In apertura: La Scarzuola, l’Acropoli (Foto dell’Autore).
Come puntualmente illustrato nel saggio Paesaggi. Una storia contemporanea1, a cura di Emma Giammattei, a partire dall’ultimo scorcio del Novecento il dibattito sul paesaggio sviluppatosi in seno alla comunità accademica e, ancor di più, in ambito pubblico, è stato attraversato da analisi, visioni e proposte multiformi spesso incapaci di dialogare fra i diversi campi d’indagine. Paesaggio, difatti, è un concetto complesso poiché polisemico, con una lunga tradizione di interpretazioni settoriali alle spalle, che vanno dall’urbanistica alla demografia, dalle scienze naturali all’edilizia, dall’arte alle politiche di gestione del territorio, dalla storia all’ingegneria. Dai primi anni Dieci del Duemila si registra l’aumento di interesse per i luoghi dimenticati, le fabbriche dismesse, i borghi dell’Appennino, l’artigianato locale a rischio estinzione, le piccole patrie; in altri termini, la riflessione sul rapporto tra natura e cultura, che dovrebbe essere la prima rivelazione semantica del paesaggio, sembra aver compiuto un passo decisivo verso la cosiddetta età post-industriale2.
Lo studioso Rosario Assunto, relativamente alla definizione di paesaggio, ha affermato: «Quando diciamo che il paesaggio è spazio, intendiamo dire che il paesaggio è lo spazio che si costituisce a oggetto di esperienza estetica, a soggetto di giudizio estetico»3. Esso ha, quindi, un valore artistico in quanto risveglia un sentimento, appaga una necessità interiore, ricostruisce una memoria. Interpreti recenti di questa visione, in campi e modi diversi, sono il paesologo Franco Arminio4, l’antropologo Vito Teti5, il visionario Daniele Kihlgren6, abili a far rivivere spazi, ad indagare un passato remoto disperso, a rievocare emozioni di un tempo perduto. Nell’Italia ricca di giardini e parchi, esistono luoghi surreali frutto dei sogni dei propri fondatori che ben si inseriscono in quel movimento di riscoperta e valorizzazione del patrimonio culturale del nostro Paese che ha caratterizzato gli ultimi decenni.
1. La Scarzuola: l’ermetismo di Tomaso Buzzi
A Montegiove, frazione del comune di Montegabbione, in provincia di Terni, sul versante di una collina digradante verso il bosco, si erge un convento medievale: nel 1218, probabilmente, Francesco d’Assisi, utilizzando la “scarza”, una pianta palustre del luogo, vi avrebbe costruito una modesta capanna. La costruzione provvisoria, poi, è stata trasformata inizialmente in chiesa – edificata per volere di Nerio di Bulgaruccio della famiglia di Marsciano (1282 circa) – e, successivamente, in convento. Dalla fine del Duecento, il luogo religioso è stato protagonista di alterne vicende fino a quando, nel 1956, l’architetto di Sondrio Tomaso Buzzi ha acquistato l’intero complesso conventuale dall’Ordine francescano7. Buzzi era stato protagonista di spicco della realtà milanese degli anni Venti e Trenta: vicino al gruppo «Novecento Milanese» – composto, tra i tanti, da Giuseppe de Finetti, Emilio Lancia, Giovanni Muzio e Giò Ponti – strinse con Ponti un intenso rapporto di collaborazione che spaziò dall’architettura all’urbanistica, dal design alla saggistica; si ricordano, ad esempio, i contributi sulla rivista “Domus”, l’arredamento di Villa Vittoria dei conti Alessandro e Vittoria Contini Bonacossi a Firenze, la progettazione e realizzazione del Monumento ai caduti di Milano in Largo Gemelli, la direzione artistica della ditta Venini di Venezia8, la docenza al Politecnico di Milano, la progettazione di mobili, orologi, lampade, ceramiche e oggetti d’arredo. È stato artista poliedrico, collezionista di opere d’arte, arredatore di palazzi nobiliari, profondo conoscitore della cultura umanistica.
