I giorni dell’alluvione in Romagna. Riflessioni tra storia e orografia del territorio

The flood days in Romagna. Considerations between history and the orography of the area

In apertura: Lugo allagata (RavennaeDintorni.it).

Per intraprendere ognuna di queste cose occorre essere in molti, e molto uniti, e molto coraggiosi e fidanti l’uno dell’altro. Hanno dovuto aguzzare la vista dei loro occhi e del loro cuore per imparare a vedere oltre la foschia degli acquitrini, al di là delle palizzate e dell’ineluttabilità dei destini.

Maurizio Maggiani, Quello che ancora vive

Gli eventi climatici che ci siamo trovati ad affrontare lo scorso maggio, oltre ad aver stravolto vite e prospettive di migliaia di persone, sono un grido d’allarme che coinvolge inevitabilmente anche chi non ne è stato direttamente toccato. In poche ore sul territorio romagnolo è caduta una quantità di pioggia pari a quella rilevata mediamente in un mese, causando centinaia di frane lungo tutta l’arco appenninico e l’esondazione quasi contemporanea di tutti i fiumi delle provincie di Ravenna, Rimini e Forlì Cesena1. Se la regione ha alle spalle una lunga storia di rischio alluvionale, quanto accaduto tra il 2 e il 20 maggio scorso ha tutta la portata di un evento senza precedenti: per la quantità di persone coinvolte, per aver insistito non su uno ma su tutti i corsi d’acqua del territorio, e per la concomitanza di due eventi climatici definiti “eccezionali” avvenuti a distanza di appena due settimane uno dall’altro. Il numero di vittime è stato fortunatamente contenuto, anche grazie ai dispositivi messi in opera dal sistema di allerta, ma per portata e porzione di territorio coinvolto si è trattato senz’altro di uno dei disastri climatici più gravi della storia nazionale2. Il patrimonio culturale e archivistico, i terreni coltivati, la rete di infrastrutture: in pratica tutto il sistema civile ed economico è collassato causando perdite enormi nonché la trasformazione definitiva di porzioni di paesaggio. Tuttora sono centinaia le persone che non hanno più fatto rientro nelle proprie case, travolte dall’acqua anche fino al terzo piano e rese inagibili, per non parlare di tutti coloro che hanno perso gran parte di quello che possedevano, dall’auto ai mobili ai ricordi di famiglia. L’estate ha svelato una collina costellata di squarci e una campagna soffocata da uno strato di argilla crepata e sterile.

La ferita è ancora troppo vicina per poter valutare quanto avvenuto in tutta la sua portata: economica, sociale, ambientale. Si tratta di un argomento che impone riflessioni profonde, riguardanti innanzitutto il clima, la tutela del territorio, le strategie per proteggersi e le trasformazioni necessarie per sopravvivere. Senza entrare nel complesso dibattito in corso, che richiede competenze che esulano del tutto da questa rivista, ritengo che quanto accaduto ci imponga una riflessione anche come storici, legati a questa regione non solo per ragioni affettive o di vita, ma per averne studiato e raccontato le dinamiche sociali, politiche, territoriali. La Romagna è un territorio particolare, che numerosi studi hanno tentato di indagare e rilevare, nella sua storia politica e non solo. Proprio nel momento della crisi peggiore questo territorio ha dovuto necessariamente fare i conti con la propria storia, emersa in tutto il suo bagaglio di sapienza sedimentata, di nodi dolorosi, di fragilità ataviche, di strategie di resistenza. Si propongono qui alcuni spunti di riflessione sorti dall’osservazione ravvicinata degli eventi, nel tentativo di fornire una prospettiva storica e una elaborazione lontana dall’urgenza dell’immediato.

1. Una regione a livello del mare

Nel pomeriggio del 19 maggio scorso il presidente della Cooperativa Agricola Braccianti di Piangipane annunciava, attraverso i canali social, di avere ricevuto dalla Prefettura la richiesta per poter procedere ad allagare i terreni di proprietà della cooperativa, circa 200 ettari di terra situati alle porte di Ravenna e costeggianti la via Romea. La richiesta proveniva dall’urgenza estrema della situazione in corso nonché da un obiettivo ambizioso e indefinito insieme: salvare il salvabile. «Naturalmente abbiamo acconsentito» chiosava il breve messaggio, «sperando che serva a qualcosa»3.

