Intervista a Giuseppe Raniolo. Sull’uso controverso delle nuove realtà digitali a scuola

Interview with Giuseppe Raniolo. On the controversial use of new digital media at school

In apertura: aula digitale (da Wikimedia Commons, https://commons.wikimedia.org).

Giuseppe Raniolo, psicologo e psicoterapeuta, dopo avere lavorato come psicologo dal 1981 al 1985 presso i reparti per lungodegenti manicomiali dell’ospedale Busacca di Scicli (Ragusa), è stato dal 1985 al 2021 psicologo dirigente presso il Dipartimento di Salute Mentale dell’Asp di Catania. Attualmente esercita attività libero professionale a Catania occupandosi prevalentemente di psicoterapia individuale e di gruppo, formazione, supervisione e di insegnamento presso diverse scuole di specializzazione oltre che per l’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo e la Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica. Si occupa prevalentemente del trattamento psicoanalitico dei gravi disturbi mentali, del rapporto e del dialogo tra arte e psicoanalisi e della lettura psicoanalitica della contemporaneità.

Un recente studio dell’Università la Sapienza ha evidenziato il fatto che i ragazzi che arrivano all’università non scrivono, dal punto di vista della grafia e da quello lessicale, in modo corretto. Secondo il loro giudizio i ragionamenti si sono frammentati, sono brevi e imputano questa carenza all’uso eccessivo degli smartphone, dei tablet, ecc. Lei cosa ne pensa?

Mah! questi sono dati, il fatto che si dica che sia dovuto all’uso dei cellulari o ai tablet è tutto da dimostrare. Se si tratta di un dato scientifico bisogna che ci siano delle prove, delle evidenze, mentre noi siamo di fronte semplicemente a una costatazione. Ora, può essere che questa costatazione effettivamente abbia una correlazione nel modo di comunicare attraverso tablet, cellullari e così via, ma non so se sia soltanto da attribuire a questo, perché di solito io sono abituato a pensare che se noi abbiamo un dato e poi attribuiamo questo risultato a un qualche cosa dobbiamo poi utilizzare un metodo scientifico per potere stabilire che effettivamente sia così. Certo è che se noi siamo di fronte a un fenomeno di questo tipo bisognerebbe correre ai ripari o trovare i rimedi e quest’ultimi si devono trovare inevitabilmente nell’ambiente scolastico, comprendere perché questo accade e trovare delle soluzioni dentro l’ambiente scolastico. Ad esempio, anche se non sono uno specialista in questo campo, mi risulta che si usa poco il corsivo, ed io non comprendo il motivo, oppure che non si è più molto attenti alla strutturazione della frase secondo le regole grammaticali, sintattiche, che erano le basi necessarie che hanno caratterizzato la nostra formazione. Quando io ero piccolo si stava molto attenti a questo. Perché non più è possibile rifarlo, perché non è possibile leggere direttamente dai grandi classici, oppure dagli autori contemporanei trovare il modo di apprendere come si scrive attraverso la lettura o ipotesi di scrittura? Il lavoro con la scrittura quanto è praticato? Si fanno scrivere per esempio delle poesie, dei temi, o dei brevi resoconti autobiografici? Oppure fatti di lettura della contemporaneità? Certo è che l’uso di WhatsApp, di Facebook in particolare, di Tik Tok, fa sì che si utilizzi una scrittura che è assolutamente più sintetica, più contratta, con un uso della sintassi più limitata. È vero che si determina una forma di impoverimento, però la lingua non è una cosa morta, è una cosa viva e quindi si modifica nel tempo. E questi cambiamenti e modificazioni che stanno avvenendo nel tempo forse hanno a che fare con delle esigenze che nella contemporaneità portano a leggere e a scrivere in un modo diverso rispetto al passato, poiché nel passato le esigenze erano altre, eravamo dentro un’altra contemporaneità, e tutto ciò sta a dimostrare come poi di fatto la lingua si sta evolvendo, anzi cambiando, non dico progredendo perché è meglio lasciare stare i termini e l’idea di progresso che non esistono, quindi diciamo che è cambiata.