Nel contesto solitario dell’Umbria più recondita, distante dai clamori patinati dei salotti mondani delle principali città italiane ed europee, riesce a far riemergere dai rivoli nascosti della memoria un vecchio sogno di gioventù: progettare ed edificare una «città ideale» che fosse in grado di dialogare con la tradizione classica e rinascimentale e che sintetizzasse, allo stesso tempo, le suggestioni apprese durante il corso di una vita. Sarebbe riduttivo definire La Buzziana, o Buzzinda – probabile citazione della Sforzinda quattrocentesca, città ideale del Filarete9 – il giardino privato della residenza di Tomaso Buzzi o un parco artistico. Addentrarsi in questo luogo è un’esperienza escatologica ancor prima che culturale, poiché si entra nel labirinto interiore dell’ideatore, dove ogni certezza acquisita viene messa in discussione: le statue in tufo, le fontane, gli edifici dallo stile classicheggiante, le colonne, i ninfei, sono le tracce di un viaggio di formazione da compiere, le tessere di un mosaico da ricomporre individualmente.
Fig. 1. La Scarzuola, prospettiva della cittadella. Sulla sinistra la Grande Madre, sulla destra l’Albero della Memoria. Foto dell’Autore.
Il cammino può iniziare solo quando ci si è lasciati alle spalle i giardini del convento, quindi la città sacra: si attraversa un viale pergolato che conduce al Ninfeo degli Antenati – una fontana che simboleggia la memoria – di fronte al quale si stagliano tre sentieri, che corrispondono a tre possibili scelte di vita: la «via dello spirito» conduce al convento, quindi alla vita contemplativa, e si torna indietro; la «via dell’amore», l’accesso centrale, porta presso uno specchio d’acqua al centro del quale emerge la barca di Polifilo, chiaro richiamo all’Hipnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, romanzo allegorico stampato a Venezia da Aldo Manuzio il Vecchio nel 1499; l’ultimo pertugio, invece, non ha alcuno sbocco, poiché la «via della gloria mondana» è vana e illusoria10. Il percorso da intraprendere alla scoperta della «città dell’anima», quindi, sembra essere suggerito dal Buzzi stesso: bisogna superare il ninfeo citato poc’anzi per poter ammirare in tutta la sua maestosità l’iconico Teatrum Mundi, monumento articolato composto da molteplici strutture. Ci si trova di fronte una cavea – omaggio alla Grecia classica inventrice del teatro – nella quale sono disposte le gradinate, con due palchi cilindrici ai lati; l’orchestra, in cui è presente un piccolo labirinto, e la skené, costituita da un elemento tondeggiante di tufo su cui è inciso un grande occhio che scruta verso la platea. Tra i cipressi sopra la cavea giganteggia un Pegaso alato, simbolo di libertà, dai cui zoccoli sgorga una cascata d’acqua. In una posizione sopraelevata rispetto alla skené, si trovano sul lato destro l’Acropoli, sul sinistro il Teatro delle Api. L’Acropoli è una invenzione capace di dialogare con la tradizione occidentale: in miniatura campeggiano, uno dopo l’altro, il Partenone, il Colosseo, il Pantheon, il tempio di Vesta, un arco di trionfo, una torre campanaria. Sul lato sinistro, il teatro delle Api è una struttura coperta, neorinascimentale, caratterizzata da un doppio ordine di balconate lignee tra colonne in cemento armato e paraste in legno. Si è nel cuore ideologico della Scarzuola, dove sacro, profano e citazioni architettoniche si intrecciano per lasciare disorientato nel fluire del tempo il visitatore. Da quassù tutto appare possibile e si può apprezzare maggiormente l’intento del lavoro dell’autore; Buzzi, difatti, in un suo appunto datato 16 novembre 1967, afferma: «Dovrei ottenere il fascino del non finito, che dà all’architettura quella quarta dimensione che è il tempo». Il Teatrum Mundi, quindi, è esemplificativo della forza attrattiva che le opere del passato esercitano sui contemporanei, poiché mettono in moto sensazioni ancestrali legate alla nostalgia e alla caducità, quindi all’idea di rovina.
