nel percorso scolastico, indebolisce la stessa valutazione, in quanto ne spezza i legami con la vita intesa anche come alea, rendendo questa valutazione insignificante; ed è proprio quanto assistiamo e non da oggi. Lo scioglimento della valutazione nell’anticipo e nella predizione significa anche predeterminare il futuro, predisponendolo in modo sempre più stringente e pellicolare all’istituzione, ovvero un certo modello di scuola che incarna a sua volta una concezione di vita e un rapporto col mondo di un certo tipo. Tutto ciò contribuisce a determinare l’alveo nel quale vivere, alveo oramai sempre più simile ai binari di una ferrovia, progettata con il criterio di quella che Foucault chiamava «biopolitica»5, da perseguire attraverso la «governamentalità». Questo denota la riduzione dell’importanza del singolo (lo studente in questo caso) a favore dello status quo, espresso nell’istituzione e perseguito dalla stessa. Un’istituzione posta all’esterno e per questo insindacabile e incarnante la verità, tanto che essa agisce per eliminare proprio la possibilità che ci sia qualche singolo emancipato che metta in discussione l’ordine costituito da essa incarnato, avendo egli il coraggio e la chiarezza di parole che richiamano e nominano quanto la massa vive in sordo e sofferente silenzio. Una scuola ben distante dai principi costituzionali che, secondo gli artt. 3 e 33 è organo costituzionale della democrazia, secondo la felice interpretazione di Calamandrei, ovvero istituzione necessaria, assieme al voto e al lavoro, per il pieno compimento del soggetto e per il contributo di questo «all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Una scuola che oggi è sempre più organo di riproduzione6 piuttosto che possibilità emancipante, perché essa persegue l’inserimento del singolo nell’organizzazione data e non il suo contributo alla determinazione di questa, così come intendevano i padri costituenti. Lo smorzamento della valutazione è funzionale a questo anche per il fatto che essa è un momento nel quale emerge il valutato, ma anche il valutatore. Il discioglimento della valutazione secca, intesa come voto od esame, mette a sottacere proprio il valutatore, che non è più riconoscibile; ciò gli fa acquisire, nascondendolo, un potere subdolo che non ha più limiti, proprio perché non più identificabile e perciò senza più controparte. La valutazione intesa come certificazione da parte di un ente terzo è già realtà da quando è stato istituito l’Invalsi i cui dati oggi, con le nuove disposizioni, possono essere usati dai singoli Istituti per identificare gli studenti con fragilità. Il tutto, come ben evidenziato da Roars7, senza che vi sia una partecipazione democratica alla costruzione/revisione dello strumento di rilevazione, che di fatto risponde ad un ente di diritto privato. Il tutto a scapito della dialettica e a favore di un pensiero unico soffocante, come è per ogni verità data e non da ricercare. Il passaggio della valutazione da questione culturale/umana a questione tecnica, è una sottile strategia per castrare la nascita del nuovo, che si localizza dove c’è dialettica: viva nella valutazione ed ipostatizzata, e perciò assente, nella certificazione. Tutto questo si lega al ruolo della soggettività. Infatti in un voto spiegato la parzialità soggettiva si inserisce in un contesto vivo e non rigido, che sicuramente può all’apparenza sembrare limitante quando in essa predomina invece la dinamicità; perché su di un voto si può instaurare una dialettica tra due soggettività – quella dello studente che chiede spiegazioni e quella dell’insegnante che argomenta il suo agire – elemento quest’ultimo che porta in sé la libertà e che grazie a questa permette allo stesso studente di farne esperienza, foss’anche per via negativa, con una soggettività che si oppone ad un’altra soggettività. La certificazione nega tutto questo dando corso allo status quo, trattando lo studente da individuo e non da soggetto, essendo unidirezionale e a-dialettica. Togliere di mezzo la soggettività – e con essa la libertà e la responsabilità – è la via, imboccata da anni (i corsi universitari per diventare insegnanti, così come il modello di docente che si vuole tramite la formazione in servizio unitamente alla pletora di progetti e Circolari ministeriali ce lo dimostrano) per risolvere la questione educativa come questione meramente tecnica. E propugnare con essa, nelle nuove generazioni, uno stato di minorità che si attaglia allo sfruttamento. Proprio il contrario di una concezione di scuola emancipante fondata sull’incontro aperto e libero di soggettività. Incontro che si esprime anche nella dialettica resa possibile dal voto.
