La scienza in una prospettiva di genere: una riflessione a partire dal “Frankenstein” di Mary Shelley

Science in a gender perspective: a reflection from Mary Shelley’s “Frankenstein”

In apertura: copertina del volume Vita e visioni. Mary Shelley e noi, a cura di Vittorina Maestroni e Thomas Casadei, con un graphic novel di Claudia Leonardi, Modena, Mucchi, 2023.

1. Mary Shelley e il suo alter ego: Victor Frankenstein

Quando nel 1818 viene pubblicato per la prima volta, in forma anonima, il Frankenstein, or The Modern Prometheus di Mary Shelley (1797-1851)1, per i lettori e le lettrici dell’epoca è arduo, se non impossibile, pensare che il romanzo possa essere stato concepito dalla mente di una donna, per di più non ancora ventenne. Il pregiudizio è, peraltro, generato dal fatto che la prima edizione del romanzo porta l’introduzione del poeta inglese Percy Bysshe Shelley (1792-1822), cui Mary è legata more uxorio dal 1814 e che ha sposato nel 1816, al quale l’opera viene fin da subito attribuita.

In seguito l’autrice rimetterà mano al testo che sarà dato alle stampe (in un unico volume) a Londra nel 1831. In questa edizione ella antepone una prefazione in cui narra delle circostanze in cui il romanzo ha preso vita: quell’«estate senza sole» del 1816 in cui gli Shelley, insieme alla sorellastra di Mary, Claire Clairmont, sono ospiti di George Gordon Noel Byron, VI barone di Byron, meglio noto come Lord Byron (1788-1824) a Villa Diodati nei pressi del villaggio svizzero di Cologny. Fuga così ogni dubbio sull’identità dell’autrice. Scrivere – e, dunque, conoscere – degli esperimenti condotti dal medico e naturalista britannico Erasmus Darwin (1731-1802) sulla possibilità di rianimare la materia morta, dal fisico e anatomista bolognese Luigi Galvani (1737-1798) sull’“elettricità animale” e, ancora, dal medico Andrea Vaccà Berlinghieri (1772-1826) (che i coniugi Shelley incontrano a Pisa) su cadaveri ed elettricità, nonché degli studi del filosofo naturale inglese James Lind (1736-1812) sull’applicazione dell’elettricità in medicina, è senza dubbio frutto di un’educazione privilegiata, “eccentrica” e inusuale per una giovane del tempo, ma anche di vivacissima e innata curiosità. Peraltro, a una lettura meno superficiale del romanzo, pare che, attraverso la sua scrittura, ella voglia ingenerare una riflessione sui progressi della scienza e, al contempo, sui rischi che possono essere connessi ad essi qualora non se ne riesca a mantenere il controllo. Mostra, in definitiva, i due lati della stessa medaglia: quello razionale e positivo e, per questo, giovevole all’umanità; e quello oscuro e imponderabile e, per questo, “demoniaco”, nefasto. La lettura (o, meglio, la rilettura) delle pagine del Frankenstein induce a interrogarci su quale sia stato il rapporto fra le donne e la scienza nelle diverse epoche e quale l’effettivo apporto che esse hanno portato al progresso dei saperi scientifici. Il presente contributo prende le mosse dalla recente pubblicazione di un volume dedicato a Mary Shelley, Vita e visioni. Mary Shelley e noi a cura di Vittorina Maestroni e Thomas Casadei con un graphic novel di Claudia Leonardi2, sulla scia di un precedente volume su Olympe de Gouges (1748-1793)3. Come per de Gouges, così per Shelley si intende restituire una ricostruzione storica di queste figure femminili in chiave didattica ma anche di public history4.

2. Da “dilettanti” a professioniste

Solo in anni relativamente recenti, grazie agli studi di genere avviati a partire dagli anni Settanta del Novecento, in concomitanza con l’affermarsi dei movimenti femministi negli Stati Uniti e in Europa, si sono iniziate a esplorare le storie delle donne e si è riusciti a restituire, nello specifico, memoria e dignità a un numero sempre crescente di scienziate.

