In apertura: una scena dal film di Buster Keaton The General (da Flickr, Creative Commons, CC-BY-NC-SA 2.0).
1. La prima storiografia statunitense sulla guerra civile statunitense
Secondo Brandon Elridge1 la storiografia sulla guerra civile statunitense si può riassumere attraverso il lavoro di tre importanti storici: quello di James Ford Rhodes, Storia della Guerra civile 1861-1865, edita nel 1917 che sviluppò la tesi della ineluttabilità della guerra civile a causa della sectorial crisis che si affacciò negli Usa per i conflitti presenti tra stati. Secondo questa interpretazione la questione della schiavitù fu centrale nel quadro della guerra civile. L’opera di Charles e Mary Beard, The rise of American civilisation, edita nel 1927. I due coniugi inserirono la guerra civile statunitense all’interno di un quadro più complesso che pone le sue origini alla nascita dell’imperialismo statunitense consolidatosi, poi, con la guerra contro il Messico. Essi furono i primi a mettere in dubbio che la principale causa della guerra civile statunitense fosse l’abolizione della schiavitù focalizzandosi sui benefici economici dei territori acquisiti dopo la guerra tra Stati Uniti e Messico. Lo scontro tra confederati e unionisti sarebbe stato determinato dal contrasto tra l’economia agricola del sud e industriale del nord. Per finire, il volume di Frank Owsley, An irrepressible conflict, pubblicato nel 1930. Per Owesley, la guerra civile avvenne per questioni economiche, l’ostacolo che avrebbe rappresentato l’economia del sud per la crescita del nord. Owsley diffuse l’idea che la guerra non fosse inevitabile e che fu una vera e propria aggressione del nord ai danni del sud seminando le basi per un filone storiografico pro-meridionalista che si tradusse nel “mito della causa persa”, the lost cause.
Con i mutamenti sociali del secondo dopoguerra emerse una quarta interpretazione storiografica che stigmatizzava l’opera del Ku Kux Klan come elemento di difesa del sud aggredito, ponendo l’accento sulla “virtuosità” degli abolizionisti e del movimento anti-schiavista. In anni più recenti, in concomitanza con le rivolte degli afroamericani degli anni Sessanta e con il movimento di rivendicazione dei diritti civili, la storiografia statunitense mise l’accento sul ruolo che ebbero i neri nella guerra civile nonché sulle violenze a cui furono costretti nel corso dell’Ottocento.
Questa evoluzione della storiografia statunitense della guerra civile è il risultato, secondo la studiosa Eleanor Rigney, dello “spirito del tempo” con cui gli storici affrontarono il tema nel corso del XIX e XX secolo2.
Dopo la fine della guerra civile, infatti, si sviluppò un’ampia letteratura di memorie e ricordi che produsse l’idea che ci fossero ragioni tanto nelle istanze degli unionisti quanto in quelle dei confederati. Emblematico, in questo senso, è il lavoro di Jefferson Davis, primo e unico Presidente degli Stati Confederati che scrisse la sua “storia” per dimostrare le ragioni del sud e di come «la guerra, da parte del governo degli Stati Uniti, [fosse] una guerra di aggressione e usurpazione»3. Controcanto è l’opera di John Nicolay e John Hay, Abraham Lincoln: a History (opera del 1890) che, scrivendo contro le impostazioni crescenti della storiografia sudista, aprirono la strada all’interpretazione “settentrionale” della guerra civile contribuendo a formare il Lincoln «che conosciamo oggi: figura paterna saggia; genio militare; il più grande oratore statunitense»4. Questa teoria fu approfondita dal più importante esponente della storiografia nazionalista della prima parte del XX secolo, James Ford Rhodes nel suo History of United States del 1913. Profondamente influenzato dalla storia abolizionista del suo paese, nella sua opera evidenziò l’importanza del tema della schiavitù mostrando gli interessi politici ed economici che mossero i politici del nord a intraprendere questa battaglia. Le ragioni del sud, però, non furono banalizzate bensì comprese e giustificate limitandosi a contrastare in maniera cinica e ironica la teoria storiografica del Lost cause5.
