La narrazione museale della civiltà contadina in un territorio di confine

The museological storytelling of rural civilisation in a border region

In apertura: sala dell’agricoltura del Museo Etnografico Trentino di San Michele all’Adige (Museo Etnografico Trentino di San Michele).

Dagli anni Sessanta e Settanta, come nel resto del territorio nazionale, le istituzioni e i musei dedicati alla civiltà contadina si sono diffusi in Trentino-Alto Adige/Südtirol; nonostante ciò, lo stato dell’arte è carente, in merito allo studio di questo tipo di collezioni della zona di confine: mancano difatti ricerche, d’impostazione regionale, di natura museografica e museologica. In questa sede si analizzeranno le due organizzazioni principali, per risorse e per storia, ovvero il METS (Museo Etnografico di San Michele all’Adige) e il Museo Provinciale degli Usi e Costumi di Teodone; dopo aver approfondito la vicenda fascista, ogni istituzione verrà considerata singolarmente, e poi si attuerà una comparazione tra le due, mantenendo una prospettiva di analisi museografica e museologica. Lo scopo dell’elaborato è fornire un caso di studio in grado di documentare il cambiamento della rappresentazione dell’oggetto, ovvero la civiltà contadina locale, all’interno di due istituzioni museali di province contermini, con le opportune differenziazioni tra di esse e di queste ultime con il contesto nazionale. Per raggiungere questo obiettivo si sono consultati, principalmente, i cataloghi, le guide museali e gli scritti dei coevi.

1. Le origini della museografia di confine

Trattare di usi e costumi rurali in un territorio di confine vuol dire confrontarsi inevitabilmente con le direttive fasciste, che si imposero sulle pratiche museali: difatti le prime collezioni locali dedicate al folklore furono oggetto di interesse da parte del regime, in quell’ottica che dava peso alla negazione dell’autonomia culturale locale, fino a pochi anni prima storicamente fondata. L’obiettivo fascista si raggiunse, per la provincia di Trento, in sinergia con l’irredentismo, attraverso le iniziative di Giuseppe Gerola ed Ezio Mosna volte a consolidare le collezioni folcloriche locali, all’interno di una retorica nazionale1. In Sudtirolo, occorse un’appropriazione culturale: i documenti e le testimonianze della tradizione contadina locale tedescofona, raccolti nella collezione del Museo Civico di Bolzano, nata a fine Ottocento, vennero assurti a prove dell’italianità del territorio2. Queste specifiche servono a comprendere meglio l’orizzonte scientifico in cui si sarebbero iscritti, successivamente, gli interventi museografici provinciali: in entrambi i contesti le motivazioni politiche del regime ebbero la meglio, a lungo, nell’elaborazione e nella conservazione dei prodotti della civiltà contadina locale, percepiti come parte di una cultura più ampia, quella italiana, non riconoscendone le specificità storiche.

2. Da un museo della tecnica ad un museo trentino

Il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, oggi METS, collocato all’interno del vecchio convento agostiniano, sorse nel 1968 dalla volontà di uno studioso eclettico, di origine boema, Giuseppe Šebesta3. Egli concepì un museo frutto di un collezionismo spontaneo ed autonomo, dedicato alla ergologia, un laboratorio in cui esporre le evoluzioni tecniche della civiltà umana contadina, fondando il suo metodo sulla pratica tassonomica-positivista e comparativa, e prendendo come campione di riferimento i manufatti conservati anche nel territorio trentino. L’impostazione dello studioso si fondava sulla sua formazione tecnica e sulla vicinanza alla scuola storico-culturale, professante il diffusionismo culturale, che anelava ad una comparazione diacronica su macroaree. Nel contesto della nuova Autonomia il Museo diverrà la risposta museografica ed istituzionale al fascismo: quello che era stato progettato in qualità di luogo in cui rappresentare l’evoluzione della tecnicità umana, dove il Trentino risultava un territorio di riferimento, ma non esclusivo, si configurerà anche come un esempio dell’autonomia culturale della popolazione trentina in specie4.