In questo tardivo lavoro di riscoperta si è dovuto tenere in debito conto il mutamento che nel tempo ha subito il concetto di “scienza” e, conseguentemente, anche quello di “scienziato”, ragion per cui mentre dall’antichità al Settecento tale concetto ha mantenuto confini “fluidi”, a partire dall’Ottocento e per tutto il Novecento la selezione delle “scienziate” è avvenuta secondo modalità conformi a un concetto nuovo di “scienza” intesa come attività connotata in modo preciso e fortemente improntata alla specializzazione. Da una ricerca condotta secondo un approccio di genere si evince come in tutte le epoche solo poche donne siano riuscite ad affermarsi ai massimi livelli negli ambiti scientifici, fortemente limitate in questo dal solo fatto di appartenere al genere femminile – e per questo ritenute «dilettanti per forza» («obligatory amateurs» le definisce Marilyn Bailey Ogilvie5) – e mai (o raramente) accettate come vere e proprie professioniste dalla comunità scientifica, che è sempre rimasta connotata da un radicato “androcentrismo”. Ad ogni buon conto le donne hanno contribuito, in vari modi e a diversi livelli, all’impresa della scienza, spesso alle spalle o a fianco di mariti, padri, fratelli, dando sempre il loro contributo nelle varie discipline, anche quelle meno ufficiali ma non per questo meno importanti.

Durante l’epoca classica (fra il V sec. a.C. e il V sec. d.C.), nel corso della quale si forma la tradizione filosofico-scientifica occidentale e si sancisce lo stato di inferiorità del genere femminile sia da un punto di vista socio-politico-giuridico sia da un punto di vista squisitamente biologico, pochissime sono le donne che possono essere ascritte alla categoria di “scienziate”: fra queste sono da annoverare, a puro titolo esemplificativo, la matematica e astronoma Ipazia di Alessandria (370 ca. a.C. – 415 d.C.), uccisa da alcuni fondamentalisti, quasi certamente cristiani, per la sua libertà di pensiero, e Aspasia di Mileto (470 ca. – 410/400 a.C.), considerata maestra di Socrate, accusata di empietà per avere difeso le tesi del filosofo Anassagora.

Nei lunghi secoli del Medioevo, epoca in cui la presenza femminile è davvero esigua dacché gli studi scientifici non sono particolarmente rigogliosi né dal punto di vista della ricerca, né dal punto di vista teorico, emergono le figure di scienziate legate per lo più alla scuola medica di Salerno, le Mulieres salernitanae, e agli studi naturalistici.

Fra il XV e il XVII secolo – un lasso temporale fondamentale per la nascita e il consolidamento del pensiero scientifico e filosofico occidentale moderno – si amplia considerevolmente l’ambito delle discipline in cui si trovano a operare le donne: si va dall’astronomia, alla medicina (con un particolare riferimento agli studi e alla pratica dell’ostetricia), all’alchimia, alla botanica. Appartengono a questo periodo figure di rilievo come l’inglese Margaret Lucas Cavendish (1623-1673), studiosa e divulgatrice delle teorie di Cartesio e Gassendi ma anche fine critica dell’elaborazione di Thomas Hobbes, e Anne Finch Conway (1631-1679) cui si deve l’invenzione del termine “monade”, poi ripreso da Leibniz e a lui associato secondo un canone consolidato di assoluta primazia del maschile.

Nel secolo dei Lumi il panorama diviene più articolato e complesso e si assiste a un incremento della presenza femminile nell’ambito delle scienze, anche nel campo delle nuove discipline. A quest’epoca afferiscono le prime scienziate italiane: la milanese Maria Gaetana Agnesi (1718-1799), prima donna a ottenere la cattedra universitaria di matematica presso lo Studio felsineo, e la bolognese Laura Maria Caterina Bassi Veratti (1711-1778), più nota come Laura Bassi, che presso l’Istituto delle Scienze di Bologna otterrà la cattedra di fisica sperimentale6. Dal punto di vista della divulgazione non si possono ignorare due figure di riferimento, a livello europeo, quali l’inglese Mary Pierrepont Wortley Montague (1689-1762) cui si deve, fra l’altro, l’introduzione dell’inoculazione del vaiolo (propria della medicina ottomana) nella pratica medica occidentale, e la francese Anne-Louise Necker (1766-1817), nota come M.me de Staël, per le quali l’educazione scientifica rappresenterà uno strumento fondamentale per l’emancipazione sociale in generale, e femminile in particolare.