2. La filmografia statunitense sulla guerra civile
Questo dibattito storiografico ebbe ripercussioni sul nascente cinema statunitense: la guerra civile fu, sin da subito, uno dei più trattati temi cinematografici e la memorialistica e i romanzi furono tra i principali soggetti per le sceneggiature.
Il primo film muto dotato di colonna sonora realizzato negli Stati Uniti fu The birth of a nation, uscito nelle sale nel 1915. Opera del regista David Griffith, ebbe come tema la guerra civile e il punto di vista era quello dei confederati. Tratto dal romanzo The Clansman di Thomas Dixon (compagno di classe del presidente Wilson e dello storico Jackson Turner)6, il film segue la storia di due famiglie contrapposte: quella degli Stoneman, rappresentante gli abolizionisti del nord e la famiglia Cameron, sudista e proprietaria di schiavi. Sin dalla prima scena emerge il plantation myth in cui il plantar Cameron viene ritratto in un atteggiamento di magnanimità nei confronti dei suoi schiavi con l’intento di far empatizzare il pubblico con il protagonista. A seguito dello scoppio della guerra civile, i figli maggiori delle due famiglie sono chiamati a combattere per i rispettivi eserciti rimanendo uccisi in battaglia mentre, nella piantagione dei Cameron, una rivolta di schiavi mette a repentaglio la vita delle donne di casa, tragico evento scongiurato grazie al provvidenziale intervento di un soldato dell’esercito confederato. Terminata la guerra con la sconfitta dell’esercito del sud e morto Lincoln, punto di contatto e mediatore necessario tra il mondo capitalistico-industriale del nord e quello schiavista-agricolo del sud, la popolazione bianca ex-confederata decide di auto-organizzarsi in una associazione di mutuo soccorso per ovviare alle crudeltà e all’egemonia che gli ex schiavi neri iniziavano a mostrare: il gentile eroe di guerra Ben Cameroon fonda, così, il Ku Kux Klan. Tutta la restante parte del film vede il Kkk descritto come un gruppo di eroici vigilanti incappucciati che lavorano duramente per preservare la giustizia per i bianchi nel New South. Il culmine della pellicola è l’eroica carica del Klan atta a salvare la vita di uomini e donne bianchi intrappolati in una cabina e circondati da soldati neri, una carica galante e meravigliosamente filmata con la sua musica orchestrale “Klan Call” che, secondo i racconti dell’epoca, fece «alzare gli spettatori in piedi con un tifo sportivo selvaggio»7.
The birth of a nation fu un progetto studiato a tavolino con l’obiettivo di riunire due mondi per forgiare una nuova “America”, due mondi che, seppur in fase di ricomposizione, erano ancora distanti sulla memoria condivisa della guerra civile. Per dirla con le parole dello storico e giornalista Bruce Chadwick
una bellezza del nord (Elsie Stoneman) si innamora di un gentiluomo del sud (Ben Cameron). Un amico dell’Unione (Stoneman) salva un amico del sud (Cameron) in battaglia. […] Le responsabilità della guerra sono attribuite ai soli abolizionisti ingerenti. […] Alla fine, tutti, Unionisti e Confederati, si riuniscono per mostrare al pubblico che, nonostante la guerra civile, tutti gli americani, tranne i neri, vivevano e avrebbero vissuto in armonia8.
Il film, come il romanzo da cui è ispirato, era palesemente razzista e contribuì a creare quella divisione razziale all’interno degli Stati Uniti che ancora non si è assopita: i neri erano mostrati come stupratori, delinquenti e assassini e il Kkk come organizzazione necessaria per tenere a freno la violenza dilagante dei neri e salvare, così, la società.
Questo elemento razziale modificò un altro stereotipo che fu protagonista nel corso della letteratura fu radicato e diffuso nella prima parte del XIX secolo, quello dell’afroamericano ingenuo e sciocco, mentalmente inferiore e privo di capacità cognitiva pari a quella dei Wasp (Withe Anglo-Saxon Protestant): il razzismo statunitense giunse così verso una nuova e inesplorata direzione.