Se le università dicono che i ragazzi non sanno più scrivere, il Ministero dell’Istruzione spinge sempre più nella direzione di una scuola digitalizzata con ambienti tecnologici 4.0, aule in cui i ragazzi abbandonano la lettura e la scrittura tradizionale per immergersi negli ambienti virtuali, con un apprendimento mediato dalle cosiddette realtà aumentate. La stessa funzione dell’insegnante verrà meno perché non sarà colui che dialoga direttamente con gli alunni ma li istruirà su come utilizzare le apparecchiature per apprendere da contenuti già elaborati dai programmi della realtà virtuale. Le risorse del Pnrr per la scuola verranno impiegate in questo progetto di transizione tecnologica. Lei non vede in tutto ciò una contraddizione di fondo?

Sì, certo che c’è una grandissima contraddizione e peraltro a mio avviso questo cambiamento della scuola è attualmente estremamente pericoloso. Mi spiego meglio. Io sono un fautore dell’uso delle tecnologie avanzate, anche quelle immersive, pensiamo ad esempio in ambito medico, e non sono contrario all’uso dell’intelligenza artificiale o della realtà aumentata, ma l’umano non si caratterizza solo per quello, può essere solo una parte di ciò che è una nuova forma di insegnamento e che peraltro noi non possiamo assolutamente evitare di portare avanti, di fare in modo che si realizzi, non c’è nessuno ritorno indietro possibile, perché di fatto la contemporaneità si basa proprio su questo, e gli sviluppi che noi ci aspettiamo in rapido aumento come l’intelligenza artificiale o la domotica e quindi la possibilità di rendere tutto ciò che è il nostro abitare e il nostro vivere quotidiano in rapporto all’intelligenza artificiale che possono guidare gli strumenti e così via, è inevitabile. Probabilmente è anche auspicabile, ci sono delle aree che sono quelle della disabilità in cui la presenza di IA, di domotica sono fondamentali, E allora, questo sì, è qualcosa che non possiamo evitare e dobbiamo permettere che si esprima anche al massimo grado, ma non si può trascurare il fatto che sia necessario il rapporto con l’umano per poter apprendere e potere discernere. Cioè, il principio e la funzione educativa deve svolgersi all’interno di un ambiente umano, all’interno di una relazione che deve essere chiara e garantita. Peraltro il discorso si allarga, quando noi lavoriamo per esempio su ambienti virtuali o realtà aumentate non teniamo conto che questa esperienza vive all’interno di un contesto che è fisico, reale, concreto e cioè quello della scuola in cui i ragazzi stanno e poi crescono. Che differenza c’è fra contesti di scuola, di insegnamento fatte all’interno delle nostre scuole e quelle steineriane dove c’è un contatto effettivo con la natura, con la possibilità di costruire addirittura gli stessi strumenti di insegnamento, e quindi libri o produrre anche strumenti per la ricerca, e all’interno di una interazione con il gruppo. Dentro un lavoro fatto, a meno che lei non mi dica che non esistono degli strumenti specifici per garantire anche il lavoro di gruppo, con l’uso di strumenti quali la realtà aumentata, quello che viene a mancare, e che non dovrebbe mai essere assente in un processo educativo, è il principio di autorità umano garantito dalla presenza dell’educatore, dell’insegnante, del docente. Non solo questo, è anche la funzione del gruppo che deve essere mantenuta perché alimenta in maniera sostanziale la capacità di apprendimento che non è solo ad appannaggio di un individuo isolato. Quindi senza tutto ciò siamo all’interno di meccanismi che tradiscono fondamentalmente la maniera in cui l’umano si è costituito e in cui l’umano svolge le sue attività e le sue funzioni in gruppo, il principio di autorità dato da un educatore e il corpo, perché laddove c’è l’assenza del corpo, cioè la separazione della relazione basata sui corpi che si relazionano, si determina un grandissimo limite. Tuttavia, per altri versi è anche un vantaggio perché mai l’umanità era riuscita a produrre strumenti che enfatizzassero alcuni aspetti delle capacità stesse dell’essere umano, ma dall’altro punto di vista diventano un forte limite se addirittura non si tiene conto di tutto il resto, cioè la dimensione del gruppo, la dimensione del corpo e la dimensione dell’autorità legata al principio e alla funzione educativa. Perché tutto questo ha a che fare con la dinamica delle emozioni e le dinamiche delle emozioni si vivono attraverso corpi che entrano in relazione. Questo sì, viene a mancare. E se ciò è vero, siccome nel rapporto con il gruppo o nel rapporto stesso con le proprie emozioni quello che necessita è che una persona dovrebbe avere la capacità non soltanto di viverle ma anche di poterle trascriverle, cioè comunicare, discutere, mettere in relazione con gli altri, in questo senso la funzione di un linguaggio estremamente articolato che potrebbe essere ad esempio quello poetico e poi quello scientifico viene a mancare.