Nel corso del XIX secolo, che segna il “trionfo” della scienza attraverso il Positivismo (in Italia, nel 1859, vengono istituite a livello accademico le Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali), si assiste a un lento ma progressivo accesso delle donne – non senza resistenze – nelle università e nelle facoltà scientifiche dapprima come studentesse e, in seguito, nel corpo tecnico e docente; contestualmente, si assiste anche a una sensibile contrazione del numero delle “scienziate” vere e proprie. Il fenomeno è, verosimilmente, dovuto al nuovo concetto della “scienza” che si va imponendo, in senso più restrittivo; di conseguenza anche il termine “scienziato” – declinato esclusivamente al maschile – definisce il nuovo ruolo di chi la pratica, lo inquadra entro una specifica categoria professionale, con un suo proprio riconoscimento sociale. Non meraviglia il fatto che il riconoscimento sociale della figura dello scienziato porti ad escludere di fatto le donne dall’accesso alla categoria o, quanto meno, ne costituisca un deterrente o un ostacolo. Nel novero delle scienziate dell’Ottocento va ricordata prima fra tutte, la polacca Marie Sklodowska Curie (1867-1934) cui sono assegnati (prima donna nella Storia) due Premi Nobel – nel 1903 e nel 1911 – per la Fisica (per gli studi sulla radioattività) e per la Chimica (per la scoperta del radio e del polonio).

All’inizio del nuovo secolo la presenza delle donne nelle Istituzioni scientifiche (università, laboratori, società, accademie) resta rarefatta. Con specifico riferimento all’Italia, si tratta di figure per lo più isolate – “ospiti” di un mondo che resta ancora di esclusivo appannaggio maschile – che con difficoltà riescono a occupare ruoli ufficiali e di responsabilità: vittime di luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi che nulla hanno a che fare con merito e competenze e che ben attestano la cultura patriarcale ancora assai radicata nell’Italia dell’epoca. La chimica Maria Bakunin (1873-1960), la pedagogista Maria Montessori (1870-1952) e la zoologa Rina Monti (1871-1937) rappresentano la punta dell’iceberg di una nutrita schiera di donne relegate a ricoprire ruoli subalterni e marginali, e per questo destinate a rimanere nell’oblio, o costrette a rinunciare al proprio lavoro per le ragioni più disparate, in primis familiari, o – con riferimento all’Italia – espulse e allontanate a seguito della promulgazione delle leggi razziali nel 1938. È, quest’ultimo, il caso di Rita Levi Montalcini (١٩٠٩-٢٠١٢), giovane e promettente neurologa costretta ad abbandonare il gruppo di ricerca di Giuseppe Levi all’Università di Torino per proseguire gli studi all’estero. A Levi Montalcini sarà assegnato, nel ١٩٨٦, il Premio Nobel per la Medicina per la scoperta del fattore di accrescimento della fibra nervosa (NGF).

3. Le sfide del presente e del futuro

Solo a partire dalla seconda metà del Novecento si è assistito a un, seppur graduale, cambiamento e a un progressivo inserimento di fisiche, matematiche, chimiche, zoologhe e geologhe in posizioni più stabili e di maggior peso e responsabilità accademica (le cosiddette “posizioni apicali”). Le donne lentamente trovano il loro spazio anche nei laboratori e negli istituti scientifici del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) o dell’Istituto superiore di sanità (ISS). Il cammino è ancora lungo e impervio anche se le donne stanno lentamente e faticosamente uscendo dall’invisibilità, dalla “segregazione” in cui sono state a lungo costrette; hanno cominciato a scalfire quel “soffitto di cristallo” (glass ceiling) che per secoli ne ha mortificato e soffocato l’intelligenza, le capacità, le competenze, la voglia di partecipazione e di cittadinanza attiva, la stessa passione per la scienza.

