Il prosciutto, tra storia, cultura ed economia

Ham, between history, culture and economy

In apertura: fotografia di uno storico prosciuttificio di Parma (“La Cucina Italiana”, 30 settembre 2021).

1. Introduzione

Narrare la storia di un alimento non è mai cosa semplice, in particolare in un contesto sociale e culturale che già dalla fine degli anni Settanta del Novecento conosce la progressiva tendenza a recuperare legami, per lo più inventati, con un perduto mondo agreste e con tradizioni che si presuppone affondino le proprie radici in un lontano passato, che in quanto tale si presume assicuri qualità e genuinità. Proprio a partire da questo decennio si palesa tutta una contraddizione nell’immaginario e nelle pratiche del consumo alimentare italiano: se da un lato i consumatori pretendevano il ritorno ad un generico e genuino passato, dall’altro la tendenza era quella di prediligere alimenti ottenuti tramite un moderno processo produttivo industriale. È in questo contesto che si viene a formare quel mito del passato, una sorta di ossessione delle origini per “scoprire” il momento e il luogo esatti in cui è stato “inventato” quel determinato prodotto e cristallizzarlo nello spazio e nel tempo. Spesso, in questa frenesia, che coinvolge anche aspetti politici ed economici e non solo culturali, si è incorsi in forzature e all’accettazione di leggende come verità. La volontà di valorizzare un prodotto e la necessità di creare un’identità tramite il marketing hanno quindi prodotto delle distorsioni, sia nel mondo contemporaneo che in quello del passato. In questo breve contributo ci si concentrerà su un prodotto, il prosciutto, la cui preparazione e consumo hanno conosciuto una lunga evoluzione nel corso dei secoli. Sono coinvolti numerosi aspetti, da quelli legati alla materia prima, il maiale, all’industrializzazione e alla gastronomia, così come la crescente invenzione di gastro-toponimi specifici per la valorizzazione del prodotto e del territorio.

2. Dall’antichità alla modernità

Il ruolo del maiale nella vita umana è attestato già nell’antichità se pensiamo che delle testimonianze archeologiche in Medio Oriente ne daterebbero l’addomesticamento al 9000 a.C. circa e che probabilmente in Cina fosse ancora più antico. Nel corso del processo di domesticazione il maiale subì un’evoluzione che lo portò a discostarsi dal suo antenato, il cinghiale selvatico. A testimoniare inoltre il profondo legame tra uomo e maiale è possibile anche osservare il complesso e contradditorio rapporto con la religione, se pensiamo che due delle tre grandi religioni monoteiste lo vietano espressamente1. Nonostante nel mondo dell’antichità greca erano grano, olio e vino a costituire il simbolo e il grado di civiltà di un popolo2, il maiale rappresentò una grande ricchezza, divenendo contemporaneamente un animale da mangiare e da sacrificare agli dei, unendo quindi quotidianità e religiosità3. Il mondo romano, pur influenzato dalla tradizione greca, modificò progressivamente i rituali e i sacrifici, inserendo colture e carne cotta nei rituali e diminuendo il consumo rituale di maiali mentre furono le zone occupate dai Galli che conobbero un repentino sviluppo del mercato suino. Queste popolazioni, che abitavano sia la pianura padana che l’area del Friuli prima della dominazione romana, erano consapevoli dell’alta qualità del loro prodotto, tanto che la coscia di maiale era considerato il “piatto dell’eroe o del re”. Fu poi con la conquista di queste terre che il consumo di carne suina divenne una delle caratteristiche principali del mondo romano e della relativa gastronomia e la perna, cioè la coscia, conobbe una veloce diffusione4. Con la caduta dell’Impero la cultura suinicola che si era sviluppata non andò perduta, anzi si arricchì con quella ugualmente importante di popolazioni come Longobardi e Franchi. La cultura germanica, che subì fortemente l’influenza della cristianità romana, rivalutò la foresta e l’area dell’incolto, così come le attività di caccia, raccolta, pesca e allevamento brado, fino a quel momento relegate alla marginalità e povertà5. La dieta nel periodo alto medievale era piuttosto variabile, ma gli allevamenti di suini avevano ovunque un ruolo di primo piano. La taglia media dei maiali era però più ridotta rispetto a ciò che conosciamo oggi: un buon suino poteva fornire tra i 45 e i 50 chili di carne (oggi è tre volte tanto). Anche l’aspetto esteriore era decisamente diverso: i maiali erano molto più vicini ai cinghiali. La carne di maiale e la sua conservazione erano talmente importanti che ogni casa aveva una stanza per la salatura o l’affumicatura e si andò progressivamente affermando la figura del porcaio, la cui competenza in fatto di terreni boschivi divenne centrale per il processo produttivo6. Per buona parte della modernità il maiale e nello specifico il prosciutto furono una presenza fissa all’interno dei ricettari dei gastronomi italiani e francesi, si pensi ad esempio a Bartolomeo Stefani (1662), le cui descrizioni dei prosciutti e dei salami sono spesso talmente elaborate da ricordare le allegorie pittoriche dell’Arcimboldo7. Le denominazioni sui vari ricettari italiani, inoltre, potevano spesso riportare il nome di “giambone”, chiara derivazione e influenza della gastronomia francese che si era affermata tra XVIII e XIX secolo come il punto di riferimento europeo. Iniziarono in questo periodo gli inserimenti di specifici gastro-toponimi come il giambone di Bayonne, di Mayance o di Westphalie, ad opera del cuoco piemontese Giovanni Vialardi che operò presso le cucine della casa Savoia, che ci mostrano scambi con la cucina dell’Europa continentale8.