Fig. 2. Teatrum Mundi, prospettiva. Al centro la cavea, sulla sinistra il Teatro delle Api. Foto dell’Autore.
Dal punto più alto della città, prende forma un ulteriore tracciato che scende lungo il pendio della collina e costeggia esternamente la “cittadella” costruita nel corso di oltre 20 anni da Buzzi11; si possono apprezzare alcuni monumenti: la Torre del Tempo con l’orologio a forma di uroboro12, la Casa Capitello, la Casa Stemma, la Grande Madre, un enorme busto di donna senza arti né testa. Continuando la discesa ci si imbatte in un mostro di pietra con la bocca spalancata: è la balena di Giona, animale che, come in Pinocchio, rappresenta il rituale della morte e della rinascita, tappa fondamentale per la formazione dell’individuo. Superando il ventre dell’animale marino, si arriva alla Torre della Meditazione, una costruzione che ricorda quella dei Tarocchi, simbolo della prigione della nostra anima. Dopodiché inizia la Scala della Vita: una salita delimitata da una doppia fila di colonne, citazione letteraria dei dodici pilastri di Polifilo, nonché dei dodici segni zodiacali. Arrivati in cima si attraversa una porta stretta sulla quale è riportata la frase «Amor Vincit Omnia» e si rientra nella cittadella: ancora una volta si perde la cognizione di tempo e spazio, ci si lascia condurre dalle spinte labirintiche, dalle pulsioni oniriche. Il viaggio di purificazione dell’io costa fatica, quindi si passa alle tappe successive e si incontrano e attraversano il Tempio di Flora (dea della fioritura) e Pomona (dea dei frutti), il Teatro dell’Acqua costituito di una vasca a forma di farfalla, il tempio di Apollo, a pianta circolare, in tufo, con al centro l’Albero della Memoria, un cipresso morente colpito da un fulmine. Superato il tempio, si giunge alla Torre di Babele, struttura a forma di cono che culmina con una guglia di cristallo sulla quale è posta una stella di metallo. All’interno si inerpica una scala a chiocciola, la Scala del Sapere, chiamata anche delle Sette Ottave, perché su ogni gradino è teso un cavo d’acciaio che, se toccato, emette una nota musicale e, di conseguenza, una armonia. Il viaggio in questa città ideale può finire qui, o forse non termina mai, perché la materia fragile degli edifici, così come la coscienza, è destinata all’erosione, è in continuo divenire; difatti Buzzi, in uno dei suoi fogli volanti, afferma: «La Scarzuola, il suo teatro, sono […] una sfida aperta con il tempo». La Scarzuola è un “altrove” emotivo, un luogo misterico, ma può essere apprezzato solo da chi fa proprio il senso della temporalità e, quindi, è disposto ad immergersi nel teatro della memoria.