Oltre al racconto parziale e fazioso della guerra civile e dei suoi protagonisti, il film lanciò anche uno spaccato sul presente degli Stati Uniti mettendo in guardia gli statunitensi da un altro problema strettamente di attualità: la costante minaccia delle classi “basse” (nello specifico tanto i neri quanto i “nordisti proletari”) nei confronti di quelle alte del nord, piantatori bianchi di nobili origini che vivono in un mondo che il regista Griffith chiama in modo pittoresco Southerland. In questo “paese idilliaco” ci sono tre classi sociali: l’aristocrazia dei piantatori, i contadini poveri e gli schiavi ognuno necessariamente al proprio posto affinché possano dare il loro ineluttabile contributo alla società. Quando una classe ne minaccia un’altra, come accadde con la liberazione degli schiavi neri, qualsiasi società, anche la più solida e la migliore, crollerebbe. La lezione, quindi, è un monito per la contemporaneità e per la popolazione statunitense degli anni Dieci pervasa dalle proteste sindacali della Industrial Workers of the World: la società contemporanea potrebbe sgretolarsi con la stessa facilità con cui accadde nel 1861 se una classe dimenticasse la propria posizione e cercasse di sostituire una classe al di sopra di essa. Per ovviare a questo finale drastico è necessario che lo Stato si compatti contro il comune nemico: nel film, infatti, il crollo della legge e dell’ordine non avviene per la vittoriosa rivolta intrapresa dalla popolazione afroamericana bensì perché l’esercito degli Stati Uniti, con i suoi reggimenti “contaminati” da soldati neri, glielo permise. La ragione alla base di questo crollo non è il crollo dei Wasp e della nobiltà bianca ma quello della politica americana.
Undici anni dopo uscì nelle sale il capolavoro del regista e attore comico statunitense Buster Keaton The general. Il film, considerato uno dei più importanti della comicità mondiale nonché il migliore di Keaton, affronta il tema della guerra civile in chiave comica utilizzando come percorso storiografico il mito della “causa persa” (lost cause), di cui Owsley è stato uno dei più importanti rappresentanti. Il testo di Owsley, scritto nel 1930, si basa su studi e lavori durati un ventennio: la visione della guerra civile presentata in questo mito minimizza il conflitto tra confederati e unionisti sul tema della schiavitù ponendo l’accento sulla questione dei “diritti degli stati”9 e celebra l’onorevole valore dei soldati di entrambe le parti. In questo senso il conflitto tra le due fazioni si determinò a causa di una diversa concezione di democrazia, di due diversi modi del sentire democratico: la democrazia degli unionisti per cui il voto è sovrano e non prevaricabile per mero dissenso e la democrazia dei confederati per i quali il volere del popolo, anche quello di uscire dall’Unione, era prioritario sul voto stesso. Questa reinterpretazione della guerra civile fu promossa inizialmente da politici che speravano di guarire le fratture della nazione statunitense.
Il film di Keaton, conosciuto in Italia con il titolo di Come vinsi la guerra, si inserisce in questa tradizione narrativa. Infatti, l’eroe della storia è un aspirante soldato confederato, mentre antagonisti sono generali dell’Unione, piuttosto che il contrario. Tuttavia, il materiale di partenza del film, un libro di saggistica che descrive in dettaglio un vero dirottamento dell’Unione di un treno confederato chiamato The general, vedeva come protagonista positivo il soldato unionista autore del libro stesso. Keaton, preoccupato che il pubblico potesse rifiutare un film in cui i Confederati erano dipinti come “cattivi”, decise di cambiare la prospettiva della storia facendone degli eroi conscio del fatto che i veri vincitori della guerra civile avrebbero guardato con indifferenza un eroe confederato. Il film di Keaton prende in giro il genere del melodramma della guerra civile senza tuttavia affondare il colpo né in senso nordista né in senso sudista, seguendo le idee prevalenti del suo tempo e mostrando quanto fosse radicata la romanticizzazione della Confederazione e del Sud nella cultura degli Stati Uniti10.