La scienza ci dice che non siamo tutti uguali e ogni individuo ha una propria struttura bio-psicologica, e sappiamo che questi strumenti tecnologici creano dipendenza. Dal momento che oggi i ragazzi sono in grado, nelle diverse piattaforme di realtà virtuale, di costruire identità parallele a quelle reali o altre da sé, fino a edificare una nuova esistenza all’interno di questi ambienti immersivi, che impatto può avere tutto ciò sulla dipendenza come forma psicopatologica del vivere quotidiano? Inoltre non dobbiamo dimenticare che potrebbe crearsi una discriminazione sociale tra chi ha le risorse per curarsi da eventuali psicopatologie da dipendenza e attutire l’impatto della dipendenza e chi no. Cosa ne pensa?

L’impatto è enorme. Nel senso che esistono vere e proprie forme di dipendenza dall’uso di tutte queste “diavolerie”, come le chiamerebbe una vecchia signora. In ogni caso penso che tutto ciò non sia legato agli strumenti di cui verrà investita la scuola, cioè già i ragazzi ci sono dentro questa realtà e non è che tutti i ragazzi sono dipendenti e allora il problema è l’uso che se ne fa e cioè se questo tipo di piattaforme virtuali sostituiscono la relazione effettiva con l’altro oppure no, cioè se è possibile mantenere comunque un contatto effettivo con l’altro e quindi con il gruppo, con l’adulto e così via. Allora il problema è quali sono gli spazi di socializzazione, in linea di massima noi più ci urbanizziamo, più viviamo all’interno di contesti che poi all’atto pratico sono disumanizzanti quelli della metropoli o della megalopoli, pensiamo a una Shangai con ventiquattro milioni di abitanti ma in realtà quante sono le Shangai nel mondo: Boston, New York, non sono da meno. Noi siamo già dentro situazioni in cui già la possibilità dell’incontro della relazione con l’altro all’interno di contesti sociali chiari, definiti e che vengono usati per questo scopo sono diminuiti estremamente, quindi dovremmo aumentarli mentre ci dotiamo di queste strumentazioni informatiche dovremmo aumentare i circoli sportivi, le possibilità di aggregazione, le esperienze teatrali, artistiche, di socializzazione in generale. Se creiamo un equilibrio, se è possibile che questo tipo di esperienze non si perdano allora noi non avremmo necessariamente da preoccuparci da forme di dipendenza che possono diventare estremamente patologiche. Il fenomeno che noi abbiamo importato dal Giappone è l’hikikomori1 che è sicuramente presente qui da noi, conosco diversi casi e ne ho seguiti, però ho seguito anche casi di persone che hanno una capacità di utilizzazione straordinaria di questi mezzi e sono persone che sono diventate nel tempo ingegneri elettronici, o specializzate nel campo della progettazione e della programmazione ma che non hanno mai perso la relazione con l’altro, con lo sport, con il mondo che ci circonda, con la natura. Per cui sì, sono preoccupato per le dipendenze ma a causa del fatto che abbiamo sempre meno spazi di socializzazione, non è vero l’inverso, non è che questi strumenti rendono a-sociali, no è che questa a-socialità viene sicuramente corretta molte volte dal fatto di potere utilizzare questi strumenti, addirittura ci sono persone che riescono a entrare in relazione con gli altri proprio perché esistono questi strumenti. Le faccio un esempio, durante il periodo del covid buona parte del mio lavoro, cioè del lavoro degli psicoterapeuti, si è spostato sulla rete, cioè praticamente moltissimi sono le persone che hanno continuato a lavorare in rete e pensi ancora che esistono alcune di queste associazioni, ormai a fine di lucro, fatte per psicoterapie sulla rete, proprio perché questa possibilità è data dalla rete e molte persone non riescono più a incontrarsi realmente nel concreto. Ma l’obiettivo non è quello, cioè l’obiettivo sarebbe quello di avere la possibilità di una relazione effettiva in carne ed ossa in rapporto con gli altri, per cui lo ripeto, la dipendenza è sempre frutto di un qualche cosa che non funziona o all’interno, ad esempio, della struttura familiare e potremmo trovare varie cause, o di carattere psicologico, familiare, sociale e così via, ma non necessariamente determinate in primo piano dal fatto che esistono i personal computer, la realtà virtuale, i video giochi e così via. È la stessa cosa delle tossicodipendenze, cioè il punto è che le sostanze psicotrope o stupefacenti esistono di fatto ma non necessariamente si deve andare a incontrarle, questo accade se c’è una problematica di qualche tipo che puoi andare a rintracciare. Non è la cosa in sé che porta a dipendenza, per esempio non è l’alcol in sé che porta dipendenza e l’uso che se ne fa. Bene, questi strumenti non hanno niente a che fare con l’alcol e così via, perché lì il punto è che uno ne potrebbe anche semplicemente fare a meno perché non necessario, mentre dello smartphone ormai non ne possiamo fare a meno.