2. Il giardino di Daniel Spoerri: tra magia e precarietà
Nel comune di Seggiano, in provincia di Grosseto, sulle pendici del Monte Amiata, si stende una radura collinare indicata dalla toponomastica antica col nome «Paradiso», probabilmente per la vegetazione rigogliosa e il clima favorevole che caratterizzavano la zona. A partire dai primi anni Novanta, l’artista Daniel Spoerri, una vita girovaga tra New-York, l’isola greca di Simi, Düsseldorf e Parigi, trasferisce la sua casa-laboratorio in questa parte di Toscana ancora selvaggia e poco battuta dal turismo di massa: colline dolci, boschi, strade sterrate costellate di cipressi. La moglie Katharina Duwen, appassionata di cultura italiana, prima lo convince a trasferirsi in un appartamento ad Arcidosso (Grosseto), successivamente l’artista acquista un oliveto abbandonato con sedici ettari di terra, il «Paradiso». Nei primi anni ristruttura gli edifici della possessione, poi intraprende il lungo e complesso progetto di dar vita a un parco-museo di sculture e installazioni. Spoerri sente la necessità interiore di riannodare i fili della propria vita, seguendo suggestioni, ricordi, amicizie, percorsi artistici e filosofici. L’identità del danzatore, pittore e coreografo, difatti, è complessa: nato in Romania da Isaac Feinstein, libraio di origine ebraica, e da Lydia Spoerri, è obbligato a lasciare la terra natìa nel 1942 a causa della barbara uccisione del padre da parte dei nazisti, quindi viene accolto a Zurigo, in Svizzera, dallo zio materno, rettore dell’Università cittadina. Studia danza a Zurigo e Parigi, diventa primo ballerino del Teatro dell’Opera di Berna, poi si sposta nella capitale francese dove è tra i promotori delle Edizioni MAT (Multiplication d’art transformable), un progetto di creazioni artistiche al quale collaborano, tra i tanti, Man Ray e Marcel Duchamp; nel 1960 firma il Manifesto dei «Nouveaux Réalistes» e realizza i suoi primi tableaux-pièges13: opere in cui oggetti quotidiani vengono assemblati e riproposti nel loro contesto di appartenenza: tavoli, sedie, vassoi ecc. Spoerri si scopre, così, autore concettuale di installazioni ready-made. Nel 1970, stabilitosi a Düsseldorf e inaugurato un ristorante, apre nelle adiacenze la Eat Art Gallery, dove i clienti potevano esporre i tableaux-pièges che avevano creato coi resti di cibo pochi attimi dopo la consumazione.
Abile sperimentatore, Spoerri ha indagato gli aspetti inquietanti del quotidiano criticando i simboli della civiltà urbana, ma, allo stesso tempo, ha recuperato la dimensione del mito mettendo in relazione le forze misteriche che attraversano la vita dell’uomo. Visitando il parco artistico non si può eludere il significato allegorico delle opere, né le corrispondenze simbolico-formali tra l’ideatore e le sculture degli artisti-amici presenti. Sul cancello d’ingresso svetta una scritta latina incisa nel ferro: Hic terminus haeret, «Qui aderiscono i confini», citazione di un verso del quarto Libro dell’Eneide di Virgilio che, in questo caso, descrive la forza indecifrabile dell’arte, pulsione misteriosa sempre in bilico tra l’ignoto e la volontà di indagare la realtà. Daniel Spoerri, come ha affermato Alain Jouffroy, è colui che aiuta a passare i confini, quindi varcando l’ingresso si è dispersi in un mare in tempesta in cui è possibile imbattersi nelle 113 installazioni di 54 diversi artisti: sculture in bronzo, opere ricavate con oggetti di scarto secondo la tecnica di Spoerri, labirinti, percorsi botanici, nani, draghi sputafuoco, teste di erinni, monumenti al contadino, la voliera degli uccelli addormentati, volti conficcati sull’estremità di colonne, sentieri in cui arte e natura si fondono e confondono.
Jouffroy ha affermato che «nel giardino di Daniel Spoerri le opere sono sistemate secondo prospettive contemporaneamente convergenti e divergenti, e comunicano fra di loro a distanza attraverso legami invisibili, ma evidenti. Per ognuna si ha sempre l’impressione che andando verso l’altra si vada a trovarle un corrispondente, o una risposta, come se la distanza che le separa non fosse che un’occasione di meditazione. Nel Giardino, ogni installazione diviene parte integrante del tutto, arricchendosi di nuove sfumature e risvolti nascosti, accostamenti casuali e improvvisi»14. Il luogo più importante ed evocativo si trova in cima alla collina, da dove si riesce a scorgere il mare in lontananza e il borgo di Seggiano. L’installazione degli «Unicorni- Ombelico del mondo» (1991) è costituita da nove crani equini in bronzo disposti a semicerchio, sormontati da un lungo dente di balena: rappresentano il centro del mondo, luogo di attrazione delle forze cosmiche richiamate magneticamente dalle punte acuminate degli unicorni marini del Mare Artico, spazio sacerdotale della purificazione. Per potenza evocativa, rimanda all’onfalo oracolare di Delfi, ai rituali celti immaginati dall’artista, alle energie misteriche che governano il mondo.