Nel 1940 uscì nelle sale statunitensi il film Santa Fe Trail, pochi mesi prima dell’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale. A differenza dei film sino ad ora trattati, Santa Fe Trail anticipa l’epopea western che sarà in auge a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta del secolo scorso. Regista del film era Michael Curtiz, magiaro di nascita e vincitore del premio Oscar nel 1944 per l’adesso controverso film Casablanca e sottotesto della sua narrazione cinematografica era il nazionalismo, ricorrente nel cinema statunitense degli anni Quaranta e Cinquanta, usato come mezzo per conciliare le diverse visioni regionali, etniche e politiche al fine di preparare la nazione per l’entrata in guerra in Europa11. Durante la guerra, infatti, era importante rafforzare il sostegno alla causa alleata e definire il nemico come malvagio, il male assoluto mentre dopo la guerra si cercava di ricordare al pubblico il successo e il coraggio dell’esercito in ogni conflitto e di affermare l’importanza dell’unità nazionale per difendere la democrazia. Il film Santa Fe Trail segue questa tendenza: narra la storia di due amici, il capitano della cavalleria confederata Jeb Stuart e il tenente unionista George Custer (interpretato dal futuro presidente Usa Ronald Reagan), che si innamorano della stessa donna, Kit Carson Halliday, figlia di un ufficiale superiore. La trama si svolge durante la guerra civile americana e segue la missione di Stuart e Custer, che cercano di fermare John Brown, un abolizionista che ha pianificato di attaccare una fabbrica di armi in Virginia. Nel film la responsabilità della guerra civile ricade sulle spalle degli abolizionisti del nord e Brown viene ritratto come un fanatico politico e religioso che utilizza la violenza per ottenere i suoi obiettivi. Nonostante questo, il film presenta anche alcuni dialoghi toccanti sulle cause della guerra, mancanti nei film precedenti sulla guerra civile, come la conversazione tra Stuart e Custer in cui entrambi gli uomini concordano sul fatto che non spetta all’esercito o agli abolizionisti decidere sulla schiavitù, ma che comunque si sarebbe dovuto porre fine alla schiavitù senza la necessità di andare in guerra12. Il finale è un perfetto esempio di nazionalismo con i due amici che, dopo l’impiccagione di Brown, celebrano contestualmente il loro doppio matrimonio all’interno di un treno, sugellato dai canti patriottici dei commilitoni presenti alla cerimonia: direzione del treno è il West, la nuova frontiera, simbolo di una all’alleanza sugellata tra nord e sud verso nuove terre di conquista13. L’unione finale tra Stuart e Custer (personaggi storici realmente esistiti) non aveva come solo scopo una riconciliazione del passato statunitense bensì lanciare un messaggio per la futura guerra europea: solo uniti possiamo sconfiggere i fanatici del presente (Hitler) come abbiamo combattuto quelli del passato (John Brown)14.
Dopo un ventennio in cui il tema della guerra civile fu affidato principalmente alla narrazione dell’epopea “western” in cui si ripercorrono le scelte storiografiche sino ad ora raccontate, alla fine degli anni Sessanta il cambiamento di paradigma culturale dovuto ai tumulti e al movimento di rivendicazione dei diritti civili, modificò anche l’approccio di alcuni registi al tema della guerra civile grazie, soprattutto, alla pubblicazione del libro di Alex Haley Roots: The Saga of an American Family. Il libro, edito nel 1976 fu un grandissimo successo di pubblico tanto che, solo un anno dopo, la ABC decise di trasformare il romanzo in una serie televisiva: il racconto è una storia di formazione che narra la vicenda di Kunta Kinte che, spintosi nella foresta gambiana alla ricerca di legna per costruire il suo tamburo, viene rapito e venduto come schiavo negli Stati Uniti. Le vicende di Kunta Kinte e dei suoi successori si sviscerano lungo tutta la storia statunitense, dalla fine del XVIII secolo fino agli anni Venti del XX secolo con la nascita dell’ultimo erede, Alex Hasley. La guerra civile rappresenta un capitolo fondamentale sia del libro che della miniserie in cui il mito del buon piantatore e della nobiltà d’animo dei bianchi imprenditori del sud viene completamente stravolta15.