Da tre giorni la Romagna era travolta da un disastro alluvionale senza precedenti, per entità e portata, nella sua storia recente. Mentre i cittadini di Ravenna leggevano con sgomento queste parole, alle porte della città si era accumulata una enorme massa d’acqua che aveva, nelle poche ore tra la tarda sera del 18 maggio e la mattina successiva, sommerso interamente la frazione di Fornace Zarattini, posta in continuità con la zona ovest del capoluogo nonché sito di magazzini, concessionarie, grandi centri commerciali. Una frazione trasformata negli ultimi decenni in periferia commerciale e industriale della città, porta d’accesso e di collegamento con i centri dell’entroterra, lontana dai principali canali fluviali e non interessata direttamente da nessuna delle rotture di argini che nei giorni precedenti avevano sconvolto e trascinato con sé le vite, i progetti, il paesaggio di una intera regione. Ma la rete di canali e fossati che come una ragnatela sottile attraversa tutto il territorio si è trovata in poche ore a reggere il peso dell’esondazione dei fiumi in piena, trovandosi a fare da vettore di una massa d’acqua che in un modo o nell’altro non poteva che tentare di raggiungere il mare.

Dopo le grandi piogge, che in un solo lunghissimo pomeriggio hanno fatto collassare l’Appennino su sé stesso (si stimano circa 300 eventi franosi), dopo le notizie che hanno costellato le ore interminabili del 16 maggio, un argine rotto dopo l’altro, un centro abitato travolto dall’acqua e dal fango dopo l’altro (abbiamo visto immediatamente finire sott’acqua Cesena, poi Forlì, e ancor più gravemente Faenza, dove fin dalla prima notte le grida di aiuto di persone rifugiate sui tetti hanno dato la misura della portata devastante di quanto accaduto) l’attenzione e l’allarme si sono rivolti su ciò che i fiumi avevano rilasciato, sui percorsi che tutta quell’acqua avrebbe fatto per raggiungere nuove foci sul mare. In poche ore canali e fossati di cui molti ignoravano l’esistenza si sono trasformati da rete di protezione in nuovi letti fluviali dove con velocità disarmante correva ed esondava l’acqua dell’alluvione, insieme al fango e ai detriti. Anzi, delle alluvioni, poiché nell’evento che ha coinvolto le province di Ravenna e di Forlì-Cesena il 16 maggio scorso sono stati nove, ovvero tutti, i corsi d’acqua interessati da esondazioni e rotture di argini. Nove tra fiumi e torrenti, con i relativi affluenti (Sillaro, Santerno, Senio, Lamone, Montone, Ronco, Bevano, Savio, Rubicone) disposti più o meno parallelamente sulla pianura, i primi tre sfocianti nel Reno, gli altri diretti verso l’Adriatico. Ogni porzione di terreno pertanto, fosse campo coltivato o centro abitato, è stata giocoforza minacciata dall’acqua di almeno due fiumi proveniente da due o più eventi alluvionali.

Nella pianura bonificata tutti i fiumi sono necessariamente pensili, ovvero l’acqua scorre più in alto del terreno circostante, protetta da argini di terra alti una decina di metri: una volta rotti questi, l’acqua non può rientrare nel suo letto originario, ma prosegue sul terreno cercando una nuova foce, continuando a sgorgare ininterrottamente dalla stessa ferita. Le fotografie inquadrate dall’alto e pubblicate sui giornali hanno mostrato fin da subito l’immagine disarmante di alvei fluviali quasi interamente deviati, argini rotti divenuti irriconoscibili perché circondati dall’acqua marrone da tutti i lati: nel caso del fiume Santerno, dove l’acqua spaccando l’argine ha travolto e letteralmente sventrato una casa posta al suo fianco, la stessa terra dell’argine è rovinata sul letto originario chiudendolo del tutto e deviandone definitivamente il percorso. I campi circostanti si sono immediatamente allagati, mentre il paese di Sant’Agata sul Santerno ha avuto la mala sorte di trovarsi sul nuovo percorso ed è stato investito in poche ore da un fiume inarrestabile di fango.