Fig. 3. Daniel Spoerri, Unicorni/ombelico del mondo, 1991. Foto dell’Autore.
Collocato in un avvallamento erboso, il «Sentiero murato labirintiforme» (1996-1998), in pietra peperino, cemento ed erba, ci proietta in una dimensione esotica: il muricciolo alto 50 centimetri si distende per 500 metri fra curve, forme circolari, sentieri sbarrati15. È il labirinto del giardino, nonché la trasposizione di un antico petroglifo precolombiano rappresentante l’unione fra il Padre Sole e la Natura in cui i protagonisti sono un organo sessuale femminile e una figura fallica alata. Il labirinto è un topos artistico-letterario inconfondibile, dialoga con la tradizione e l’immaginazione, a partire dal noto Labirinto di Cnosso per arrivare al Palazzo di Atlante dell’Orlando Furioso: emblema universale della ricerca di desideri e manie; simbolo del cammino di pellegrinaggio ed espiazione, del viaggio entro e oltre il limite, ma anche segno esoterico. Camminando come un flâneur tra gli olivi del giardino ci si imbatte nell’installazione di Olivier Estoppey «Dies irae» (٢٠٠١-٢٠٠٢) in cemento armato. Centosessanta oche da cortile spaventate vengono inseguite da tre giganteschi uomini che battono il tamburo, mentre un bambino con in braccio un’oca si nasconde dietro un albero. Il gruppo scultoreo trasmette inquietudine e voglia di libertà: le sensazioni sono apprezzabili soprattutto sul calar del sole, quando le figure degli uomini si tingono di scuro e sembra davvero di percepire lo starnazzare delle oche e il tonfo sordo dei tamburi. Fuggendo dagli animali imbizzarriti, si trova rifugio presso la stanza d’albergo di Parigi in cui Spoerri visse per sei anni, luogo iconico in quanto qui nacquero le Edition MAT e il primo quadro-trappola. L’opera «Chambre n.13 de l’Hôtel Carcassonne Paris» (Parigi, 1959-65; II versione 1998), è la riproduzione in scala uno a uno di una parca stanza da ostello. La dimensione intima irretisce il visitatore come in una sorta di incantesimo; sembra di tornare a ritroso nel tempo, tutto è sospeso a quarant’anni prima: i libri sugli scaffali, il letto in disordine, gli avanzi di una cena, i mozziconi di sigarette appena spenti nel posacenere sono tutti fusi in bronzo. Ciò che colpisce è la pendenza della stanza, generata dall’inclinazione del terreno, che dà un senso di estraniamento e vertigine, probabile citazione dei suoi quadri-trappola basati sul rovesciamento o della casa inclinata di Bomarzo.
Fig. 4. Olivier Estoppey, Dies Irae, 2001/2002. Foto dell’Autore.
Le installazioni sono molte: da «Lo zodiaco» di Eva Aeppli, costituita da dodici teste in bronzo su colonne di marmo giallo veneziano ispirate alla descrizione dei segni zodiacali dell’astro-psicologo Jaques Brethon, ai «Nani diabolici» di Erik Dietman (1997-98).
Fig. 5. Eva Aeppli, I pianeti, 1975-76/1999. Foto dell’Autore.
3. Un confine impercettibile
Il Parco di Spoerri non può limitarsi, a livello di significato, a summa della biografia dell’autore, ma, come sostenuto da alcuni critici, nasconde quesiti magico-irrazionali che ci permettono di leggerlo come un moderno viaggio di Polifilo. Ecco che viene spontaneo mettere in dialogo Spoerri e Buzzi, entrambi indagatori, in modo diverso ma complementare, di quel genius loci che guida l’individuo alla scoperta di sé e dell’oltre, quindi dell’ignoto, oltrepassando il confine del Hic terminus haeret o proseguendo il percorso della «via dell’amore».
