In apertura: copertina del volume di Paolo Carusi e Gioachino Lanotte, Cantagiro. Storia e musica di un decennio tra tradizione e modernità (1962-1972), Firenze, Le Monnier, 2023.
L’intervista ricostruisce la storia di una delle più importanti manifestazioni canore italiane degli anni Sessanta, a partire dal volume Cantagiro. Storia e musica di un decennio tra tradizione e modernità (1962-1972) (Le Monnier, 2023). Ne parliamo con gli autori, Paolo Carusi, professore associato di Public History e Storia dei movimenti e dei partiti politici all’Università Roma Tre, e Gioachino Lanotte, docente di Storia contemporanea all’Università del Sacro Cuore. L’intervista è stata realizzata da Eloisa Betti, si ringrazia per la collaborazione Tobia Ciarrocchi.
Come è nata l’idea di scrivere un libro sul Cantagiro, c’è qualche elemento di carattere autobiografico che vi ha fatto venire questa idea, è stata la passione per la musica o altro?
CARUSI: L’idea è partita da una sollecitazione dell’editore che sta realizzando una serie di volumi su grandi tornanti e luoghi della cultura di massa. La proposta, quindi, mi è giunta direttamente da Le Monnier anche alla luce del fatto (immagino) che da vari anni mi occupo di questi temi (proprio con Le Monnier nel 2018 ho pubblicato il volume Viva l’Italia. Narrazioni e rappresentazioni della storia repubblicana nei versi dei cantautori “impegnati”). Ricevuta la proposta, l’ho accettata con un misto di gioia e di preoccupazione, poiché sono argomenti che ho studiato molto, ma senza lavorare mai specificamente sulla musica pop degli anni Sessanta. Sapevo però che il professor Lanotte è estremamente competente su questo tema; molto più di me. Gli chiesi, quindi, se fosse interessato a lavorare insieme e – ricordo bene quella conversazione – lui accettò subito di scrivere il libro a quattro mani. Aggiungo che siamo molto amici e questo influì molto sulla mia proposta: collaborare con una persona con cui si hanno rapporti di amicizia, infatti, rende sempre tutto più facile.
LANOTTE: Ringrazio Paolo per questa competenza specifica che mi attribuisce, in realtà eravamo molto vicini a questo tipo di taglio storiografico. In precedenza, io avevo già utilizzato alcuni grandi fenomeni sociali, sportivi o musicali, come metafora conoscitiva per raccontare pagine del nostro passato: ad esempio, quando il Giro d’Italia raggiunse la centesima edizione (la prima fu del 1909) avevo pubblicato un libro che utilizza la celebre “corsa rosa” come traccia luminosa per ricostruire – anche se per sommi capi – la storia dell’intero secolo. Più recentemente, con Paolo Colombo, ho scritto Azzurri, un lavoro sull’identità italiana indagata attraverso la Nazionale di calcio. A Paolo Carusi, invece, mi ero avvicinato in occasione di un lavoro collettaneo che si chiama Note Tricolori. La storia dell’Italia contemporanea nella popular music. Si è trattato di un volume rallentato a causa del Covid; abbiamo passato, quindi, quasi un paio d’anni a dialogare intorno a questi temi, trovandoci d’accordo su questo tipo di impostazione che utilizza i materiali della cultura popolare come documento storiografico. Quando Paolo ha avuto questa proposta e l’ha allargata a me, avevamo già la macchina della collaborazione ben avviata.
Qual è l’importanza del Cantagiro nella storia musicale, culturale e anche politica italiana?