La prima resa museografica documentata, come dimostra il catalogo del 1978, univa il prescritto politico e l’impostazione di Šebesta: le pareti solamente intonacate e le poche didascalie mettevano in evidenza i manufatti esposti seguendo una linea evolutiva, dalla preistoria in poi, in base alla loro complessità di lavorazione, accanto a foto e disegni essenziali per ricostruire la manualità dietro l’oggetto; vi era l’ideazione di una narrazione museale chiara e dinamica, dove la tassonomia diventava spazio, sotto la logica dei “canali chiusi”. Questi ultimi erano intesi come percorsi stabiliti dal curatore atti a raggruppare diversi oggetti facenti parte della medesima esperienza tecnologica umana ed ordinati per evoluzione logica e cronologica, sempre con il criterio guida dell’ergologia. Secondo questa impostazione nel “canale chiuso molinologia” si trovavano tutti i manufatti che potevano essere associati all’idea di mulino: pestini, varie tipologie di mulini, falciole nella loro evoluzione tecnica. La popolazione trentina, in questa resa, rimane spesso ai margini a favore dei manufatti, accanto al quasi totale disinteresse per gli elementi immateriali della cultura. Il progetto dell’Autonomia in parte cozzava con le intenzioni di Šebesta: non potendo estendere la sua area di riferimento, per volontà politica, il curatore dovette limitarsi ai prodotti rintracciabili in Trentino, riducendo sensibilmente l’ottica comparativa. Il Museo, tuttavia, rispetto alle direttive del regime cercava di ri-conferire l’autonomia culturale al territorio provinciale5. Quello che oggi si può vedere a San Michele è diverso dall’esposizione di Šebesta. Giovanni Kezich, etnografo di professione, aderì pienamente ai presupposti politici dell’Autonomia, in qualità di nuovo direttore dagli anni Novanta: si ammetteva la scomparsa del “Trentino” di Šebesta, simbolo della cultura tecnica umana, a favore di un “Trentino” storicamente omogeneo, essendo mutata la società di riferimento.

La conseguente resa museografica ha conosciuto l’eliminazione dell’elemento universalistico precedente, come i manufatti preistorici ed antichi, e il ridimensionamento della tecnologia, inquadrata in brevi didascalie, a favore della contestualizzazione dei prodotti culturali materiali ed immateriali trentini, dando la prevalenza alla profondità socio-ambientale e storica. La tassonomia divenuta spazio rimane, anche se cambiano i criteri: i “canali chiusi” scompaiono a favore di un approccio tematico. La prospettiva diacronica si va a situare spesso attorno all’ambiente di lavorazione e non nell’analisi dell’oggetto, che rimane autonomo, come comparsa. Kezich optando per la contestualizzazione dei prodotti culturali ha sostenuto la resa ambientale degli scenari di riferimento: per la fucina si è cercato di ricostruire spazialmente il lavoro del fabbro, con manufatti annessi. La rappresentazione tramite diorama e cornici artificiali serve per dare un senso agli oggetti agli occhi del fruitore, non più in grado di ricostruirne il contesto originario. Una scelta consapevole voluta dal Kezich nel tentativo, non solo di adottare una museografia più agile, ma anche più vicina a quelle che sono oggi le esigenze didattiche del Museo. L’aspetto immateriale della cultura popolare, riti e devozione, compaiono per la prima volta a San Michele. Altre parti, ora approfondite, risultano saggi di storia economica, come l’analisi sulla zootecnica. Nel tentativo di creare un rapporto profondo con il territorio, si è consentita l’eliminazione della sala dei minatori, percepita come facente parte di una cultura estranea a quella locale6.

In sintesi, la civiltà contadina trentina ha subito diverse riconfigurazioni a livello museologico e museografico: da civiltà rurale meccanica astorica, essa è oramai rappresentata come una civiltà omogenea storicizzata, a discapito delle specificità delle singole valli, che vengono spesso obliterate, sotto la nuova curatela di Kezich.