Il risveglio drammatico di Fornace Zarattini, con il salvataggio condotto dai volontari che hanno messo a disposizione mezzi e gommoni sfilando tra strade irriconoscibili per portare via dalle finestre gli abitanti, è stato soltanto l’ultimo tassello di questo passaggio di testimone inesorabile: le campagne e la zona industriale di Bagnacavallo (già interessati dall’alluvione del 2 maggio e allagati nuovamente nella notte tra il 16 e il 17), l’intero centro abitato di Conselice nonché tutti i terreni circostanti, il paese di Solarolo, si sono trovati in poco tempo sommersi nonostante siano relativamente distanti dai punti più tragici di squarcio degli argini. Anche Lugo si è svegliata il 18 di maggio appoggiata su un enorme specchio verde, quasi interamente invasa da un’acqua che aveva già percorso diversi chilometri e che è sgorgata anche dai tombini, allagando case, piazze, cantine, la biblioteca, il teatro comunale.

Nonostante il sistema di allarme avesse avvisato dei rischi gli abitanti più prossimi ai corsi fluviali e nonostante le numerose disposizioni di sfollamento abbiano nei giorni cruciali allontanato dalle proprie case migliaia di persone a maggior rischio, l’arrivo dell’acqua è stato spesso così improvviso e violento che alcuni centri ne sono stati travolti senza avere il tempo o i mezzi adeguati per poter intervenire. Famiglie intere si sono trovate imprigionate per molte ore nelle loro stesse case in attesa degli eventi, senza energia elettrica e senza contatti con l’esterno, spesso senza possibilità di accedere a risorse alimentari o medicine che si trovavano nella parte allagata della casa. Questo trauma collettivo non può che lasciare un segno indelebile nella memoria futura delle comunità, nel rapporto stesso con il territorio, di cui probabilmente solo col tempo potremo misurare la portata.

Quel che è certo è che nella popolazione della Romagna le conoscenze che hanno fatto parte per secoli della tradizione contadina sono ormai quasi interamente svanite, patrimonio soltanto di chi si occupa di agricoltura o di idraulica, ovvero una percentuale relativamente bassa della popolazione. Non sappiamo dove si trovano i canali e i fossati della rete idrica, non ricordiamo i loro nomi e i percorsi, perché sono conoscenze che nel sistema economico e lavorativo moderno non sono più utili, individuate dall’immaginario collettivo come epigoni del passato. Eppure si è dimenticata e interrotta quella rete di sapere che rendeva consapevoli di quali fossero le zone più depresse, quali mosse fossero necessarie per difendersi dall’acqua e dalle sue minacce, come vegliare sui fiumi e osservarne i pericoli. Il territorio pianeggiante sembra tutto uguale, invariabilmente identico a sé stesso, eppure pochi centimetri in più o in meno sul livello del mare marcano i percorsi di una mappa invisibile che determina i confini tra la terra e l’acqua. La cartina geografica della regione precedente alle bonifiche ha rivelato con impressionante aderenza le aree tradizionalmente acquitrinose con quelle che ora si sono trovate a convogliare e trattenere le acque alluvionali4. La Romagna è tornata a tracciare per pochi giorni la sua mappa più antica, che si è in qualche modo svelata con violenza improvvisa. La prospettiva storica è diventata così una evidenza inevitabile, sganciata però dagli strumenti per poterla comprendere.

Un evento climatico estremo ha ricordato a tutti la natura più ovvia e più dimenticata della Romagna: una terra che l’uomo ha costruito e inventato, che ha trasformato quasi interamente, per renderla abitabile e coltivabile. Una terra che è stata vissuta sempre tenendo d’occhio l’acqua e la sua volontà di riprendersi quel che le era stato sottratto, vigilando e lavorando costantemente per domarne le intenzioni. L’esercito di scariolanti in fila sugli argini delle foto d’inizio Novecento è diventato, in questa tragica circostanza, una immagine paradossalmente molto moderna, la più adatta a comprendere il presente. Chi ancora conosce il percorso di fossi e canali è stato più in grado di leggere con anticipo gli eventi e intervenire cercando di battere sul tempo l’incedere dell’acqua, trovandosi anche a condividere competenze e conoscenze con i tecnici e le autorità. Non credo sia del tutto una coincidenza il fatto che siano stati proprio i soci di una Cab ad acconsentire di tagliare gli argini che proteggevano i loro campi per provare a deviare l’acqua e mettere in salvo la città di Ravenna. Le cooperative agricole bracciantili sono parte integrante della storia di questo territorio e sono nate proprio tra gli scariolanti, ovvero tra gli ultimi della scala sociale, precari fornitori di braccia nell’impresa di bonifiche. La Cab di Piangipane, come gran parte delle cooperative che possiedono terreni nella provincia, vanta una storia che ha scavalcato il secolo: una eredità di collaborazione e conoscenza del territorio, di lavoro sulla terra e nella comunità, che ha anche dato vita alla costruzione di un teatro (il Teatro Socjale, fondato nel 1921) tuttora molto attivo e frequentato.