CARUSI: Noi abbiamo utilizzato il Cantagiro – come diceva adesso Gioachino – come metafora dell’Italia che cambia nel corso degli anni Sessanta. La manifestazione rappresenta perfettamente un Paese avviato ad una modernizzazione rapida, molto spesso scomposta, che crea una serie di straordinarie opportunità (dalla patrimonializzazione, all’inurbamento, alla motorizzazione). Tali opportunità generarono crescita e ottimismo, ma provocarono anche tanti scompensi, tante situazioni di sofferenza e disagio. Ci è sembrato che questo concorso canoro mettesse in contatto, consapevolmente o meno, queste due dimensioni: il Paese che andava a tutto vapore verso la modernità e una società ancora in buona parte rurale, che da un lato era affascinata da questa modernizzazione impetuosa, ma dall’altro ne aveva timore, avvertiva la paura di un cambiamento che non riusciva pienamente a dominare. Il Cantagiro era uno show itinerante, pensato sul modello del giro d’Italia ciclistico, che portava la scintillante modernità a diretto contatto con le diverse realtà del Paese. Sfilando lungo l’Italia su macchine scoperte, esso realizzava una sorta di red carpet ante litteram come Gioachino lo ha definito nel libro. Tale aspetto era stato, almeno in parte, immaginato e sapientemente utilizzato da Ezio Radaelli, l’ideatore della manifestazione. La multiformità del Paese veniva recepita dal concorso anche dal punto di vista degli artisti che si esibivano: i concorrenti, infatti, andavano dagli interpreti melodici tradizionali ai teen idols dell’epoca.
Un altro aspetto estremamente interessante della manifestazione è che per la prima volta l’esibizione musicale si spogliava di certi rituali che, fino ad allora, erano stati imperanti. Il Festival di Sanremo aveva recepito il vecchio modo di esibirsi attraverso l’adozione di canoni ben precisi, a cominciare dalla gestualità e dalla mimica dei cantanti. Anche su questo piano il Cantagiro portava delle novità: ogni artista era sostanzialmente libero di presentarsi come meglio credesse da tutti i punti di vista, a cominciare dalla propria immagine (costruita sull’abbigliamento, le acconciature e l’automobile utilizzata in gara). Il fatto che il pubblico votasse la canzone preferita, determinando il risultato finale, andava poi a stravolgere i canoni del tradizionale concorso canoro e ciò, almeno fino al 1966, portò ad uno straordinario successo della manifestazione.
LANOTTE: Il Cantagiro è un’avventura musicale lunghissima che ancora adesso stanno organizzando, anche se ora è una sorta di talent con scarsissimo impatto mediatico. Ha avuto quattro o cinque diverse ere. Noi abbiamo localizzato il nostro studio negli anni 1962-1972 perché è un decennio estremamente interessante e movimentato per la musica leggera e per la storia italiana. La novità introdotta da Radaelli nel 1962 si capisce bene se si tiene conto anche del decennio precedente dal punto di vista musicale e sociale. Il Festival di Sanremo inizia nel 1951, quindi 10 anni prima. Erano stati anni di crescita incredibile sia dei fatturati nel campo musicale sia dell’incisività che la canzone progressivamente assumeva nel creare identità giovanile e senso di appartenenza. Il Festival di Sanremo, però, si chiamava, e si chiama ancora adesso, “Festival della canzone italiana”, tanto che nelle prime edizioni le esecuzioni erano affidate solo a tre o quattro artisti che avevano il compito di interpretare tutti i brani. Quindi era proprio la canzone la vera protagonista, non il cantante. Questi artisti erano degli esecutori scritturati dalla Radio grazie alle loro belle voci. In pratica, almeno all’inizio di questa avventura, erano considerati un po’ come gli speaker radiofonici che, grazie al loro talento vocale, presentavano al pubblico le composizioni. Ma nel corso del decennio – mi riferisco sempre agli anni Cinquanta – avviene una cosa importantissima: l’avvento della televisione nel 1954. Da questo momento il mondo della canzone e dello spettacolo vengono completamente rinnovati e si afferma progressivamente un connubio sempre più stretto fra canzone e volto che mette in moto un processo di “personalizzazione” dei brani e contribuisce a temprare uno dei cardini del divismo musicale nella società di massa. Il Cantagiro, come ha già detto Paolo Carusi, rispetto alle altre manifestazione non è ferma, con un pubblico che assiste, ma è il divo, il volto del protagonista che va incontro al suo pubblico in tutti i paesi d’Italia, anche nei centri minori. L’Italia fino a qualche anno prima era estremamente frammentata per lingua (con la presenza di moltissimi dialetti ancora largamente usati), per culture, per famiglie politiche, per mercato, ecc. Quindi, così come il Giro d’Italia, la carovana colorata del Cantagiro aveva anche il merito di legare, di saldare attraverso le emozioni per i divi e le loro canzoni la società italiana ancora poco coesa. E non è esagerato parlare di società perché nel 1962 i “giovani” come protagonisti sociali non si sono ancora imposti del tutto per consumi, abbigliamento e gusti musicali; ad assistere alla sfilata di divi del microfono ai lati della strada c’erano famiglie, signorine, mamme, anziani, ragazzini, c’era un po’ tutta la società italiana.