3. L’epoca contemporanea

L’allevamento industriale dei suini nacque in concomitanza con la diffusione della patata tra XVIII e XIX secolo e con l’aumento dei rifiuti di una popolazione in costante crescita. La patata, prima di essere consumata anche dagli uomini, fu per lungo tempo un alimento per i maiali. I rifiuti, invece, potevano essere di natura agricola o di origine urbana. I primi derivavano soprattutto dagli scarti dell’industria molitoria e casearia: a partire dalla fine del XVIII secolo, infatti, le aree di produzione di latte vaccino sono anche quelle a più alta concentrazione di carne suina. I rifiuti urbani invece erano originati dagli scarti dei macelli, delle mense o di industrie come gli oleifici e le fecolerie.

L’industrializzazione avrebbe portato una maggior attenzione alle tecniche di produzione sulla scia della cultura scientifica che abbracciò tutti gli aspetti della vita, compresa la nutrizione. Per questo motivo si cominciarono a studiare i metodi per il miglioramento quantitativo e qualitativo della produzione zootecnica, a partire dalla selezione delle razze. Dopo l’Unità d’Italia, nel parmense furono introdotte nuove razze e incroci, come la Large White (incrociata con la Nera parmigiana) e la Berkshire che si ritenevano più adatte all’allevamento stabulare. Il miglioramento delle tecniche e dei processi produttivi doveva essere condotto con metodi scientifici. Per questo motivo, grazie all’opera di Antonio Bizzozero, nacque a Parma nel 1892 la Cattedra Ambulante d’Agricoltura. In pochi anni egli riuscì a dar vita alla prima Latteria Sociale dell’Appennino che migliorò considerevolmente la produzione di latte nel parmense. In questo periodo i produttori compresero l’importanza di partecipare alle Esposizioni Nazionali e Internazionali, e così facendo cominciò l’esportazione del nome di Parma legato alla produzione di prosciutti e salumi. Il prosciutto non si era però ancora guadagnato uno statuto autonomo, ed era consumato come antipasto, come condimento oppure come base per il battuto per insaporire alcune pietanze. Pellegrino Artusi, nella parte introduttiva de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), indicando le qualità nutritive della carne, inserì quella di maiale in penultima posizione, subito sopra i pesci, nonostante il prosciutto fosse indicato in numerose ricette e consigliato come antipasto. I primi spazi produttivi a livello industriale per la salagione e la stagionatura del prosciutto iniziarono ad essere organizzati nell’area parmense all’inizio del Novecento, ma per la scomparsa della stagionalità del prodotto si sarebbero dovuti aspettare ancora numerosi decenni, fino a che l’industria del freddo non sarebbe decollata anche in Italia, quindi non prima degli anni Trenta e Quaranta. Durante l’Ottocento, infatti, se da un lato si poté assistere a una generale rivoluzione dell’alimentazione soprattutto nel campo produttivo e conservativo, l’Italia manteneva ancora strutture molto arretrare. Lo dimostra la sostanziale stagnazione dei consumi di carne suina dall’Unità alla Grande Guerra, periodo in cui i progressi dei trasporti, la catena del freddo e i commerci internazionali avevano migliorato la quantità e la qualità dei cibi presenti sui mercati mondiali9. Anche a livello produttivo le aziende alimentari, tranne qualche sporadica eccezione, rimasero a conduzione familiare o comunque fortemente arretrate rispetto alle grandi concentrazioni produttive e finanziarie dell’Europa occidentale e del Nord America10. In Italia questa organizzazione era particolarmente lacunosa, se non assente, dovuta anche all’insufficiente livello qualitativo e quantitativo degli allevamenti bovini e suini. Secondo numerosi osservatori ciò che doveva fare l’industria delle carni suine era ricercare una migliore collaborazione con la pastorizia, e creare un ciclo produttivo in cui le operazioni agricole fossero separate e subordinate a quelle industriali.11 All’indomani dell’Unità due erano i problemi dell’industria dei salumi, e cioè l’approvvigionamento e i costi del sale e i dazi per la commercializzazione.