Infatti, a scuola ci sono ragazzi che non possono fare a meno di guardare i cellullari, di inviare messaggi, di giocare, e i dirigenti scolastici, gli insegnanti hanno iniziato a dire che ciò conduce a distrazione, a seguire meno le lezioni, a non studiare. Alcune scuole addirittura hanno proposto di proibire l’uso dello smartphone all’interno dell’edificio scolastico.

A me risulta che esistono anche delle scuole dove viene concesso l’uso dello smartphone per accedere ad esempio ai vocabolari online, o a Wikipedia anche se è imprecisa, però obiettivamente in molti casi può addirittura non essere utilizzato. Ancora una volta lo si può prendere come uno strumento che viene utilizzato nel percorso formativo del ragazzo e non uno strumento che prescinde. Certo, io confesso di essere un po’ all’antica e se a un certo punto si stanno studiando certe materie specifiche forse non sarebbe il caso di utilizzarlo, però io mi chiedo anche se non sia possibile per esempio potere registrare una lezione che sta facendo un professore in un determinato momento per poi poterla riascoltare, oppure fotografare la lavagna se ci sono delle formule che poi uno si può portare anche a casa. A me risulta un po’ controverso l’uso del cellulare, sicuramente noi non possiamo pensare che in una realtà come questa in cui inevitabilmente gli adolescenti di oggi sono dei nativi digitali e sono persone che quotidianamente sono in contatto con lo smartphone possano farne semplicemente a meno. Lo possono momentaneamente spegnere come quando uno va al cinema o non fuma perché è così che impone la legge, ma lo smartphone costituisce una parte effettiva della vita di ognuno di noi. Devo dire che c’è anche un’altra riflessione da fare. Noi pensiamo che tutto è rimasto uguale a molti anni fa, e ovviamente lo dico subito perché non smentisco le risposte date alle domande precedenti, però la socialità oggi, in un qualche modo, si è modificata. Quindi, non è che il rapporto con i social sia una socialità di secondo livello rispetto a quella che si ha nel concreto rispetto alla realtà, perché comunque forse lo è per noi che siamo anziani, ma per i ragazzi che già si muovono dentro quella realtà, sicuramente quella è una socialità di tipo diverso che va capita, compresa, discussa nella relazione anche con gli altri, con gli anziani ma non immediatamente demonizzata o evitata. Si potrebbe dire ad esempio, quanti sono gli individui, mi riferisco ai grandi di età o agli anziani, che hanno conosciuto di fatto qualcuno prima su Facebook e poi nella realtà? Tanti. E allora questi social non sono solo degli strumenti che possono inquinare o addirittura ostacolare l’espressione della socialità. Forse dobbiamo pensare che ci portano a forme di socialità diverse. È chiaro è una socialità in cui il rischio di fare massa e quindi di avere dei comportamenti quasi da orda esistono, ed è qui che bisognerebbe lavorare nei termini educativi, è qui che occorrerebbe svolgere una attività di cura e di attenzione perché questo non accada o venga limitato, ma di per sé non mi pare che ormai sia pensabile vietare l’uso dello smartphone, fra l’altro ciò costituisce anche una contraddizione, perché da una parte si incentiva l’utilizzo di strumenti tipo Metaverso, realtà virtuali e dall’altro proibirli. Il problema è che bisogna vedere come, in che senso, qual è l’uso che se ne vuole fare, forse bisognerebbe lavorare perché venga educato anche l’uso dello smartphone in classe, ma pensare che sia evitabile tutto questo mi pare un po’ difficile.