Il Cantagiro come metafora di un’Italia che cambia nell’arco di un decennio cruciale. Come nella seconda metà, soprattutto dal ’68 in poi, anche il Cantagiro si incontra e si scontra con una nuova generazione di giovani?
CARUSI: Il Cantagiro – come abbiamo già osservato – vede convivere vari modelli che sono corrispondenti a diverse tipologie di pubblico. Fino al 1967 il discrimine tra i generi musicali era poco evidente e ciò è testimoniato dal fatto che gli autori più colti (come Tenco, Endrigo e Paoli) partecipavano a tutte le grandi kermesse musicali senza temere accuse di “disimpegno” o di “commercializzazione”. Quello che emerge a partire dal 1967 è, invece, l’apertura di un gap – che diventa sempre più ampio, fino a divenire un baratro negli anni Settanta – tra la musica che vuole “dire” qualcosa (con le proprie parole e con la propria confezione musicale) e la musica che incomincia ad essere definita “leggera”. Se volessimo trovare un momento tornante di questa divaricazione, io lo individuerei all’inizio del 1967 con il suicidio di Luigi Tenco. Quell’episodio, pur fortemente ovattato dalla radio, dalla TV e dalla stampa, si dimostrò immediatamente un vero e proprio spartiacque. In breve, infatti, si realizzò una presa di distanza dai grandi concorsi canori da parte di chi intendeva fare della musica non semplicemente un prodotto commerciale ma un prodotto culturale. Molti artisti, a partire dal 1968-1969, si schiereranno su questa posizione, assumendo tre tipologie di atteggiamento: alcuni accetteranno di fare canzone “impegnata” all’interno delle grandi case discografiche (penso ai grandi cantautori come De André, Guccini o De Gregori), altri destineranno la propria produzione alle sole etichette indipendenti (mi riferisco soprattutto ai gruppi del rock alternativo), altri ancora – e qui si entra nel campo della canzone politica tout court – si spingeranno fino all’autoproduzione e alla rinuncia al deposito SIAE per eliminare qualunque dubbio relativo ad una possibile volontà di commercializzazione delle proprie composizioni.