Un altro gradino verso l’insignificanza del voto, con le peculiarità conseguenti precedentemente raffigurate, è stata l’introduzione del concetto di competenza, con la certificazione della stessa alla fine di ogni ciclo di studi. La competenza infatti si riduce ad una logica binaria – c’è o non c’è – in un riduzionismo che annulla ogni sfumatura. Ecco che il ventaglio dei voti sarà sempre più inutile, dal momento che lo scenario da certificare sarà sempre più predeterminato a due sole opzioni, riducendo la portata e il senso stesso del voto. A tutto questo si è poi aggiunto, nel 2017, il Curriculum dello studente, che prende in considerazione una quantità di elementi davvero eterogenei, quando non propriamente allogeni, rispetto all’istanza culturale della scuola.
Ma entrando più nello specifico e ritornando all’odierna diatriba, sembrerebbe montata ad arte, contro il voto, essa può rivelare qualcosa di più se affrontata attraverso due categorie, ben concettualizzate a partire da Wilhelm Windelband – con soprattutto le geografie umane ad utilizzarle negli anni Sessanta e Settanta: ovvero quelle dell’approccio idiografico e dell’approccio nomotetico8. Con l’utilizzo di queste due categorie verrebbe da dire che non si riscontra nulla di nuovo sotto il sole.
L’abolizione del voto, infatti, sarebbe l’applicazione in maniera ideologica ed apodittica dell’approccio idiografico; ovvero un approccio attento alla singolarità dell’oggetto così affrontato, dato che tutta l’attenzione viene concentrata su di esso. Diversamente la valutazione attraverso l’approccio nomotetico fa riferimento ad uno scenario fisso, che sembrerebbe oscurare la singolarità, dato che l’unità di misura è esterna ad essa. Ma se vogliamo discriminare cosa è bene e cosa è male in educazione, non possiamo esimerci dallo scegliere, date la stessa natura e funzione dell’educativo, il criterio che privilegia la realizzazione degli strati di possibilità rispetto alla staticità.
Vediamo ora come l’approccio idiografico, pur attento al singolo, se applicato senza dialettica, può risultare statico e confermativo dello status quo. E la sua affermazione non è un caso se consideriamo che la funzione della scuola attuale è, come evidenziato precedentemente, confermativa e riproduttiva dell’esistente dominante di cui è al servizio; un esistente certo non identificabile con una concezione attenta agli emarginati, bensì alle oligarchie affermatesi, come confermano molti studiosi dell’argomento9, dal momento che se salvezza dev’esserci, essa dipenderà dallo stesso emarginato, che dovrà assumere ed identificarsi, anche attraverso la scuola, nella stessa ideologia che lo emargina, così da ottenere qualche briciola in più come royalty dello sfruttamento a cui si consegna, senza una reale trasformazione delle cause che generano le sue condizioni. L’innovazione concepita dai cantori futuristi della scuola trova giustificazione solamente contro quelle sacche non ancora rispondenti alla sua completa mondanizzazione. Anche l’abolizione del voto attraverso l’esclusivo approccio idiografico va in questa direzione, svelando la natura conservatrice di molta pedagogia che si definisce autarchicamente progressista nonostante sia fondata su assunti conservatori, quali sono quelli dell’Agenda 2030, del life long learning (o adattamento per tutta la vita, perché prevede sempre uno stato di minorità da colmare con l’adattamento e non attraverso una ricerca trasformativa del contesto), delle Conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona del 2000, di una formazione che è profilazione ed individuazione secondo quelle che sono le esigenze della grande industria (Pcto, professionalizzazione scolastica e orientamento conseguente in tutte le salse) e di un concetto di uomo inteso come capitale umano da cui estrarre valore, dal momento che è affermata la centralità dell’economia – intesa in un certo