Lei ha fatto riferimento alla tossicodipendenza, a quando la società negli anni Sessata e Settanta fu inondata di eroina e tanti giovani furono annientati nella psiche e nel corpo. E lì si che si rompevano relazioni sociali, e ci si gettava nell’isolamento totale fino alla morte. Le chiedo se, oggi, con l’uso dei social i giovani rischino altrettante forme di disfacimento, penso agli atti di violenza, anche di matrice sessuale che si consumano nella rete, con la conseguenza che chi li subisce viene annientato. Chi controlla a scuola questi fenomeni molto pericolosi?

Penso che siamo sempre nell’ambito di quel principio di autorità di cui già ho parlato. Qui il punto è che bisognerebbe educare, così come già esiste l’educazione civica, all’uso dei social e dovrebbe essere addirittura una materia specifica, non tanto una materia di insegnamento ma quanto meno costituire anche una discussione che può essere fatta anche all’interno delle ore di lezione perché obiettivamente quello diventa un limite. Cioè in realtà noi siamo di fronte a comportamenti di massa in cui si era occupato Sigmund Freud in psicologia delle masse e analisi dell’io2, ma lì lui utilizzava come strumenti di ricerca gli scritti di Le Bon3; però siamo ancora in questo ambito, è come se la massa si fosse spostata sui social e questo diventa realmente problematico e allora, ripeto, il punto è che occorrerebbe veramente un’opera di educazione, di lavoro sul campo, con le forme che si possono attivare, per fare in modo che i ragazzi non utilizzino i social in questo modo. Allo stesso modo per gli adulti, vale anche qui, occorre che ci sia un discorso di etica che deve essere portato anche in questi campi, cioè nell’uso di questi strumenti. Questo fenomeno che è stato rilevato nella rete si chiama “shit storm”, un neologismo che è stato utilizzato in particolare in Germania. Ne parla il filosofo Byung Chung Hann4 in uno dei suoi libri, lui è uno estremamente critico nei confronti di tutto ciò che è virtuale, al contrario invece di Michel Serres5 che è un grande epistemologo francese e saluta con entusiasmo questa nuova dimensione virtuale affermando che stiamo rivoluzionando tutto, compreso la capacità di comprensione del mondo. Quindi due posizioni opposte. Io rispetto a questo fenomeno tendo più nella posizione di Hann. Di fatto noi siamo di fronte a una psicologia delle masse spostata sui social, su internet e il punto è che qui dovremmo cercare di intervenire perché si comprenda che si deve fare di questi strumenti un uso responsabile e un uso eticamente fondato. Ma anche in questo caso, sì, da una parte è lo strumento in sé che consente questo perché ci rende anonimi in un qualche modo e virtualizza tutto, nel senso che una offesa non è quella data a una persona reale e concreta, però è anche vero che i ragazzi sanno bene oramai, visto che sono dentro queste forme di socialità, quale è la differenza tra una offesa reale e concreta e una offesa che è stata fatta solo virtualmente. Il punto è fare in modo che queste cose vengano comprese, che si sappia, socraticamente, qual è il male che si compie, utilizzando i social, ad esempio, per attaccare qualche amico. Per cui, per me il problema è sempre quello, e cioè che lavoro si fa nella scuola, ma anche più in generale su cos’è la socialità, su che cosa significa attaccare qualcuno in questo modo, su che cosa significa bullizzare poi all’atto pratico qualcuno, quali sono le conseguenze al livello emotivo delle persone, quando vengono bullizzate, trattate in questo modo? Allora penso che lì ci sia il vecchio lavoro che bisognerebbe fare contro il bullismo, che non è solo quello in rete, ma anche quello che è nel concreto, non cambia, non fa molta differenza, c’è la necessità di lavorare su questa idea dell’altro come se fosse semplicemente qualcuno da manipolare o da attaccare e quindi c’è un principio etico che deve essere riportato in auge e bisognerebbe stare molto attenti a questo fenomeno.