La svolta nel ruolo degli afroamericani nella guerra civile si ebbe, però, solo nel 1989 con l’uscita nelle sale del film Glory di Edward Zwick, vincitore di tre premi Oscar, tra cui quello di miglior attore non protagonista a Denzel Washington. Il film racconta la storia del 54° reggimento volontari fanteria del Massachusetts composto esclusivamente di afroamericani sotto l’egida dell’armata unionista. Il film infranse un grande tabù cinematografico: raccontava una storia di afroamericani durante la guerra civile. Il film uscì contestualmente al libro dello storico James M. McPherson Battle Cry of Freedom che scatenò un’ondata completamente nuova di libri di saggistica sulla guerra. Se sino ad allora i neri non erano mai apparsi come soldati combattenti, se non come parte dello sfondo, in Glory, Hollywood non solo mise sullo schermo centinaia di neri, ma li mostrava finalmente come gli eroi16.
Concludiamo la rassegna con un film uscito nel 2012 del regista statunitense Quentin Tarantino Django Unchained, secondo capitolo della sua “trilogia del revisionismo storico”. Il film disegna la parabola vendicativa dell’intera popolazione afroamericana: Django, come Spartaco, rompe le sue catene e, nel pulp sadico tipico di Tarantino, fa strage di bianchi razzisti divenendo, come lui stesso ha affermato, il giustiziere di Kunta Kinte17. Lo scherno nei confronti dei razzisti emerge in tutta la sua potenza nella scena del Ku Klux Klan in cui gli incappucciati sono rappresentati appositamente come inetti e idioti pur non nascondendo le loro malefatte e atrocità.
La conclusione distopica del film si ha con l’incendio della lussuosa villa di Candyland, rogo paradigma della fine della schiavitù e di una nuova era per la storia degli Stati Uniti. Era immaginativa che, purtroppo, non c’è stata.
Note
1 Brandon M. Eldridge, The Ever-Evolving Historiography of the American Civil War, in “Graduate Teview”, vol. 1, https://openspaces.unk.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1007&context=grad-review.
2 Eleanor Rigney, The development of the historiography of civil war, Tesi di dottorato inedita e consultabile al sito: http://libres.uncg.edu/ir/uncg/f/rigney_eleanor_1960.pdf, ultima consultazione: 28 aprile 2023.
3 Ibid.
4 Joshua Zeit, The history of how we came to revere Abraham Lincoln, in “Smithsonian magazine”, febbraio 2014, https://www.smithsonianmag.com/history/history-how-we-came-to-revere-abraham-lincoln-180949447/, ultima consultazione: 28 aprile 2023.
5 http://libres.uncg.edu/ir/uncg/f/rigney_eleanor_1960.pdf, ultima consultazione: 28 aprile 2023.
6 Bruce Chadwick, The reel civil war: mythmaking in American film, New York, Alfred A. Knopf, 2001, p. 97.
7 Ivi, p. 111.
8 Ivi, p. 112.
9 La convinzione che ciascuno stato degli Stati Uniti potesse lasciare, in virtù della base democratica, l’unione in qualsiasi momento essendo questa un semplice accordo tra essi.
10 Laura Ivins, The myth of the lost cause in Buster Keaton’s The General, in “Indiana University Cinema”, 15 febbraio 2021, https://blogs.iu.edu/establishingshot/2021/02/15/the-myth-of-the-lost-cause-in-buster-keatons-the-general/, ultima consultazione: 28 aprile 2023.
11 Ivi, p. 245.
12 Ibidem.
13 David Sachsman, Kittrell Rushing, Roy Morris (eds.), Memory and myth: the Civil War in fiction and film from Uncle Tom’s cabin to Cold Mountain, West Lafayette, Ind., Purdue University Press, 2007, p. 51.
14 Chadwick, The reel civil war: mythmaking in American film, p. 246.
15 Ivi, pp. 263-267.
16 Ivi, p. 280.
17 Michael Ralph, Theoretical Ramifications of Django Unchained, in “American Anthropologist”, vol. 117, 2015, n. 1, p. 157.