Fu solamente nel secondo dopoguerra e più compiutamente con il cosiddetto boom economico che una maggior disponibilità finanziaria, un abbassamento dei costi di produzione dovuto ad una migliore e più moderna struttura industriale, portarono gli italiani ad avere un miglior accesso quantitativo e qualitativo alimentare. L’introduzione a livello di massa di elettrodomestici come i frigoriferi resero più facile il mantenimento della catena del freddo e quindi la conservazione di cibi deperibili, la cui produzione e consumo fu definitivamente destagionalizzata. Il consumo di carne suina conobbe tra metà anni Sessanta e metà anni Settanta un deciso incremento e questo fu dovuto in particolare al «prosciutto, di cui si è molto diffuso il consumo, anche fuori casa e come cibo pronto, mentre per le carni bianche, la loro digeribilità e il fatto di essere raccomandate nelle diete sta alla base della loro continua diffusione»12. Contemporaneamente iniziò a decrescere la percentuale di reddito destinata alle spese alimentari, che scese sotto il 40%, e cominciò a incrinarsi il rapporto tra cibo, territorio e stagionalità. Arrivarono anche nuovi luoghi del consumo, i supermercati, nei quali i consumatori potevano accedere al regno dell’abbondanza.

Tra anni Settanta e Ottanta, inoltre si poté assistere ad un interesse sempre più marcato nei confronti degli aspetti medico-nutrizionali delle abitudini alimentari degli italiani. Furono infatti condotti numerosi studi per definire (o ridefinire) diete e corsi di educazione alimentare. Si cercò di prevenire malattie connesse non più alla sotto-nutrizione bensì alla malnutrizione, come le malattie cardiovascolari, il diabete e l’obesità. Ci si accorse inoltre che il grande sviluppo dei supermercati, oltre a destagionalizzare i prodotti, li rese sempre più anonimi se non presentati da una corretta campagna promozionale. È in questo periodo quindi che per il prosciutto si aprì una fase di espansione nella società attraverso l’identificazione “territoriale” del prodotto. La tendenza dei consumatori italiani a partire dagli anni Sessanta, ma più compiutamente con gli anni Ottanta, fu quella di ricercare il prodotto tipico, ottenuto con le moderne tecniche di produzione di massa, ma con il metodo “di una volta”. Per questo motivo si moltiplicarono i tentativi di localizzare il prodotto e renderlo “tipico”13.