Difatti oggi nelle scuole si assistono a risse ed esplosioni di violenza correlate a messaggi, video, fotografie che vengono veicolate nella rete con l’obiettivo di “attaccare l’altro”. Gli smartphone hanno anche portato queste nuove forme di aggressività quotidiane, che esplodono per futili motivi. Cosa ne pensa?

Sì, infatti, lo ripeto ancora una volta, è necessario che nasca un dibattito interno alla scuola sull’uso di questi strumenti tecnologici, e non è soltanto un dibattito, anche un conseguente intervento consapevole. Prima, le dicevo, esiste l’educazione civica, bene, pieghiamola, ovvero cerchiamo di dare a questa disciplina anche un senso nell’uso del virtuale o della rete in generale. Bisognerebbe che ci si interrogasse continuamente. Quindi non tanto la demonizzazione ma l’uso consapevole di questi strumenti e in merito a una tensione verso una apertura ai possibili sviluppi, alle ricerche, perché non sappiamo ancora quali sono ancora i cambiamenti che si stanno determinando al livello di funzionamento dell’intelligenza o della capacità di comprensione a causa dell’uso di questi strumenti, sicuramente non possiamo non tenerne conto o eliminarli o pensare a un ritorno indietro. È anche un fatto culturale, di popoli, l’esempio di chi ha già implementato l’uso del virtuale nelle scuole? Non saprei, può anche darsi che sia così, ad esempio in paesi del Nord Europa. Ma io, lo ripeto, non sono contrario, ma non sono del tutto d’accordo sul fatto che questi strumenti possano sostituire per esempio il rapporto, la relazione di crescita che si stabilisce con l’insegnante o con l’uso del gruppo classe che per me è fondamentale e cioè che ci sia un gruppo reale e non virtuale e il fatto che ci sia un insegnante reale e non virtuale. Anche perché l’intelligenza artificiale per quanto si può interrogare, ad esempio con la recente ChatGpt, o addirittura modificare le capacità di insegnamento in base all’utente che la utilizza, è sempre uno strumento meccanico, che non ha a che fare con la relazione effettiva di una persona, anche perché nella dinamica della relazione che stabiliamo con un altro in maniera concreta e reale, cioè quando un ragazzo è di fronte a un professore, quello che si attivano sono aspetti anche di natura neurofisiologica che non si innescano nella relazione con l’intelligenza artificiale. Questo sia chiaro, per cui non so perché lì, in Nord Europa, già riescono a fare questo, sono più avanti, utilizzano questi strumenti e qui da noi tardano ad arrivare. Naturalmente li teniamo un po’ di più certo, ma io penso che invece vadano utilizzati, l’immersione a una realtà virtuale, in un Metaverso, o nella realtà aumentata è a mio avviso assolutamente inevitabile, anzi può essere utile per l’apprendimento, per lo sviluppo della creatività anche degli alunni. Ma non ci possiamo limitare a quello, non può diventare l’asse portante della scuola e degli strumenti di insegnamento.

Non intravede rischi di scissione dell’individuo?