Buzzi e Spoerri vanno inseriti all’interno di quella grande tradizione italiana che affonda le sue radici nella cultura classica, rinascimentale e in parte romantica, che ha fatto del paesaggio uno spazio di contemplazione emotiva ed estetica, un luogo catartico in cui è necessaria una solitaria catabasi per riannodare i fili dispersi della psiche. Il trait d’union dei due parchi è l’architetto Pirro Ligorio, che progettò il vicino Parco dei mostri di Bomarzo, in provincia di Viterbo, nel 1547. Le sculture in basalto riproducono animali e personaggi mitologici secondo un labirinto di simboli che sfocia nella letteratura coeva, si veda l’Orlando Furioso di Ariosto e i poemi Amadigi e Floridante di Bernardo Tasso, padre di Torquato. Le tante opere presenti – la Fontana di Pegaso, il Teatro, il Ninfeo, il Tempio e, da ultimo, La casa pendente –, non possono che essere citazioni, influenze, commistioni che hanno permeato lo spirito di Spoerri e Buzzi.
Note
1 Cfr. Emma Giammatei (a cura di), Paesaggi. Una storia contemporanea, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, 2019.
2 Eugenio Turri, Semiologia del paesaggio italiano, Venezia, Marsilio, 2014.
3 Cfr. Rosario Assunto, Il paesaggio e l’estetica, 2 voll., Napoli, Giannini, 1973.
4 Si vedano Franco Arminio, Viaggio nel cratere, Milano, Sironi, 2003; Id., Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia, Bari-Roma, Laterza, 2008; Id., La cura dello sguardo, piccola farmacia poetica, Milano, Bompiani, 2020.
5 Si vedano Vito Teti, Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni, Roma, Donzelli, 2017; Id., Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei luoghi abbandonati, Roma, Donzelli, 2022.
6 Daniele Kihlgren, I tormenti del giovane Kihlgren, Milano, Baldini+Castoldi, 2020.
7 Si veda Alfonso Ippolito, La Scarzuola, tra idea e costruzione. Rappresentazione e analisi di un simbolo tramutato in pietra, Roma, Sapienza Università Editrice, 2018, pp. 76-77.
8 Maria Luisa Ghianda, Tomaso Buzzi, un archistar del Novecento, in “Doppiozero”, 2022, https://www.doppiozero.com/tomaso-buzzi-un-archistar-del-novecento.
9 Antonio Averlino detto Il Filarete, Trattato di architettura, a cura di Anna Maria Finoli, Liliana Grassi, Milano, Il Polifilo, 1972.
10 Marco Nicoletti, Stefano Bottini, Scarzuola. Il sogno ermetico di Tomaso Buzzi, Perugia, Per-corsi d’arte, 2007.
11 La costruzione della città ideale è continuata, anche dopo la morte di Tomaso Buzzi, per volere del nipote Marco Solari. Attualmente egli è proprietario, costruttore, custode, anfitrione del sito. Cfr. https://www.lascarzuola.it.
12 Secondo la definizione tratta dall’Enciclopedia Italiana Treccani online: «Nella letteratura magica egizia di età ellenistica, animale simbolico a forma di serpente che morde o inghiotte la propria coda, realizzando la figura di un cerchio. La simbologia originaria dell’uroboro fu quella dell’eternità e del cosmo».
13 Daniel Spoerri ne ha dato la seguente definizione: «Oggetti trovati casualmente in situazioni di disordine o di ordine vengono fissati al loro supporto esattamente nella posizione in cui si trovano. L’unica cosa che cambia è la posizione rispetto all’osservatore: il risultato viene dichiarato un quadro, l’orizzontale diventa verticale. Esempio: i resti di una colazione vengono attaccati al tavolo e, insieme al tavolo, appesi al muro […]». Cfr. https://www.danielspoerri.org/giardino/it/.
14 Cfr. Silvia Abruzzese, L’Odissea del giardino. Otto speculazioni di Silvia Abruzzese, Vercelli, Mercurio, 2009.
15 Sandro Parmiggiani (a cura di), Daniel Spoerri. La messa in scena degli oggetti, Milano, Skira, 2004.