3. Teodone: l’arrivo di un’altra proposta museografica di confine

Il Museo provinciale degli usi e costumi di Teodone nacque pochi anni dopo rispetto al suo omologo trentino, riprendendone i medesimi principi7, andando a situarsi proprio dove sorgeva la scuola agraria di Teodone, luogo della tecnocrazia fascista8. Pur essendo simile l’origine, il Museo veniva a connotarsi per una diversa impostazione di base del lavoro scientifico: difatti il curatore Hans Griessmair, etnologo dell’Università di Innsbruck, come si può dedurre nei suoi vari scritti, inquadrò il Museo in un’ottica di difesa della minoranza tedescofona, principalmente impiegata nel settore primario, percepita come minacciata dalle influenze esterne. Lo studioso pusterese, a causa della sua precedente formazione come germanista, considerava la lingua espressione massima della cultura: in ragione di ciò si sosteneva l’omogeneità della società (sud)tirolese, ricalcando la tradizione demologica dell’Università di Innsbruck. Questa visione doveva, in Griessmair, confrontarsi con la sua rappresentazione sinergica tra folklore e sociologia: dal folklore riprendeva lo studio totalizzante del comportamento dell’individuo nella comunità, anche nel suo aspetto immateriale, dalla sociologia la ricerca sui gruppi all’interno della medesima comunità. Di conseguenza, il Griessmair concepiva la società (sud)tirolese come unitaria, dal punto di vista culturale, nella differenza economica.

La resa museografica, conseguentemente, si concretizza in un Museo che si sviluppa in due parti, divise visivamente da un giardino barocco: una parte all’aperto, nella quale vengono ricostruiti gli edifici rustici dell’area sudtirolese, con le diverse caratterizzazioni in base al benessere economico di ciascun gruppo contadino; una seconda parte dedicata formalmente al ceto nobiliare, nel complesso Mair am Hof. Si reifica la visione di Griessmair: unità nella differenza. Il museo offre, nell’area all’aperto, la possibilità di immergersi fisicamente nel contesto culturale ricostruito nel dettaglio, grazie alla libertà consentita al visitatore di accedere autonomamente agli edifici; nella parte al chiuso invece sono presenti oltre agli oggetti nobiliari, anche tutto ciò che non era ricollocabile negli edifici rustici, dai manufatti di devozione popolare ai dipinti, accanto ad una contestualizzazione sociale e storica approfondita. La posizione volta alla preservazione della cultura locale si nota nell’obliterazione di tutti gli elementi non autoctoni, che riguardavano le emigrazioni di mestiere, le influenze con le comunità vicine e le fusioni culturali. Il Museo sembra racchiudere al suo interno differenti modalità museografiche: la più tradizionale interazione bidimensionale, dove le didascalie abbondano assieme alle vetrine, come la sala dedicata alla devozione domestica; la narrazione multimediale, con diorama e supporti tecnologici, e quella più moderna nell’area aperta, fondata sulla libera interazione con gli items senza informazioni di corredo, tranne che nei siti dedicati all’artigianato9.

Il Museo, in sostanza, offre due idee di una civiltà contadina: da una parte una autonoma e autosufficiente, fulcro dell’identità sudtirolese, rappresentata dagli edifici rustici indipendenti nell’area all’aperto; dall’altra una civiltà in rapporto con la comunità nobiliare locale, attraverso una commistione di oggetti di diversa origine. Si ridà, in entrambi i casi, soggettività e spessore storico al ceto contadino.

4. Comparazioni

Kezich tentò di delineare in poche battute le differenze tra il museo di Šebesta e quello di Teodone: uno estremamente analitico, tecnico, in cui la civiltà contadina trentina rimaneva sullo sfondo, l’altro esclusivamente focalizzato sulla cultura locale. Questa differenziazione non si può considerare più valida, almeno dall’arrivo di Kezich in poi, il quale ha ripreso il principio della contestualizzazione storico sociale ed economica da Teodone.