LANOTTE: Per quanto riguarda il rapporto fra giovani e Cantagiro, i momenti all’interno del decennio 1962-1972 possono essere cristallizzati in tre tappe. La prima, va dal 1962 al 1966, quando i giovani – ad eccezione di una piccola parte già matura dal punto di vista ideologico (quelli che avevano partecipato alle rivolte del 1960, i “ragazzi dalle magliette a strisce”, ecc., per intenderci) – non sono ancora del tutto politicizzati e guardano al fenomeno Cantagiro con partecipazione e curiosità, insieme alle altre componenti della società (adulti, famiglie, ecc.). In questa prima fase, dal punto di vista dei consumi musicali, alcuni giovani all’avanguardia cominciano a guardare con interesse alle canzoni dei primi cantautori, ma queste non possono essere definite “canzoni di impegno” in senso politico, come diceva bene Paolo prima. Endrigo, Paoli, Lauzi, Tenco, ecc. portano senz’altro un indiscutibile svecchiamento del panorama discografico iniziando a scandagliare in modo più profondo le pieghe e le motivazioni dell’amore che, però, rimane quasi sempre il tema principale di quel repertorio. Luigi Tenco arriva a dire “mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”, oppure “un giorno di questi ti sposerò”, Paoli arriva a cantare una canzone bellissima come Il cielo in una stanza che sembra un brano d’amore tradizionale, ma se lo si guarda da vicino, è una canzone che lascia trasparire in modo velato qualcosa che è di rottura. Due amanti che stanno bene guardando insieme un “soffitto viola”, quindi presumibilmente in posizione orizzontale, in quella condizione estatica che – di solito – è quella successiva ad un rapporto appena consumato. Diciamo che, in modo latente, ciò suggerisce l’idea di una fisicità che prima le canzoni d’amore non raccontavano. La seconda tappa è quella del 1966-1967, quando si assiste all’irruzione del beat anche in Italia. Il Cantagiro raccoglie questo stimolo, tant’è vero che apre il girone C, espressamente destinato ai “complessi” come i Corvi, i Nomadi, gli Equipe 84, i Rokes. Ma il beat, soprattutto all’estero, fu un importante fenomeno di rottura non solo dal punto di vista musicale, basta pensare all’esperienza della rivista milanese “Mondo Beat”. Lì c’era una riflessione sulla società, una redazione che si adoperava per l’organizzazione di forme di contestazione, anche se ancora molto contenute. Il Cantagiro, invece, interpreta il fenomeno beat edulcorandolo, facendolo diventare un fatto di costume. I gruppi musicali italiani interpretano questa novità ma solo dal punto di vista estetico, dell’abbigliamento, dei messaggi genericamente lanciati da canzoni che iniziano ad introdurre nei testi una coscienza di appartenenza generazionale: il “noi” invece dell’“io” (“che colpa abbiamo noi”, “noi non siamo come voi”, “come potete giudicar”). Un terzo segmento di quel decennio, invece, va dal 1968 al 1972 quando il rapporto fra giovani e Cantagiro rispecchia la politicizzazione che avviene nelle piazze e nelle strade in quel periodo; il rapporto giovani-Cantagiro inizia così a diventare molto più critico con contestazioni alla manifestazione, anche eclatanti, episodi di cui abbiamo dato conto nel nostro libro. In quell’ultima fase, quindi, il Cantagiro perde la sua aderenza sociale e il mondo giovanile perde interesse per la manifestazione rivolgendo la sua attenzione ad altre produzioni che riflettono maggiormente sensibilità e gusti molto cambiati.
Qual è il rapporto tra Cantagiro e Pci e come cambia la concezione della musica leggera del Partito comunista di fronte ai cambiamenti degli anni Sessanta?