Hanno costruito gli argini e i canali di bonifica, hanno acquisito e coltivato terreni, e proprio i loro eredi si sono trovati a compiere l’azione opposta, allagando i propri campi (nel mese di maggio, ovvero poco prima del raccolto, perdendolo interamente) per convogliare le acque verso un’idrovora e tentare di alleggerirne la pressione devastante. Se si è trattato di una circostanza causale, la storia ha offerto l’occasione di passare il testimone di una eredità precisa da tradurre sul presente.

2. La cooperazione e la pianura

Non si tratta di un fatto nuovo per la nostra provincia, dove l’allagamento di terreni più o meno vasti è un evento, purtroppo, assai frequente. […] Il problema quindi è annoso e se oggi non esiste più settore di opinione pubblica responsabile che non lo dibatta, è perché si è giunti ad un punto di rottura tale che perseverare da parte del governo nella mancanza di una politica organica per la difesa del suolo equivarrebbe a commettere un’azione profondamente negativa5.

Nel gennaio del 1967 la Lega delle Cooperative di Ravenna si interrogava sugli effetti delle alluvioni che avevano coinvolto la provincia nel precedente 4 novembre (giorno tristemente celebre per l’esondazione dell’Arno a Firenze), richiedendo interventi governativi per sanare le ferite inferte all’agricoltura e alle imprese, nonché auspicando politiche lungimiranti e urgenti di protezione e difesa del suolo. Auspicio accompagnato dal resoconto degli eventi climatici dei precedenti vent’anni, che avevano interessato, uno a uno in diversi episodi, numerosi fiumi e canali di scolo consorziali, coinvolti da tracimazioni delle acque quando non addirittura rotture di argini. Nel nominare la cronologia di questi episodi (tra i quali, il più tragico, la rottura del Senio a Fusignano nel novembre del 1949), il periodico della Lega delle Cooperative ricordava, a un territorio e a un pubblico di soci ancora prevalentemente dedito all’agricoltura, come la mancanza di interventi strutturali di tutela del sistema idrogeologico interessasse inevitabilmente e molto da vicino proprio la Romagna, storicamente minacciata dalle acque e poggiata su un sistema di equilibri molto delicato e precario.

È quasi impietoso rilevare come quelle richieste siano praticamente identiche a distanza di 56 anni, rimaste drammaticamente disattese in un territorio che in questo lasso di tempo ha invece visto aumentare esponenzialmente la superficie urbanizzata e il consumo del suolo6. Non è questa la sede per discutere e valutare queste trasformazioni e l’impatto che possono aver avuto, né per individuare le risposte che è necessario dare all’urgenza climatica attuale. L’esperienza diretta di una fatalità che ha fatto parte della storia del territorio suggerisce però di considerare proprio il legame con la storia come uno dei punti di osservazione da tenere in considerazione per leggere il presente.

È già stato osservato come proprio la fragilità del territorio romagnolo possa avere costituito l’humus adatto per far nascere e proliferare la rete associativa che ne ha contraddistinto la storia7. La Romagna “sovversiva” è stata innanzitutto una regione assediata dagli acquitrini, vessata dalla malaria e dalla precarietà del lavoro bracciantile. Prima di essere socialisti o repubblicani i contadini delle campagne romagnole sono stati innanzitutto cooperatori, esercito di braccia dedito alle bonifiche d’inverno e alle messi d’estate, alleati nella lotta per la sopravvivenza e per la dignità del lavoro. Per liberare un terreno dalla palude era necessario essere in tanti, passarsi la carriola piena di terra lungo file interminabili, avere fiducia gli uni negli altri come un esercito di formiche collaboranti. Quando il 21 maggio 2023 le prime strade aperte hanno permesso di raggiungere i centri toccati dall’alluvione, abbiamo rivisto l’immagine più viva di questa necessaria collaborazione collettiva: dal nulla è emerso un esercito di volontari, quasi tutti giovanissimi, dediti a liberare case e strade dal fango, convogliati e sostenuti da una rete associativa che ha dimostrato essere ancora solida e indispensabile.