modo – con tutto il resto che è mezzo strumentale ad essa. Insomma, di una scuola che identifica aprioristicamente il bene del singolo non nella sua piena realizzazione, ovvero in quell’utopia concreta e aperta al «non ancora»10 che è la «coincidenza di essenza ed esistenza»11 ma nella adesione ad un bene che è stato dislocato al di fuori di questo soggetto dinamico e collocato nel modello di chi detiene il potere12. Infatti, se la valutazione prende la forma di una mera descrizione di un livello raggiunto, come vorrebbero i pedagogisti al soldo dell’epoca, essa sarà una fotografia senza vita dello status quo; di come il soggetto, così individuato è (tralasciando, ça va san dire, la soggettività e la parzialità di qualunque descrizione), con pochi riferimenti agli strati di possibilità non compiute presenti in lui. Inoltre, tale approccio privilegia una dimensione solipsista ed individualista dal momento che, al di fuori dell’individuo così fotografato non esiste altro, essendo questo individuo del tutto irrelato. La logica prestazionale, che i pedagogisti dell’abolizione del voto vorrebbero espunta dalla descrizione in quanto essa sarebbe prodotta dal voto, assume così, beffardamente, una nuova centralità, perché la descrizione afferisce esclusivamente ad essa, senza più un riferimento a qualcosa di esterno; risulta evidente, anche in questo caso, un approccio positivista-riduzionista nella nemesi della descrizione, ovvero quanto essa vorrebbe eliminare nelle intenzioni dei suoi propositori. Una descrizione di tal guisa è assimilabile allo specchio: riflette l’oggetto senza ulteriore mediazione quale può essere il riferimento al sapere, restituendo l’immagine per come essa è. E questa è la negazione dell’educazione, dal momento che questa ha il suo fulcro sì in ciò che è presente, ma che non è ancora, non avendo trovato nel presente stesso il suo compimento, possibile proprio in virtù dell’educazione che fa volgere questo soggetto all’esterno, attraverso una dialettica che media tra mondo e soggettività. Ecco che allora le molte critiche di certa pedagogia ideologicamente modernista relative all’autoreferenzialità dei saperi disciplinari e alla staticità, ad esempio, della lezione frontale (almeno nella caricatura di chi quella lezione non la sa fare e la confonde per una conferenza autoreferenziale), che viene contrapposta al distorto dinamismo di stampo futurista o situazionista che nelle intenzioni dei pedagogisti di regime renderebbero viva la lezione al prezzo dell’immediatezza insignificante della stessa, svelano la natura statica e conservatrice proprio di chi propone questa stessa pedagogia, dal momento che l’abolizione del voto a favore dello specchio è propalata dagli stessi iperattivi pedagogisti.
Diversamente un approccio nomotetico alla valutazione, quale può essere un voto che viene spiegato, dà delle possibilità di confronto. Infatti diversamente dalla descrizione, che è riferita alla sola prestazione, esso mette in relazione questa con i saperi esterni al soggetto, e ai quali fa riferimento. Così, se uno studente prende un voto (che non sia dieci), significa che si è posizionato a quel livello su di una scala che ne prevedeva anche di più elevati in riferimento a qualcosa di esterno a lui e che è possibile raggiungere. Nello stesso momento in cui il voto «arresta» la soggettività riferendosi alla prestazione, esso ne indica anche una possibilità di raffinazione e perfezionamento nel suo volgersi a questo esterno rappresentato dal sapere, attraverso una costruttiva ed arricchente relazione dialettica. Inoltre il voto, essendo altro rispetto al soggetto al quale è attribuito, apre un’ulteriore dialettica che può esser volta al costruttivo, come ad esempio il confronto con i pari in ottica propositiva od evidenziare una mancanza rispetto ad una potenzialità, ad un errore – che poteva essere evitato – rispetto allo studio.