La museografia è «una pratica di scrittura finalizzata alla rappresentazione culturale»10, in cui si palesano visitatore e curatore, che offrono un proprio punto di vista, di conseguenza la rappresentazione idealmente dice tanto dell’opera, che del contesto sociale. Qui sorge la prima differenziazione: da una parte un museo che poco ha dialogato con la comunità territoriale di riferimento, dall’altra il caso di San Michele e i considerevoli sforzi, anche posti a livello progettuale in passato, attraverso l’Itinerario etnografico trentino. Quest’ultimo, coordinato fino a pochi anni orsono dal Museo, è consistito nella selezione sul territorio di edifici della cultura agrosilvopastorale e nell’approntamento delle didascalie relative: una musealità diffusa, una narrazione museografica delocalizzata, in grado di collocare i diversi manufatti all’interno del contesto ambientale originale, di ricostruire virtuosamente e verosimilmente, anche tramite dimostrazioni in loco, il sistema sociale ed economico, garantendo alla stessa istituzione la possibilità di poter superare i propri limiti fisici, rafforzando il legame tra comunità e collezione. Al di là della resa museografica, l’impegno a livello scientifico-editoriale del Museo di San Michele e la nuova denominazione di quest’ultimo testimoniano questo aspetto11. Viceversa, il museo di Teodone ha fornito un’ambientazione quasi bucolica in cui collocare gli edifici rustici, di conseguenza, ne risente la libertà del fruitore nella rielaborazione del racconto12. La seconda differenza consiste nel fatto che all’interno della sede trentina si cerca di definire il ceto contadino locale in maniera omogenea, tramite un percorso museale che scandisce le varie attività ad esso legate, mentre in Teodone questa complessità si viene a perdere a favore della dicotomia spaziale. La conseguenza di questi diversi modi di porsi nei confronti del visitatore sono le differenti percezioni che si danno della civiltà contadina di riferimento: da una parte viva e vissuta, dall’altra più idealizzata13.

Queste due esperienze rispetto al contesto museale nazionale non erano riconducibili ad iniziative legate al fenomeno del folk revival degli anni Sessanta e Settanta del Novecento: sicuramente una motivazione che si adduce al differenziamento tra questo movimento nazionale e quello di confine risiede nelle influenze del fascismo, come sopradetto, e, di conseguenza, nell’immediato inquadramento delle due operazioni museali in un piano politico autonomistico ampio. Sul piano museografico, si nota anche la distanza culturale dei due padri fondatori dal contesto nazionale: entrambi avevano alle spalle una tradizione volta alla valorizzazione delle raccolte di cultura materiale già dal Ventennio, come il lavoro del Mosna, nel medesimo momento in cui il regime si interessava principalmente alla cultura immateriale, festiva; da qui anche i forti interessi comuni di entrambi per l’ambito della tecnica e lo scarso interesse per impostazioni teoriche. Alberto Maria Cirese, illustre teorico della museografia nazionale, non accettava né musei all’aperto come quello di Teodone né il tentativo di Šebesta di salvare una realtà derelitta tramite la rappresentazione della vita nel museo. In entrambi, in contrapposizione a Cirese, si esprimeva l’esigenza di tutelare un passato come fonte d’identità per l’oggi. Šebesta, inoltre, cancellava l’impronta marxista dello stesso studioso abruzzese14. Questo, in sintesi, il connotato della museografia di confine: un modo di narrare che nasce autonomo, su basi storiche determinate, e con differenziazioni interne che meriterebbero un approfondimento ulteriore.


Note

1 Ezio Mosna, Per la creazione di un Museo Folcloristico delle Alpi italiane, in “Le Vie d’Italia”, 1937, vol. XLIII, n. 12, pp. 849-857; Paola Antolini, Ideale politico, narrazione museale e turismo, in “Archivio trentino”, 2019, n. 1, pp. 15-41; Giovanni Kezich, Anmerkungen zum Museumwesen in Tirol, in “Der Schlern”, 2003, n. 11/12, pp. 55-59.

2 Gino Massano, Squarci di vita alto-atesina nel museo di Bolzano, in “Le Vie d’Italia”, 1934, vol. XL, n. 8, pp. 607-619.

3 Biblioteca Comunale di Trento (a cura di), Per Giuseppe Šebesta. Scritti e nota bio-bibliografica per il settantesimo compleanno, Trento, 1989, pp. 17-19.

4 All’art. 1 dello Statuto, riportato in allegato con la legge, si delinea l’obiettivo politico del Museo, ovvero «promuovere ed aiutare la propaganda per la conservazione degli usi, costumi e tecnologie che sono patrimonio della popolazione della gente trentina». Si veda legge provinciale del 31 gennaio 1972, n. 1, riportata in “Bollettino Ufficiale della Regione Trentino-Alto Adige” dell’8 febbraio 1972, n. 7. Giuseppe Šebesta, In forma di Museo. Il film dei primi anni nei ricordi del fondatore, San Michele all’Adige, MUCGT, 1998.