Nella storia delle bonifiche anche i proprietari terrieri hanno dovuto fare i conti con questa necessità. Per difendersi da un fiume che attraversa la pianura e che ogni inverno si trasforma in un acquitrino, non serve proteggere il proprio territorio a dispetto degli altri, non ci sono muri o fortezze che possano qualcosa contro questo nemico: è necessario invece fare in modo che tutti si adoperino nella stessa direzione. La struttura di argini e canali deve essere estesa e funzionare ovunque, nessun singolo può occuparsene ed è inutile agire solo sul proprio terreno, poiché una sola falla nel sistema diventa un disastro per tutti. Per contrastare e gestire le acque ci vuole una rete operativa che collabora: se questa necessità ha in qualche modo sollecitato una modalità relazionale e associativa su cui si è costruito molto della storia del territorio, può essere utile tornare a questa intuizione originaria laddove le trasformazioni sociali ed economiche hanno fortemente incrinato questa eredità, facendo credere fosse obsoleta e non più necessaria. Di fronte all’evidenza di un collasso climatico che potrebbe rendere questi eventi estremi sempre più ordinari, la sfida è enormemente maggiore e comporta nuove competenze, impone nuove prese di coscienza e strategie per adeguarsi alla nuova situazione: resta invariata la necessità di prendersi cura di un territorio in maniera estesa, ramificata, vigile e solidale, pena vanificare il lavoro di tutti. Quello che è emerso in quelle ore drammatiche deve essere una chiave attraverso cui formulare il futuro.

Il rapporto di fiducia da ripristinare è anche quello con il territorio stesso, che va rispettato proprio nei suoi equilibri fragili. Non possiamo chiedere ed augurarci che la natura riprenda il suo spazio: non in un territorio che esiste proprio grazie ad una attività antropica costante, dove ogni sua porzione può definirsi di natura alluvionale. Con fatica è stata costruita una rete civile in una regione altrimenti malsana e inabitabile, e questo va riconosciuto e ricordato. Resta che il patto con la natura deve valere in entrambe le direzioni, tutelare significa anche non forzare i termini dell’accordo, proteggere l’esistente e aver cura di non danneggiarlo. Anche in questo rapporto lo svanire della cultura contadina ci fa partire svantaggiati, la mancanza di riferimenti nella conoscenza del territorio ha sdoganato un agire spesso incauto e predatorio che non possiamo assolutamente permetterci. Se su larga scala gli effetti sono quelli del riscaldamento globale, nella piccola storia regionale è indispensabile riconoscere e rispettare i punti deboli, non forzare ciò che appare solido, prendersi cura con costanza: ne va della sopravvivenza di un territorio che altrimenti rischia di crollare, e noi con esso.

3. Epilogo

Il pomeriggio del 19 maggio alle porte di Ravenna l’azione concordata tra la Prefettura e la Cab Ter.Ra procede alla rottura degli argini della canaletta che protegge il terreno, per convogliare le acque circostanti verso un’idrovora di proprietà della cooperativa. L’obiettivo è deviare il percorso delle acque altrimenti dirette verso il centro della città e controllarne il tragitto sul versante nord. Lo stesso presidente della cooperativa, Fabrizio Galavotti, spiega la situazione: se l’acqua raggiunge l’idrovora troppo velocemente, questa verrà sommersa e andrà in corto circuito diventando inutilizzabile. In quel caso non ci sarà nulla da fare.

Nelle stesse ore il sindaco di Fusignano annuncia alla cittadinanza che è oramai inevitabile l’arrivo dell’acqua che da un giorno e mezzo è ferma nella vicina città di Lugo. Nonostante la conformazione del terreno abbia permesso un rallentamento, l’acqua ha superato gli ultimi ostacoli e procederà il suo percorso. La cittadinanza è in allerta da giorni, chi non ha potuto trasferirsi ai piani alti è stato accolto nell’hub allestito nei locali del circolo Arci. Si attende l’acqua per la notte o per la mattina seguente.