4. Ogni valutazione ha delle premesse e delle conseguenze
Come abbiamo visto, dalla proposta di abolizione del voto emerge una assenza di dialettica che si estende anche alla relazione tra insegnante ed allievo. Se nella loro hibrys distorta e nella loro scuola immaginaria lontana dalla realtà, i pedagogisti rilevano assenza di dialettica perché l’insegnante fa lezione e gli studenti sono statue di sale o complementi d’arredo, la loro conseguente proposta non denota un cambiamento significativo in tal senso. La sostituzione del voto con una descrizione segna la gravissima assenza di dialettica tra l’insegnante che valuta e l’allievo, sostituita da una relazione di dominio da parte dello stesso insegnante. Infatti nessuna descrizione sarà mai oggettiva e neutra, perché fatta da un soggetto; ma proprio in questa descrizione ammantata di oggettività, il potere di chi descrive non appare e per questo non trova limiti né può essere fatto oggetto di relazione, diventando così assoluto ed antidemocratico. Senza contare che con la descrizione (certificazione) di quanto appreso, ogni cosa ricade – o viene fatta artatamente ricadere – tutta sullo studente. Infatti se una classe, in una verifica, rileva una preparazione non adeguata, con la descrizione il docente non metterà mai in discussione se stesso, perché tale descrizione è esclusivamente incentrata sullo studente proprio a causa dell’assenza di dialettica con i contenuti e con la lezione svolta. Ma questo potere e questa intoccabilità empirei del docente, producono una ben stana conseguenza: la scomparsa del docente incarnato, che può esser sostituito da un robot. Avviene dunque il passaggio di potere dalla soggettività all’apparato, ovvero a quei dispositivi impersonali e burocratici di «governamentalità» prefigurati con sommo anticipo da Michel Foucault. La loro caratteristica principale è proprio la depoliticizzazione e perciò la loro antidemocraticità, dal momento che essi non sono oggetto di discussione una volta predisposti e fatti agire in modo automatico e disumano, escludendo così il senso dell’evento che si svolge nell’hic et nunc a favore di un’oggettività che sta sempre dalla parte del potere e che mira a governare il comportamento dell’uomo fino alle dimensioni più intime, in un processo di individuazione e condizionamento che non esclude nessuna dimensione ed agisce come la goccia cinese. Ciò toglie ogni spazio alla autodeterminazione relazionale tipica dell’umano e di una scuola emancipante e perciò davvero democratica (dal momento che contrarie alla democrazia sono l’oligarchia e la tirannide, dove una minoranza impartisce ordini e gli altri eseguono). In una scuola priva di relazione insegnante-allievo, ma con una torsione in cui all’apparente centralità dello studente si cela lo strapotere dell’apparato, il risultato è già scritto in partenza; e non è sovvertibile. Ed è quello del dominio dei pochi sui molti13. Un dominio che può essere spezzato e trasformato solo da un sapere e da un processo di apprendimento-insegnamento che devono essere dialogici e perciò aperti. Fondati su conoscenze e sulla rielaborazione delle stesse che, nella loro «durezza», sono i potenti strumenti con i quali dispiegare l’umano e la stessa libertà, perché non dati in forma statica da imparare a memoria, bensì aperta e da interpretare soggettivamente e costruttivamente. Quando infatti un sapere è dato in forma statica e finita, esso è morto; non serve più. Non si tratta di ovviare al problema eliminando i saperi disciplinari, bensì di aprirli continuamente, nel dialogo e nella riflessione su di essi fino ad una rielaborazione soggettiva. Una scuola aderente all’esclusivo approccio idiografico è perciò a-dialettica, ed è una scuola che non insegna perché, dopo l’assenza della relazione studente-docente, viene a mancare anche quella studente-sapere. Si realizza così una scuola fintamente studente-centrica, perché questo studente, senza confronto con i saperi disciplinari e senza confronto con l’insegnante, rimarrà una crisalide nel bozzolo di chi detiene il potere; una crisalide utile e produttiva. Ma per chi?
L’assenza di dialettica, spacciata a buon mercato grazie alla retorica che vede mettere al centro, di volta in volta, singolarmente e come fossero in contrasto tra loro l’insegnamento, l’apprendimento, lo studente e il docente, comporta anche un’altra conseguenza, in sintonia con le tendenze epocali dominanti. Una descrizione idiografica di quanto fatto dallo studente porta infatti all’emersione di un individuo inteso come consumatore, destinatario di questa descrizione che porta lo sguardo dell’allievo sul suo ombelico. Al contrario, e come già accennato, un voto spiegato relativo a dei contenuti esterni con i quali l’allievo si misura, voto inteso come una gradazione, è un’occasione che mantiene viva la dialettica e porta ad uscire da sé, verso quel cielo stellato che sta sopra di noi; un sommo uscir a riveder le stelle. Un moto che fa sentire attivo lo studente in relazione a qualcosa e che sprona il suo movimento che, con errori compresi, porta ad un perfezionamento di sé. In fondo qualsiasi evidenza empirica ce lo dimostra: solo l’esperienza, intesa come confronto con qualcosa di esterno con le sue richieste, con conseguenti limiti ed errori compresi, ci fa progredire e stimolare quell’attività che è concetto centrale di tutti i padri nobili della pedagogia a cui si richiamano – molte volte tradendoli, dal momento che, una volta divinati e istituzionalizzati combinano in loro nome le peggiori nefandezze, come il clero più dissoluto e lascivo, capace di dare lezioni di moralità agli altri, ignorandone il messaggio e preferendogli la liturgia – i pedagogisti del pensiero totalitario epocale.