CARUSI: Mi è sembrato particolarmente interessante soffermarmi su questo aspetto perché il Cantagiro prende piede nella fase in cui il Partito comunista si sta interrogando sul proprio rapporto con i fenomeni di massa. Sono proprio gli anni in cui Umberto Eco pone questo problema in modo aperto e, cioè, chiama il partito ad uno svecchiamento della propria concezione. Sostanzialmente il Pci, fino a quel momento, si era orientato su una politica musicale legata alla “musica pedagogica” e cioè a tutte quelle composizioni che potessero rivelarsi istruttive per i propri militanti. Il partito, dunque, attingeva largamente ai canti popolari, di lavoro o della Resistenza. Comprendendo, però, che in determinate situazioni il popolo avvertiva il desiderio di un semplice intrattenimento, il partito prese l’abitudine di coinvolgere nelle sue manifestazioni grandi nomi della musica leggera. Questi venivano selezionati in base ad un duplice criterio: da un lato dovevano essere cantanti tipicamente tradizionali (cioè non influenzati dalle “pericolose” mode di oltreoceano), dall’altro dovevano assicurare una “corretta” collocazione politica. Esempi paradigmatici sono, in tal senso, Claudio Villa e l’ex operaia Tonina Torrielli. Di fronte all’allargamento e alla diffusione dei consumi giovanili (a cominciare da quelli musicali), però, il partito non poteva restare indifferente ed avviava una lenta e difficoltosa evoluzione. Su tale evoluzione il Cantagiro giocò un ruolo molto interessante: nel momento in cui il partito era ancora profondamente restio ad accettare pienamente le logiche dello show business (e cioè il fatto stesso che la canzone potesse essere un prodotto culturale da vendere), il Cantagiro apparve al Pci una accettabile via di compromesso. Esso, infatti, pur ascrivendosi pienamente allo show business, si sottraeva alla concezione borghese dei grandi concorsi canori e adottava una formula “popolare” che prevedeva che il pubblico fosse il giudice unico delle sorti della competizione. In virtù di questo larvato apprezzamento da parte del partito, dunque, “l’Unità” decideva di destinare un inviato speciale alla manifestazione, fatto che già di per sé costituiva un passo molto rilevante. Questo inviato venne prima individuato in un critico musicale strettamente legato alla visione comunista degli anni precedenti (uno studioso di canto sociale e canto politico), ma già dall’anno successivo veniva scelto uno studioso di pop e di jazz, un uomo cioè pienamente calato nel mood, nelle mode e nelle tendenze del tempo. Questo inviato, oltre ad occuparsi della cronaca del concorso, cominciò presto a raccontare tutto ciò che ruotava intorno alla manifestazione, concedendo particolare enfasi alla partecipazione popolare e al subdolo ruolo delle grandi case discografiche, impegnate nella manipolazione del voto del pubblico. La genuina dimensione popolare, dunque, veniva messa al centro della narrazione e il quotidiano si manterrà benevolo verso la manifestazione fino alla fine del decennio, difendendo apertamente le scelte operate dal patron Radaelli, tra le quali quella (molto controversa) di abolire la classifica finale all’indomani del suicidio di Tenco (uccisosi proprio per contestare la classifica del Festival di Sanremo del 1967).
Il Cantagiro italiano conosce negli anni Sessanta una fortunata internazionalizzazione ed europeizzazione, quali sono i passaggi cruciali?
CARUSI: Nel 1965 Radaelli riuscì, con un lavoro diplomatico di cui purtroppo non abbiamo testimonianze dirette, a portare il Cantagiro a Mosca. E di ciò, riallacciandomi al discorso precedente, si compiacque vivamente “l’Unità”, lieta del fatto che la prima manifestazione canora occidentale a varcare la cortina di ferro fosse quella che più coraggiosamente aveva puntato sulla dimensione popolare. Chi leggerà il libro scoprirà, però, che lo “sbarco” oltre cortina si sarebbe rivelato un boomerang per il sistema comunista, in quanto ne avrebbe evidenziato le stridenti contraddizioni. In breve, posso accennare al fatto che l’organizzazione sovietica pretese una serie di modifiche al regolamento della kermesse, tra le quali l’imposizione di una giuria al posto del voto popolare. I ragazzi moscoviti non solo conoscevano bene la musica italiana (nonostante la commercializzazione dei vinili non fosse libera in Unione Sovietica), ma addirittura mostravano di conoscere a perfezione i meccanismi del Cantagiro. Essi sapevano, dunque, che in Italia la manifestazione prevedeva il voto popolare e quella sera inscenarono una vera e propria contestazione, ribellandosi al voto della giuria (che aveva premiato un tradizionale interprete della canzone napoletana). Il pubblico, dunque, tra lo stupore degli organizzatori, espresse a viva voce il proprio voto in favore di Rita Pavone e pretese che questa cantasse una seconda volta il suo brano. Questo, come si può immaginare, generò non poco imbarazzo nel cronista de “l’Unità”, il quale stese un velo sulla questione nel suo resoconto per il quotidiano. Sta di fatto, però, che quella serata era andata in onda in tutti i Paesi del blocco comunista, creando un “caso” clamoroso in virtù del quale la trasferta del Cantagiro in Unione Sovietica non si sarebbe mai più ripetuta.