Già sul finire degli anni Cinquanta, per combattere le falsificazioni e promuovere i prodotti di qualità o prodotti “tipici” si susseguirono incontri internazionali e si costituirono consorzi, associazioni di produttori o di tutela del nome e di origine. Il prosciutto, infatti, divenne ben presto un prodotto dall’elevato interesse economico e culturale. Si pensi che nel solo comprensorio parmense, a fine anni Sessanta, si trovavano circa centocinquanta stabilimenti di lavorazione, con un valore immobiliare di venti miliardi di lire e un valore produttivo annuo di circa quattro milioni di prosciutti. Nel 1958 la convenzione di Lisbona permise di salvaguardare il nome Prosciutto di Parma sia in Italia sia all’estero. A questo primo momento seguirono la costituzione del Consorzio Volontario del Prosciutto o poi Centro Studi sul Prosciutto. Il 18 aprile 1963 nacque, attorno a poco più di venti produttori, il Consorzio del Prosciutto di Parma. Grazie a questo marchio anche le pubblicità cambiarono, perché si poteva promuovere un prodotto senza più mettere in evidenza l’azienda locale produttrice, mentre emergeva il genius loci territoriale. Il prosciutto, quindi, non era più solamente un derivato della lavorazione del maiale, ottenuto grazie alla maestria di abili artigiani, ma una specialità locale ottenuta dall’unione di know-how, condizioni ambientali-naturali e tradizione. Proprio a Parma, nel 1968, si svolse una giornata dedicata allo studio dei problemi legati all’industria del prosciutto e in relazione al nome e al marchio “Prosciutto di Parma”. Questi sono gli anni in cui un alimento come il prosciutto conobbe un notevole slancio, essendo consigliato particolarmente nella vita del bambino, dell’adolescente e nella vecchiaia. In una delle relazioni se ne affermò anche la positività nella dieta dell’atleta e si consigliarono alcuni accorgimenti per il miglioramento qualitativo della produzione, indicando gli studi futuri nel campo tecnologico, merceologico e nutrizionale. Si moltiplicarono anche le pubblicazioni che legavano turismo ed enogastronomia, enfatizzando il ruolo e l’immagine del prosciutto di Langhirano. Nello stesso periodo, nel 1961, si costituì anche il Consorzio per la salvaguardia del Prosciutto di San Daniele. La fase proto-industriale aveva avuto avvio negli anni Venti e con la creazione del Consorzio quello che era stato fino a quel momento un confronto con un mercato locale o provinciale ebbe la possibilità di espandersi a livello nazionale14.

Segno del successo che stava conoscendo la carne suina, e in particolare il prosciutto, è il ricettario che Luigi Carnacina dedicò esplicitamente al maiale nel 1966. Il prosciutto compare qui numerose volte, negli antipasti freddi e caldi, nelle minestre e nei piatti freddi e viene definito antipasto nazionale ed elemento essenziale del piatto del salumaio15. Anche le esportazioni conobbero una decisa espansione se si calcola che i valori verso Francia, Svizzera e Benelux quadruplicarono tra il 1963 e il 1966. Per questo motivo divenne sempre più necessaria una tutela del marchio, anche alla luce dei cambiamenti nel mondo dei consumatori16. Risultò di importanza centrale adottare un metodo scientifico in ogni fase della produzione, cercando di fornire sul mercato un prodotto il più possibile standardizzato ma di qualità elevata. Queste dinamiche resero necessario legare nuovamente il cibo a un territorio, in un periodo in cui questa relazione era stata di fatto recisa, come testimoniato dalla seconda guida gastronomica del Touring Club Italiano, che uscì nel 1969 a cura di Felice Cùnsolo. Secondo l’autore, spingendo il consumatore a chiedere piatti tipici, gli osti e i ristoratori sarebbero stati sollecitati a recuperare le tradizioni e le specialità gastronomiche locali. Il prosciutto, quindi, iniziò a perdere il suo carattere regionale, acquistando invece un legame sempre più forte con i piccoli paesi o distretti produttivi, come San Daniele, Langhirano e Norcia.

Gli anni Ottanta, come detto all’inizio, rappresentano un decennio all’insegna del recupero di un mondo agreste perduto non solo per ciò che riguarda il rapporto con il territorio, ma soprattutto nella relazione con il corpo e l’equilibrio psicofisico. Nell’indicazione dei prosciutti si fa riferimento anche a quelli di montagna, che conoscono una tradizione che parte dalla Spagna del jamon serrano, prosegue con i Pirenei francesi e arriva in Italia in Toscana, Abruzzo e Calabria. Prosciutti che, nonostante le tendenze dietologiche del periodo che demonizzavano l’elevato consumo di sale, conoscono un elevato numero di estimatori.