5. Proposte a partire da una concezione non epocale
Essendo l’educativo facente parte della sfera umana, l’approccio dialettico è quello più sensibile al mutarsi della vita che vive. Perciò si tratta di unire ed equilibrare gli aspetti del nomotetico a quelli dell’idiografico, come può essere un voto spiegato che dica delle mancanze o delle peculiarità, va in questa direzione. Realizzando ciò si è sensibili sia verso la singolarità dello studente, sia verso gli strati di possibilità che possono apparire materialmente attraverso questo tipo di valutazione integrata. Coerentemente ad una concezione non dogmatica della valutazione quale quella qui affermata, è importante considerare le peculiarità delle diverse età degli scolari ed attivare un tipo di valutazione ad esse adeguata e trasformativa. Oggi purtroppo constatiamo che la valutazione della Primaria ha subito una “secondarizzazione”, ovvero si è assistito ad una sempre maggiore oggettività e rigidità valutative, come ad esempio l’introduzione dei voti numerici, proprio quando le metodologie propalate dai pedagogisti, quasi per contrappasso, producono un certo lassismo nel trattare i contenuti, abbassando sensibilmente gli obiettivi e con essi i risultati. Si è così assistito ad un predominare della forma sulla sostanza, di cui si iniziano a vedere i risultati non solo nelle classifiche internazionali di organizzazioni di diritto privato, bensì soprattutto da parte di chi in classe ci lavora, con sempre più evidenti difficoltà nell’ortografia, nella comprensione di un testo, nel risolvere problemi e nelle conoscenze storiche e geografiche. Un calo accresciuto anche a seguito dell’autonomia scolastica e dello smantellamento dei Programmi nazionali, come ben osserva Lorenzo Varaldo14. La bilancia si è dunque spostata sull’asse della valutazione a scapito delle conoscenze e dei contenuti da apprendere, una frattura e una distanza tra queste due dimensioni molto evidenti in certi documenti di valutazione della primaria, dove compaiono obiettivi che neanche un adulto riuscirebbe ad ottenere, unitamente al fatto che il singolo insegnante è espropriato della valutazione in solido che per legge fa parte dei suoi doveri professionali, dato che le pagelle sono compilate scegliendo con un click frasi da apporre in forma paratattica estrapolate da un frasario prestabilito dagli stessi collegi docenti; pagelle che dicono poco del singolo alunno, dato che in tre o quattro modelli si fanno rientrare tutti gli alunni della classe. Una valutazione che sovente è prodotta con strumenti, quali griglie ed obiettivi, che non vengono costruiti, ma solamente usati dai docenti, in quanto forniti bell’e pronti e adottati da una forma di collegialità a cui è difficile sottrarsi e che ha connotati restringenti la libertà di insegnamento affermata costituzionalmente. Lo spostamento di asse e della rilevanza acquisita dalla valutazione a scapito di tutto il resto, è evidente dal fatto che alla primaria molto spesso si scrivono sul diario con solennità le date delle verifiche e delle interrogazioni, nelle quali si è sovente chiamati a rispondere alla cattedra e che molte volte sono vissute in modo non adeguato all’età. Fino agli anni Novanta non è mai stato così, se non in rari casi. Quindi la proposta degli aedi della valutazione innovativa sarebbe, per la primaria, un ritorno al passato, nel quale si valutava lo stesso ma in modo molto meno rigido, astratto e formalizzato. Vale la pena però sottolineare come, con il Decreto ministeriale n. 172 del 04/12/2020 che sostituisce i giudizi ai voti, si assiste alla trasformazione della valutazione, che diventa fumosa e slegata dalla realtà. Essa sembra piuttosto essere uno strumento per cambiare la realtà stessa, per renderla più pellicolare – in modo acritico – all’epoca. La valutazione insufficiente non è infatti più prevista, dal momento che «in via di prima acquisizione» viene assegnato anche a chi non sa nulla. Ciò assimila la valutazione alla pubblicità di un prodotto commerciale, che non deve avere zone d’ombra15. L’insufficienza, infatti, soprattutto in quest’ordine di scuola dovrebbe, oltre ad essere veritiera nei confronti dello studente, anche attivare una riflessione sull’operato dell’insegnante che, se tutto è a priori positivo, non avverrà mai; e ciò non fa che protrarre lo status quo tanto dell’allievo quanto di chi insegna. L’insegnamento diventa così sempre più burocratico ed autoreferenziale16; un agire tecnico che trova in sé stesso la sua ragione, negando la dialettica, la relazione e l’intersoggettività che sono le basi dell’insegnamento. Inoltre i giudizi «intermedio» e «avanzato» sono oscuri. Infatti intermedio ed avanzato rispetto a cosa? Sono infatti termini vacui, che non hanno un limite intrinseco chiaro al pensiero, essendo fluttuanti ed indeterminati rispetto alla realtà.