No, perché credo che ognuno di noi faccia già uso di questi strumenti, lei in questo momento sta registrando con uno smartphone, noi ormai utilizziamo questi strumenti quotidianamente e non ci sentiamo sdoppiati, semmai per quanto riguarda noi adulti forse bisognerebbe utilizzarli in maniera più consapevole sia i social che strumenti di messaggistica istantanea, e comunque ritornando alla domanda iniziale assolutamente mai io vorrei che un ragazzo o una ragazza non sapesse scrivere e che quindi vi sia la possibilità di utilizzare strumenti, anche virtuali, purché si impari a scrivere e si impari a scrivere bene, perché lo ritengo una cosa fondamentale. Se perdiamo l’uso di alcuni vocaboli e che se ne possono creare altri mi può fare anche piacere, ma se perdiamo tout court l’uso di alcuni vocaboli perdiamo intere parti della comprensione del mondo, e non è che una perdita che abbiamo temuto ma sta già accadendo, ora non so in che condizioni noi stiamo, ma ricordo di aver letto una cosa su Latouche6, ma non solo lui, anche antropologi se ne sono occupati, sul fatto che noi perdiamo ogni anno qualcosa come sei mila lingue, dialetti o altre; classifichiamole come vogliamo, così come ogni anno perdiamo la diversità biologica e si estinguono moltissime specie sia animali sia vegetali di fatto. Allora il problema è che noi non possiamo più permetterci di perdere vocaboli, così come non possiamo permetterci di perdere lingue o regole grammaticali, sintattiche, di aggiungerne altri, di utilizzare nuovi termini lo capisco. Però oggi, ad esempio, quanti ragazzi sanno cos’è il maniscalco? Però è anche vero una cosa, ci sono parole e oggetti che non esistono più nel linguaggio comune, tuttavia se usiamo lo smartphone li possiamo trovare o cercare un documentario che parli dell’oggetto o dell’argomento che non conosciamo più. Quindi il discorso è estremamente più complesso e io direi che in fondo si esprime in questi termini: di questi strumenti non possiamo farne a meno, dobbiamo saperli utilizzare, occorre sempre che ci sia un criterio di autorità che ci aiuti a comprendere bene queste cose. C’è un bel saggio recente di Umberto Eco sull’uso dell’autorità su internet e quello che lui dice è che effettivamente manca il principio di autorità anche nella costruzione ad esempio di Wikipedia7. Allora il punto è che su queste cose ci dobbiamo interrogare ma non possiamo pensare che siano strumenti che non debbono essere utilizzati.

I social hanno il potere di fare massa, di aggregare, poi c’è l’altra faccia quella del “marketing a buon mercato”. Sembra che ai più giovani (e non solo) interessi solo stare sui social per comunicare tra di loro e basta, come se il mondo esterno non esistesse, non appaiono coinvolti alla dimensione trasformativa della politica. Un esempio lo abbiamo con questa guerra in Ucraina dove gli adolescenti sembrano disinteressati ai pericoli di una distruzione che la guerra porta con sé, nonostante a scuola si studia la storia e nel web circolano notizie quotidianamente sull’andamento del conflitto bellico. Che cosa sta accadendo? Perché questa apatia?

Sì, è vero, questo accade, ma non so se sia da attribuire alla rete e a internet. E perché la rete dovrebbe spegnere le passioni politiche? che possa essere una concausa sì, però il problema è che questa passione politica, sociale, ha avuto un affievolimento più generale, e in particolare a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso e siamo ancora in quell’onda. Non credo che sia un fenomeno semplicemente attuale. Oggi obiettivamente è una cosa molto evidente, ma non credo che sia da attribuire automaticamente, ipso facto, alla rete, anche perché questo è vero per la guerra, non lo è, ad esempio per alcune iniziative sociali e politiche che sono state fatte anche in Italia, come ad esempio gli incontri sui temi ecologisti sulla base di inviti direttamente dai social, per cui non è che questo non accada. Io credo che lì ci dobbiamo interrogare più in generale su come sta funzionando la nostra società in maniera generale.

Giorgio Agamben ha scritto che si danno per false notizie che sono state ritenute tali, «non ci si preoccupa di nascondere la sua falsità»8 e si credere nella menzogna fino a trasformarla in verità. In tal senso i social sono un formidabile veicolo per trasformare in verità ciò che non lo è.