Sabato 20 maggio la città di Ravenna continua ad essere isolata e irraggiungibile, ma ancora all’asciutto. Abitanti e monumenti attendono il responso dal lato ovest della città, dove continua a incombere un lago che ha sommerso tutti i centri commerciali e i campi attorno a Fornace Zarattini. Nel pomeriggio si viene a sapere che l’acqua sta lentamente procedendo verso nord-est. L’idrovora della Cab non è stata sommersa e sta pompando l’acqua dirigendola verso il canale Magni, che gira intorno alla città. Altre idrovore l’hanno raggiunta.

La sera dello stesso giorno il sindaco di Fusignano annuncia alle 22.30 che il paese è fuori pericolo: con la collaborazione dei proprietari terrieri, della Cab locale e del Consorzio di bonifica le acque provenienti da Lugo sono state convogliate in un canale secondo una esondazione controllata che sta raggirando il centro abitato attraverso i campi. La strada dell’acqua lentamente si sta arrestando, anche la vicina Alfonsine non verrà raggiunta. Piccole ed uniche isole in mezzo al mare d’acqua dolce. La mattina del 21 maggio, domenica, molto lentamente le strade in uscita da Ravenna vengono riaperte. La città è stata salvata. Gli abitanti rimasti per cinque giorni in attesa dentro le mura, come in un assedio medioevale, vedono per la prima volta cosa è successo nei dintorni. I campi sono specchi d’acqua infiniti che riflettono il cielo. I primi volontari iniziano a distribuirsi per tutta la provincia, con le pale in mezzo al fango. I paesi travolti diventano cimiteri di mobili e libri ammucchiati nelle strade. Le poltroncine azzurre del teatro di Lugo vengono messe nella piazza al sole, ad asciugare.

Romagna mia diventa l’inno dei volontari e viene cantata in coro nelle piazze infangate.

Note

1 Nei giorni del 16 e 17 maggio si sono registrati picchi di 300 millimetri di pioggia sul crinale appenninico, caduti nell’arco di 48 ore. In totale nel mese di maggio è caduta una quantità di pioggia pari a sei volte la media mensile, concentrata quasi tutta nei picchi del 2-3 maggio e del 16-17. Per una ricostruzione analitica: Le alluvioni di maggio 2023: un’analisi scientifica, https://www.cimafoundation.org/news/le-alluvioni-di-maggio-2023-una-analisi-scientifica/, ultima consultazione: 16 ottobre 2023., ultima consultazione: 16 ottobre 2023.

2 Secondo i dati forniti dall’Ispra, sono 41 in regione i comuni coinvolti da allagamenti diffusi, 23 i corsi d’acqua interessati da esondazioni e circa 300 gli episodi di frane che hanno coinvolto l’area appenninica. Le province di Ravenna e quelle di Forlì-Cesena sono state le più intensamente colpite. Le persone rimaste uccise sono in tutto 15.

3 Dalla pagina Facebook della Cab Ter.Ra, 19 maggio 2023, ultima consultazione: 16 ottobre 2023.

4 Per una ricostruzione geografica delle bonifiche: Tito Menzani, Matteo Troilo, Carte d’acqua. Le mappe della bonifica in Romagna, secc. XVIII-XXI, Faenza, Edit Faenza, 2016.

5 «La Cooperazione Ravennate», anno XVI, gennaio-febbraio 1967.

6 Legambiente ha pubblicato lo scorso giugno il dossier aggiornato sul consumo del suolo in regione: https://www.legambiente.emiliaromagna.it/2023/06/14/legambiente-presenta-il-dossier-sullo-stato-del-consumo-di-suolo-in-emilia-romagna/ [ultima consultazione 16 ottobre 2023]. [ultima consultazione 16 ottobre 2023].

7 Tra i vari studi in merito rimando al più recente Tito Menzani, Valli di lacrime. Genti e bonifiche nel comprensorio ravennate, in Massimiliano Costa (a cura di), Uomini, Pinete e Paludi a Ravenna, Ravenna, Tipografia commerciale, 2021, pp. 7-19.