Ritengo sia importante distinguere la valutazione in relazione all’età. Infatti alla Primaria si ha a che fare con bambini molto in divenire e soprattutto con poche strutture di personalità nelle quali radicare il cambiamento a partire da una valutazione esterna; strutture che solo una volta formatesi, seppur embrionalmente, rendono possibile una proficua dialettica con una valutazione del proprio operato. A questa età è importante l’agire dell’insegnante nel far apprendere – con la necessaria rigorosità e serietà – e nell’appassionare al pensiero a partire da elementi culturali significativi che a loro volta sono necessari per mediare e contribuire a rendere concrete le possibilità non ancora realizzatesi di ciascuno. Anche la valutazione deve tenere conto di ciò; da una parte evitando la possibile frustrazione di alunni ancora inconsapevoli di come correggere il proprio agire e, dall’altro, evitando l’opposto di una valutazione che non sia veritiera, perché non centrata sul soggetto, ma su ciò che l’epoca vuol fare di lui. Molto meglio allora, a quest’età, attivare una valutazione con giudizi chiari – dall’insufficiente all’ottimo – in modo che possa contribuire, attraverso l’apprendimento degli elementi di base del sapere, alla formazione di una struttura di personalità che solo poi sarà in grado di raffrontarsi con il voto, ossia reagendo ad esso con cognizione.
Note
1 Valentina Grion, Dal voto alla valutazione per l’apprendimento, Roma, Carocci, 2022; Cristiano Corsini, Carla Gueli, Dal voto alla valutazione per l’apprendimento, in “Journal of Educational Cultural and Psycological Studies”, 2022. Da notare la differenza di tono tra quanto questi autori pubblicano sulle loro pagine social e gli scritti scientifici. Assertivi e perentori i primi, accomodanti e mai divisivi i secondi.
2 Imre Lakatos, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, Milano, Est, 2001.
3 Si veda anche Edward Grant, Le origini medievali della scienza moderna, Torino, Einaudi, 2001.
4 Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 2009.
5 Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2005.
6 Pierra Bourdieu, La riproduzione, Rimini, Guaraldi, 2006.
7 https://www.roars.it/schedatura-di-stato-invalsi-nomi-e-cognomi-degli-studenti-disagiati-e-adesso/, ultima consultazione: 28 febbraio 2023.
8 Paul Claval, Elementi di geografia umana, Milano, Unicopli, 1983.
9 Pier Dardot, Christian Laval, Guerra alla democrazia, Roma, DeriveApprodi, 2016; Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2016; Luc Boltanski, Eve Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo, Milano-Udine, Mimesis, 2014. Luciano Canfora, La democrazia dei signori, Roma-Bari, Laterza, 2022.
10 Ernst Bloch, Spirito dell’utopia, Milano, Rizzoli, 2010.
11 Id., Tracce, Milano, Garzanti, 2019.
12 Id., Il principio speranza, Milano, Garzanti, 2015.
13 Boltanski, Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo, cit.
14 Lorenzo Varaldo, La scuola rovesciata, Pisa, ETS, 2016.
15 Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Roma-Bari, Laterza, 2019.
16 Pier Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo, Roma, DeriveApprodi, 2019.