5 Giuseppe Šebesta, Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, S. Michele all’Adige, MUCGT, 1978; Giovanni Battista Bronzini, L’avventura etnomuseografia di Giuseppe Šebesta, in “Lares”, 1992, n. 4, pp. 499-513; Giuseppe Šebesta, Scritti etnografici, San Michele all’Adige, MUCGT, 1991, pp. 50-100/233-249; Johnny Gadler, Il museo etnografico secondo Šebesta, in “SM. Annali di San Michele”, 2007, n. 20, pp. 147-151.

6 Giovanni Kezich, Il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina e l’opera di Giuseppe Šebesta, in “SM. Annali di San Michele”, 1994, n. 7, pp. 71-80; Id., Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina. Nuova guida illustrata, San Michele all’Adige, MUCGT, 2009; Gaetano Forni, Fare il museo è men che niente, se il museo fatto non rifarà la gente, in “SM. Annali di San Michele”, 2007, n. 20, pp. 161-188.

7 Lo Statuto patrocinava l’importante funzione di «promuovere ed aiutare la propaganda per la conservazione degli usi, costumi e tecnologie che sono patrimonio della popolazione della provincia di Bolzano», rifacendosi al medesimo ruolo rivestito dal Museo omologo trentino. Per la legge provinciale del 16 agosto 1976, n. 28 si veda “Bollettino Ufficiale della Regione Trentino-Alto Adige” del 31 agosto 1976, n. 37.

8 Arturo Marescalchi, Una fucina di buoni agricoltori e brave massaie. La scuola agraria di Teodone, in “Atesia Augusta”, 1940, vol. II, n. 3, pp. 53-55.

9 Hans Griessmair, Volkskunde und Sozialwissenschaft, in “Sonderdruck aus “Der Schlern”, 1969, n. 43, pp. 243-260; Id., Ein Museum für Volkskunde in Südtirol, in “Sonderdruck aus “Der Schlern”, 1970, n. 44, pp. 173-178; Id., Der Tiroler Volkscharakter, in “Sonderdruck aus “Der Schlern”, 1971, n. 45, pp. 3-24; Id., Das Südtiroler Landesmuseum für Volkskunde. Eine Chronik von den Anfängen bis Ende 2003. Zugleich ein Stück Lebensgeschichte, Bressanone, Digiraldruck A. Weger, 2014; Id., Bewahrte Volkskultur. Führer durch das Volkskundemuseum in Dietenheim, Dietenheim, Südtiroler Landesmuseum für Volkskunde, 2013; Reinhard Johler, Alla ricerca dei confini nazionali nelle Alpi. Il contributo della demologia, in “SM. Annali di San Michele”, 1993, n. 6, pp, 267-278.

10 Vito Lattanzi, Musei e antropologia. Storia, esperienze e prospettive, Roma, Carocci, 2021, pp. 38-44.

11 Decreto provinciale del 21 febbraio 2023, n. 4-80 in “Bollettino Ufficiale della Regione Trentino-Alto Adige” del 23 febbraio 2023, n. 8.

12 Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina (a cura di), Itinerario etnografico trentino. Un contributo al progetto identità, San Michele all’Adige, MUCGT, 1995; Antonella Mott (a cura di), Itinerari etnografici in Trentino. Guida ai luoghi della memoria e della tradizione, Chiari, Nordpress, 2008.

13 Si veda Giovanni Kezich, Il “Seminario Permanente di Etnografia Alpina” (S.P.E.A.) presso il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, in “Geschichte und Region/Storia e Regione”, 1992, n. 1, pp. 139-141.

14 Šebesta, Scritti etnografici, cit., pp. 224-233; Griessmair, Ein Museum für Volkskunde in Südtirol, cit.; Roberto Togni, La lezione museografica e umana di Giuseppe Šebesta, in “SM. Annali di San Michele”, 2007, n. 20, pp. 133-139; Alberto Maria Cirese, Oggetti, segni musei. Sulle tradizioni contadine, Torino, Einaudi, 1977, pp. 9-12; 37-56; Kezich, Anmerkungen zum Museumwesen in Tirol, cit.; Fabio Dei, Pietro Meloni, Antropologia della cultura materiale, Roma, Carocci, 2015, pp. 20-24; 44-51.