Tra anni Settanta e Ottanta l’introduzione della flessibilità lavorativa cambiò radicalmente la concezione e la divisione del tempo. Persero importanza la prima colazione e una schiera sempre più ampia di tute blu cominciò a disertare le mense aziendali. Tra i colletti bianchi, invece, si fece sempre più strada l’esigenza di un pranzo veloce e leggero, una specie di brunch, dove l’elemento “tempo” acquistò un ruolo centrale nella scelta del luogo e del prodotto da consumare. Anche il mondo giovanile, più per un desiderio di socialità che di esigenza lavorativa, cominciò a frequentare luoghi che divennero dei veri e propri punti di ritrovo più che sedi espressamente dedicate al consumo alimentare, come le paninoteche. Con il mutare dei gusti, dei luoghi e della coscienza nutrizionale cambiano anche le fortune e le sfortune del maiale e di uno dei suoi prodotti più popolari, cioè il prosciutto. Le tecniche di allevamento, lavorazione, conservazione, i controlli sulla filiera produttiva e i mercati sono profondamente cambiati negli ultimi trent’anni, l’affermazione di internet come strumento di comunicazione e di lavoro, così come l’importanza crescente del marketing hanno ulteriormente modificato e complicato i consumi alimentari italiani ed europei. Questa, però, è una storia ancora tutta da scrivere.

Note

1 Emilio Faccioli (a cura di), L’eccellenza e il trionfo del porco. Immagini e consumo del maiale dal XIII secolo ai nostri giorni, Mazzotta, Comune di Reggio Emilia, Assessorato alla Cultura Milano 1982. Marvis Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Torino, Einaudi, 2015.

2 Massimo Montanari, Sistemi alimentari e modelli di civiltà, in Jean Louis Flandrin, Massimo Montanari, Storia dell’alimentazione, Roma-Bari, Laterza, 2016 (1996), pp. 73-82.

3Michel Pastoureau, Il maiale. Storia di un cugino poco amato, Milano, Ponte alle Grazie, 2014.

4 Romano Bavastro, Del porcello e delle sue prelibatezze, Carrara, Melattini, 2000; Apicio, De re coquinaria, Libro VII, IX.

5Massimo Montanari, Romani, barbari, cristiani. Agli albori della cultura alimentare europea, in Flandrin, Montanari, Storia dell’alimentazione, cit., pp. 213-216.

6 Marina Baruzzi, Massimo Montanari, Porci e porcari nel Medioevo. Paesaggio economia alimentazione, Bologna, Clueb, 1981; Domenico Vera, Del suino e delle sue carni nella storia: dall’antichità all’alto medioevo, in Dolce Parma. Prosciutto e salumi parmigiani dalle origini a oggi, in “Parma Economica”, 2001, n. 3, pp. 10-22.

7 Bartolomeo Stefani, L’arte di ben cucinare, Sala Bolognese, Forni, 1983.

8 Giovanni Vialardi, Il Trattato di cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa Confettureria, Torino, Tip. G. Favale e C., 1854.

9 Vera Zamagni, L’evoluzione dei consumi fra tradizione e innovazione, in Alberto Capatti, Alberto De Bernardi, Angelo Varni (a cura di), Storia d’Italia. L’alimentazione, Torino, Einaudi, 1998, pp. 171-204.

10 Giorgio Pedrocco, La conservazione del cibo: dal sale all’industria agro-alimentare, in Storia d’Italia. L’alimentazione, cit., pp. 379-447.

11 Adolfo Targioni-Tozzetti, Alimentazione e igiene, in Esposizione Italiana tenuta a Firenze nel 1861, vol. II, Relazioni dei Giurati, classi I e XII, Firenze, 1864, pp. 145-146.

12 Zamagni, L’evoluzione dei consumi, cit., p. 191.

13 Simone Cinotto, La civiltà del grasso. Prodotti tipici e culturali del maiale nel Piemonte Orientale, Vercelli, Mercurio, 2005.

14 Leonardo Romanelli, Prosciutto. Storia, varietà e assaggi di un alimento da buongustai, Firenze, Nardini, 1999.

15 Luigi Carnacina, Il ricettario del maiale, Edizione Salumificio Milano spa, 1966.

16 Adriano Vanzetti, La tutela giuridica della denominazione di origine del Prosciutto di Parma, in Atti della Giornata del Prosciutto di Parma, 2 giugno 1968.