LANOTTE: L’esperienza di Mosca, di cui parlava Paolo Carusi, e il Canta Europa sono in qualche modo connesse. Dal punto di vista cronologico, la prima avviene nel 1965 e il tentativo del Canta Europa è, in un certo senso, una sua estensione nell’anno successivo. Nelle intenzioni di Radaelli, in fondo, c’era il tentativo di esportare la canzone italiana a livello europeo, non solo oltre cortina; nel Canta Europa, infatti, ci sono tante capitali europee, insieme ad alcune città dell’Est. Il motivo per cui l’esperienza finisce è la mancanza di un ritorno dal punto di vista economico, cioè la “spesa non valeva la resa” dal punto di vista discografico e dei fatturati; quindi, rimase una breve avventura. Tuttavia, rispetto al famosissimo Festival song contest, che cominciò qualche anno prima e dura tuttora, il Canta Europa aveva delle specificità interessanti. La differenza tra queste due manifestazioni era abissale e il confronto porta alla luce i non pochi meriti del tentativo di Radaelli. Mentre l’Eurofestival è solo una grande manifestazione, nei primi anni solamente discografica e ora principalmente televisiva, il tentativo del Canta Europa prevedeva un vero incontro tra le diverse culture. C’era uno sforzo di costruzione di una cultura europea condivisa all’insegna della canzone. Per diversi motivi. Nella serata che si svolgeva nella capitale in questione si incontravano, sul palco, artisti italiani e interpreti locali; lo show era preceduto da un incontro fra la stampa e i giornalisti di ambedue i Paesi; vi erano anche altre manifestazioni connesse, per esempio esposizioni d’arte. Quindi, se pensiamo che l’esperienza risale a oltre cinquant’anni fa, il Canta Europa di Radaelli avrebbe potuto contribuire a suo modo a costruire quello che ancora oggi tanto ci manca, cioè la costruzione di un’identità comune di cittadini del Vecchio Continente, a fronte di una Unione Europea indiscutibilmente attiva, invece, sotto altri profili, come ad esempio quello economico.
Il volume che avete scritto ha la potenzialità di raggiungere un pubblico più ampio, che ruolo hanno avuto le metodologie della public history nella vostra riflessione e nella concezione del volume?
CARUSI: La public history ha alcune caratteristiche di massima verso le quali la comunità dei public historians dovrebbe tendere, ma ovviamente non sempre lo studioso riesce ad adeguarsi ai principali canoni prescritti dalla disciplina: la partecipazione del pubblico, il coinvolgimento attivo delle comunità, la restituzione finale del lavoro. Al di là degli studi che rispettano specificamente questi canoni, però, esistono alcuni temi e alcune metodologie di lavoro dello storico “tradizionale” che possono in parte ascriversi al discorso della public history. Fare una storiografia che, nel rispetto dei criteri della scientificità, miri a raggiungere un pubblico più ampio, spingendolo a leggere i fenomeni politico-sociali attraverso grandi avvenimenti di costume, sociali e di massa, è uno di questi casi. Il taglio da noi adottato per questo volume è esattamente questo: una storia che rispetti il rigore epistemologico, ma che per argomento e canone narrativo (che abbiamo elaborato attraverso una scrittura e un apparato di note non particolarmente pesante) possa raggiungere un pubblico più ampio. Vedremo quale sarà la risposta dei lettori, però siamo già assai contenti di alcuni riscontri positivi ricevuti da amici e colleghi; uno dei maggiori musicologi italiani, Paolo Prato, ci ha “reso l’onore delle armi” dicendoci che noi storici siamo arrivati a ciò che ai musicologi non è riuscito: coniugare pienamente, cioè, il campo della società e della politica con il prodotto musicale. Siamo fiduciosi che quello che abbiamo fatto possa avere riscontro in un lettore non strettamente accademico. Poi ce lo diranno i dati delle vendite. Fa quasi sorridere parlare di vendite per un libro di storia; però anche un piccolo segnale in tal senso sarà dal nostro punto di vista estremamente significativo.