Questo è un fenomeno che peraltro è dentro la psicopatologia, ma guarda caso ritorniamo sempre sul tema del principio di autorità e cioè ogni cosa che mettiamo sulla rete rischia di avere una autorità parziale o specifica alla notizia che si sta dando. È vera in quanto io la sto dando e dov’è il principio di autorità che dovrebbe essere sempre esterno rispetto a questo. E quindi la scuola dovrebbe recuperare tutto questo. Di certo dovrebbe svolge sempre in maniera alta la funzione educativa e permettere anche ai gruppi, perché tutti i gruppi di una scuola sono formati da classi e da adolescenti in prevalenza, di essere consapevoli di sé stessi e di quello che fanno, cioè di fare in modo che i gruppi si riuniscono per portare avanti un progetto, un pensiero, una crescita comune, con una certa sensibilità rispetto a certi fenomeni contemporanei.

Per concludere, Platone nel «mito di Theuth» narra che il mezzo scoperto per accrescere la conoscenza finge di ricreare al di fuori della mente ciò che in realtà può esistere solo al suo interno, ovvero la sapienza, la conoscenza di sé. E scrive: «Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti». La tecnologia informatica, che oggi è lo strumento per eccellenza, genera oblio, rinuncia alla ricerca di una sapienza autentica?

Potrebbe farlo. In genere si ottengono informazioni che non costituisco in sè forme di reale comprensione. Anzi, molte volte, anche se ovviamente non sempre, le informazioni che si ottengono sono inutili perché generate da un algoritmo che ripropone esclusivamente ciò che abbiamo già cercato. Ovvero ciò che troviamo non è altro che noi stessi, una conferma inutile del nostro stesso desiderio di informazione. Comprendere, capire, crescere, non consiste solo nel trovare ciò che cerchiamo ma è soprattutto trovare ciò che non cerchiamo. Ciò ci sorprende perché è inatteso. La vera conoscenza ci proviene dall’incontro con l’altro, dallo scambio, dalla dialettica, dalla contraddizione. La tecnologia informatica non è in grado di farlo o non lo è ancora. Anche se non possiamo escludere che in futuro sia in grado di riprodurre un ambiente capace di simulare una vera forma di interlocuzione. Ma per adesso la reale sapienza, che si coniuga sempre con l’emozione e l’affettività, non può essere ottenuta se non attraverso una relazione umana. Devo però aggiungere che piattaforme come YouTube, che consentono ad esempio di assistere a milioni di conferenze di ogni tipo, e non solo di ascoltare musica, così come Spotify con i suoi podcast, o i vari zoom, Skype ecc. che ci consentono di lavorare in gruppo e di fare conferenze, sono strumenti che permettono realmente di conoscere nel modo più alto del termine. Pertanto non può essere espresso un giudizio univoco e acritico. Il mondo delle tecnologie informatiche è troppo ampio e in continua evoluzione per consentirci l’espressione di un unico punto di vista. Ciò che si può dire di incontrovertibilmente critico, a mio giudizio, è che il virtuale, il telematico, l’informatico, non possono sostituire l’incontro reale, i rapporti, per così dire, corpo a corpo, la concreta socialità che si esprime in luoghi fisici deputati ad accoglierla, anche se molto spesso è la socialità stessa a creare i luoghi dell’incontro.


Note

1 Si tratta di persone che scelgono di scappare fisicamente dalla vita sociale, spesso ricorrendo a livelli estremi di isolamento e confinamento. Il fenomeno, già presente in Giappone dalla seconda metà degli anni Ottanta, ha incominciato a diffondersi negli anni duemila anche negli Stati Uniti e in Europa. Cfr. Gordon Mathews e Bruce White, Japan’s Changing Generations. Are Young People Creating a New Society?, London, Routledge, 2004; Carla Ricci, Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, Milano, Franco Angeli, 2008.

2 Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, Torino, Bollati Boringhieri, 1975.

3 Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, Milano, Tea, 2004.

4 Byung Chung Hann, Nello sciame. Visione digitale, Roma, Nottetempo, 2015.

5 Michel Serres, Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, Torino, Bollati Boringhieri, 2013.

6 Serge Latouche, Limite, Torino, Bollati Boringhieri, 2012.

7 Umberto Eco, L’era della comunicazione. Dai giornali a wikileaks, Roma, La nave di Teseo, 2023.

8 Giorgio Agamben, Sul vero e sul falso, in https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-sul-vero-e-sul-falso, ultima consultazione: 1 marzo 2023.