In apertura: una parte del percorso espositivo all’Escher Pop-Up-Store.
Nel 2022 Esch-sur-Alzette è Capitale Europea della Cultura. Un’occasione unica per valorizzarne le specificità legate alla storia del lavoro e dell’immigrazione. Quest’occasione è colta da un team di public historian dell’Università del Lussemburgo guidato da Thomas Cauvin e Joëlla van Donkersgoed; attraverso un’azione partecipativa, la cittadinanza è stata invitata a contribuire al racconto della propria città. Una serie di workshop, la raccolta dei contributi emersi, una mostra, un catalogo, un percorso in città attraverso i racconti dei cittadini. E soprattutto una crowdsourced collection che in settembre è diventata esposizione temporanea. L’intervista e la traduzione della stessa si devono a Paola E. Boccalatte.
L’esposizione si è conclusa da pochi mesi. Può raccontare come fosse allestita, in quali spazi, con quali dispositivi e strumenti interpretativi?
La nostra avventura è cominciata un anno prima della mostra, quando abbiamo coinvolto la comunità di Esch tramite un workshop e un gruppo Facebook. La domanda che abbiamo posto era: possiedi un oggetto che possa raccontare un aspetto della storia di Esch? I membri della comunità hanno potuto caricare le foto dei propri oggetti di famiglia sul sito https://historesch.lu e nel giugno 2022 la cittadinanza ha votato gli oggetti in modo da individuarne 25 da esporre. Abbiamo saputo solo con tre settimane di preavviso dove sarebbe stata allestita la mostra, pertanto abbiamo dovuto usare supporti flessibili che si adattassero alle diverse dimensioni degli oggetti e a spazi differenti. Il designer con cui abbiamo lavorato ha costruito grandi supporti in legno molto semplici a forma di Z, a cui si potevano agganciare ripiani di metallo a varie altezze. Alcuni degli oggetti fragili avevano una vetrina in plexiglass, e altri erano assicurati a ripiani. Il percorso seguiva un ordine cronologico.
La formazione da medievista mi suggerisce un ricordo. Tra il 2003 e il 2004 Parma ospitò una mostra intitolata Il Medioevo europeo di Jacques Le Goff. L’esposizione rappresentava la sintesi delle ricerche del grande studioso del Medioevo per mezzo di una cinquantina di oggetti, scelti da Le Goff stesso. Forse in quel caso la vera protagonista era la voce di chi interpretava quelle opere, quei reperti. Nella mostra di Esch chi è il protagonista? E chi è l’interprete?
Volevamo adottare il principio “of/by/for all” di Nina Simon1 e testare fino a che punto potessimo accettare di non essere gli unici “esperti”. Protagonisti e interpreti sono quindi i partecipanti: hanno presentato i propri oggetti e le proprie storie personali, e hanno operato una selezione pur all’interno di una cornice comunque fornita da noi. Tuttavia, molti degli oggetti ci sono pervenuti con poche informazioni. Per far fronte a questa lacuna, abbiamo istituito un comitato consultivo costituito da membri della comunità e storici, che ha contribuito alle descrizioni. Il catalogo si propone di collocare le testimonianze personali in un quadro storico più ampio, e questo è un passaggio interpretativo che ha richiesto l’intervento dei curatori del progetto.
Mi è capitato di riflettere sul fatto che la public history sia anche una tensione verso l’accessibilità, nella misura in cui rompe il meccanismo autoritario della comunicazione museale determinata e rigida. Cosa ne pensa?
Questo è esattamente lo scopo del nostro progetto, rompere la gerarchia che esiste tra il mondo accademico e il pubblico. Il nostro slogan per il progetto era “la tua città, la tua storia”, con l’obiettivo di metterci in posizione di ascolto dei pubblici e dare legittimità e valore alle loro voci. Porre in primo piano la voce delle persone non è stato sempre facile, poiché la comunità in taluni casi è persuasa che noi (gli studiosi) possediamo autorevolezza e diamo voce alla lezione dominante mentre le loro storie personali avrebbero meno valore. Questo è particolarmente vero a Esch-sur-Alzette, il cui benessere è dato dall’industria. La storia ha favorito il punto di vista delle classi dominanti, e quindi la popolazione aveva in generale la sensazione di essere inascoltata o comunque non rappresentata. La mostra, costruita con oggetti personali, ha avvicinato la storia alle persone e alla loro esperienza del passato, e molti visitatori si sono complimentati con noi per aver cercato questo reciproco riconoscimento.
Altra esperienza avvincente è stata A History of the World in 100 Objects, progetto della BBC che consisteva in una serie radiofonica in 100 puntate condotta da Robert Neil MacGregor. In 15 minuti, l’allora direttore del British Museum usava gli oggetti del museo per raccontare alcuni capitoli della storia dell’umanità. La serie divenne anche un libro (2010) e, nel 2016, molti oggetti solcarono i continenti con una mostra itinerante. L’uso di più media per raggiungere pubblici diversi è tratto distintivo di molte operazioni di public history.