Cosa resta oggi del Cantagiro? Quali memorie, rappresentazioni e narrazioni?
LANOTTE: Nel libro abbiamo delle narrazioni coeve, radio e televisione, che raccontano in diretta le edizioni di quel decennio; uno sguardo retrospettivo che viene fatto da narrazioni posteriori; e, infine, narrazioni attraverso la memoria. Dalle narrazioni coeve sono emerse cose molto interessanti, in particolare dalle trasmissioni televisive: una di Ugo Gregoretti, che era un osservatore della realtà impagabile e anche simpatico, e un’altra di Enzo Biagi. È stato bello scoprire come questo taglio più documentaristico tenesse conto di quello che era stato impostato in Francia con il reportage Chronique d’un été di Jean Rouch ed Edgar Morin che, a sua volta, stimolò i famosi Comizi d’amore di Pasolini, il quale girò l’Italia, dalle Alpi alla Sicilia, intervistando la gente sul tema della sessualità. Gregoretti, lo fa mischiandosi a queste ali di folla ai lati delle strade interpellando le persone sul tema del divismo.
Sulle narrazioni successive ci sono dei romanzi che hanno come oggetto il Cantagiro, un paio soprattutto che io ho utilizzato: uno è Il lato A della vita, cioè il racconto di un autore che all’epoca era giornalista e seguiva la carovana su una di queste ammiraglie. Da quel lavoro emergono cose un po’ colorite, come le ragazze che saltavano dentro le macchine dei cantanti. Quindi in questa seconda dimensione il Cantagiro viene visto per quello che ci possiamo aspettare, cioè un’epopea molto colorata come del resto tutti i “rutilanti” anni Sessanta.
Più interessante quello che fa invece De Gregori nel suo brano Omero al Cantagiro che parte da una sua esperienza personale: scopriamo sorprendentemente che il “Principe” impazziva per Gianni Morandi o per questi cantanti più tradizionali rispetto a quello che poi lui avrebbe fatto e avrebbe dato al mondo della canzone d’autore. Non a caso il brano viene ambientato in una giornata di pioggia martellante e quindi questi cantanti, questi Omero del loro tempo, in realtà vengono restituiti in un aspetto che finisce per essere in contraddizione con la lettura degli anni Sessanta di cui sopra, il lato oscuro e stridente di quel decennio non sempre colorato di repentine trasformazioni. Poi un’altra narrazione retrospettiva, anche un po’ inquietante è quella che ho ripreso da una blogger veneta, Giulia Depentor, che nel podcast Gli incidenti del Cantagiro si è occupata di scandagliare tutti gli incidenti del Cantagiro, alcuni anche molto gravi e tragici: morti, persone incolpevoli che furono investite dalle automobili dei cantanti. Infine, l’altra dimensione è quella della memoria che poteva essere affidata solo ai diretti protagonisti del tempo, quindi ho intervistato quattro cantanti. Lì non è stato facile perché si tratta di personaggi scarsamente interessati alla storia; quindi, portarli sul tema della “memoria” per loro voleva dire semplicemente ricordarsi piacevoli aneddoti relativi agli anni del loro successo. Il lavoro sulla memoria, quindi, è stato più mio che loro: si è trattato di scandagliare quegli aneddoti provando a vedere cosa rimaneva impigliato, anche in modo involontario, in quelle interviste cercando di dare un carattere storiografico ai loro ricordi. Un esempio banale, importare le ragazze che seguono la carovana per avere avventure occasionali con i loro divi all’interno delle coordinate di un mondo che stava cambiando dal punto di vista del costume e del protagonismo femminile. Piccole trasposizioni di questo tipo dalle memorie personali al banco di lavoro dello storico.