In effetti, è una sfida per ogni public historian trovare il modo migliore per raggiungere la comunità con cui vuole lavorare. Nel nostro caso utilizziamo luoghi e metodi diversi per coinvolgere le persone. Durante tutto il processo volevamo “esserci là dove sono le persone”, quindi abbiamo tenuto i workshop in spazi informali come i caffè e la mostra si è svolta nella via principale dello shopping a Esch-sur-Alzette. Oltre ai workshop e alla pagina Facebook, abbiamo presentato il progetto al festival locale di cultura e arte, la Nuit de la Culture. Per ogni quartiere abbiamo curato una piccola esposizione sulla storia locale per mostrare ai visitatori come gli oggetti personali si relazionino con la storia della città. Queste interazioni personali sono state importanti per creare interesse e per richiamare i partecipanti sul sito web dove avevano la possibilità di contribuire al progetto. Un altro mezzo di comunicazione di successo sono stati i giornali locali, che hanno concorso a portare partecipanti ai workshop e visitatori della mostra.
Nel 2017 il Museo diffuso della Resistenza di Torino ha realizzato un’iniziativa analoga, chiedendo ai cittadini di raccontare pubblicamente un proprio oggetto legato alla Seconda guerra mondiale e di esporlo in museo per qualche giorno. Era la Staffetta della memoria, progetto che, nella seconda edizione (2020), si è svolto totalmente online.
Non conoscevo questo progetto, ma è un altro ottimo esempio di come i propri oggetti (insomma, il crowdsourcing) possano essere occasione per un incontro personale con la storia. Il vantaggio di organizzare una mostra come questa attraverso un museo affermato è che hai già una rete di potenziali partecipanti interessati all’argomento. Tuttavia, questo può anche essere un fattore vincolante, poiché può dare spazio a voci già rappresentate dal museo. Nel nostro caso non sarebbe stato possibile realizzare dei video con la presentazione degli oggetti da parte dei proprietari; diversi partecipanti, infatti, hanno voluto rimanere anonimi, oppure hanno dedicato l’oggetto a una persona cara deceduta dalla quale lo hanno ereditato. Accettare la partecipazione in forma anonima si è rivelato fondamentale.
Esch non ha un proprio museo della città e HistorEsch sembra un tentativo di colmare questa assenza. Credo avrebbe un valore importante conferire carattere di stabilità a questa esperienza. È un auspicio che condivide?
Mi sono appena stati accordati ulteriori finanziamenti per creare una piattaforma sostenibile che mantenga e rafforzi le relazioni ed estenda la collezione. In occasione degli incontri abbiamo notato che la comunità preferiva il materiale fotografico rispetto agli oggetti per relazionarsi con la storia, e quindi la seconda fase del progetto si concentrerà maggiormente sulla raccolta di una collezione fotografica (digitale) oltre a un archivio di storie orali. L’assenza di un museo della città sarà inoltre colmata quando l’associazione di storia locale Amis d’Histoire otterrà dal Comune un proprio spazio espositivo. L’associazione è stata un partner decisivo, che ha offerto memorie e conoscenze di storia sociale e storia del lavoro.
Qual è fra gli oggetti esposti quello che esprime meglio il concetto di città multiculturale?
Mi vengono in mente due oggetti: l’orsacchiotto e lo schiacciapatate. Entrambi forniscono una prospettiva intima (femminile) sull’ondata migratoria italiana che ha lasciato un segno indelebile nella demografia e nella cultura locale. A Esch ci sono famiglie che parlano ancora italiano e ci sono molti negozi e ristoranti dove si può gustare la cucina italiana. Lo schiacciapatate mostra quanto fosse importante la cucina per gli immigrati che portavano con sé dall’Italia questo utensile. L’orsacchiotto fu acquistato da un uomo che aveva lasciato moglie e figlia in Italia per andare a lavorare in Lussemburgo; di ritorno per una breve visita, portò con sé l’orsetto per regalarlo alla bambina ma lei faticò a riconoscere il padre dopo la lunga lontananza. Poco tempo dopo, anche la madre trovò lavoro in Lussemburgo e la famiglia poté ricongiungersi. Gli oggetti prestati dai partecipanti ormai sono stati restituiti ai rispettivi proprietari tranne uno: un giocattolo di legno creato dai lavoratori coatti dell’Est Europa (Ostarbeiter) durante la Seconda guerra mondiale. Il partecipante voleva che questo curioso manufatto divenisse patrimonio della città ed è stato donato a uno dei collaboratori dell’associazione.
Quale è stato l’aspetto più difficile da gestire in tutto il percorso di co-progettazione? Avete mai pescato la “carta dell’imprevisto”?
L’aspetto più impegnativo è stato dato dal fatto che molti degli oggetti fossero pervenuti senza contestualizzazione e abbiamo avuto pochissimo tempo per preparare le descrizioni tra la votazione (che si è svolta a giugno) e l’inaugurazione della mostra (avvenuta in settembre). Non solo dovevamo verificare le informazioni, ma dovevamo richiedere (e attendere) elementi di inquadramento al comitato consultivo. Per realizzare un piccolo catalogo in tre lingue, il testo doveva essere scritto, controllato e tradotto in un mese e mezzo. Nel giro di due mesi, dunque, oltre alla progettazione e all’allestimento della mostra fisica, abbiamo dovuto curare il processo di scrittura collaborativa, il progetto grafico e la produzione dei volantini.
Nota
1 Attivista, ex direttrice museale e autrice del bestseller The Art of Relevance e del blog Museum 2.0. Of/by/for all è un approccio radicale – ideato dalla stessa Nina Simon – che intende favorire l’inclusione attraverso pratiche di empowerment della cittadinanza. In ambito museale questo orientamento prevede che le iniziative non siano solo progettate per le comunità ma contemplino il loro concreto e ampio apporto, in una condivisione di esperienze, di autorità, di responsabilità. https://www.ofbyforall.org/our-story.