Le STEM (acronimo per Science, Technology, Engineering and Mathematics), che oggi rappresentano la nuova frontiera della ricerca, costituiscono al contempo un terreno di sfida per l’intera società, e per le donne in particolare. Tante giovani ‘aspiranti’ scienziate, loro malgrado, sono ancora condizionate nelle loro scelte dai pregiudizi e dagli stereotipi di genere che tutt’ora permeano la società, le famiglie e, in taluni casi, anche la scuola. Per superare il “gender gap” (il “divario di genere”) e “raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze” (obiettivo 5 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile) anche in campo scientifico, sono ineludibili due requisiti pregiudiziali: la libertà e l’educazione. Nel primo caso ci si riferisce alla necessità di godere di pari diritti civili, politici e sociali, primo fra tutti il diritto alla libertà (di espressione e di autodeterminazione); il secondo aspetto rimanda, come ha scritto molto puntualmente Sandra Tugnoli Pattaro, una delle prime studiose di filosofia della scienza e di storia del pensiero scientifico, in Italia, a esaminare criticamente il rapporto tra donne e scienza:

alla possibilità di nutrire la propria mente con conoscenze che tengano conto di vari punti di vista, e con strumenti che esercitino alla tolleranza, allo spirito critico, all’antidogmatismo in modo da fare emergere e potenziare le proprie vocazioni e capacità individuali. […] Non è un caso che queste due categorie, libertà ed educazione, siano sempre correlate nella storia della civiltà. La scienza moderna, per parte sua, ha sempre presentato siffatta duplice connotazione: ha basato il proprio progresso sulla conoscenza e ha costruito il proprio futuro sulla libertà di ricerca7.

Quando, nel 1818, la giovane Mary Shelley scrive il suo romanzo, sa che deve ricorrere alla scienza per rendere razionale e credibile un atto “occulto”, al limite del sacrilego: la creazione di un essere umano “contro natura”, un mostro. In questo modo dichiara la sua fede nel potere della scienza moderna, nei suoi sconfinati progressi, pur denunciandone le pericolose derive e, al tempo stesso, si pone come “capostipite” del genere della fantascienza8. Ella farà dire al professor Victor Frankenstein: «Essi [gli scienziati] hanno acquisito poteri nuovi e quasi illimitati. […] Io mi spingerò molto, molto più avanti; seguendo le orme dei passi già percorsi sarò il pioniere di una nuova via, esplorerò poteri sconosciuti e svelerò al mondo i più profondi misteri della creazione»9.


Note

1 Mary Shelley, Frankenstein; or, The Modern Prometeus, London, Lackington, Hughes, Harding, Mavor & Jones, 1818, 1818 (3 volumi). Per la versione in italiano (che si rifà all’edizione inglese del 1831) si è consultato il volume Mary Shelley, Frankenstein, traduzione e cura di Giorgio Borroni, Milano, Feltrinelli, 2021.

2 Si riprendono in questa sede alcune considerazioni sviluppate nel mio contributo al volume, dedicato a “Donne e scienza”. Cfr. Vittorina Maestroni, Thomas Casadei (a cura di), Vita e visioni. Mary Shelley e noi, con un graphic novel di Claudia Leonardi, Modena, Mucchi, 2023, pp. 87-92.

3 Cfr. Vittorina Maestroni, Thomas Casadei (a cura di), La dichiarazione sovversiva. Olympe de Gouges e noi, con un graphic noveldi Claudia Leonardi, Modena, Mucchi, 2022.

4 Sul punto sia consentito rinviare a Silvia Bartoli, Olympe de Gouges in Italia: nuovi spunti e percorsi per la public history. Dossier. Donne, lavoro e diritti in Europa. A partire da Vinka Kitarovic, a cura di Eloisa Betti e Carlo De Maria, in “Clionet. Per un senso dei tempi e dei luoghi”, 2022, vol. 6, pp. 135-145.

5 La definizione è coniata da Marilyn Bailey Ogilvie, Obligatory Amateurs: Annie Maunder (1868-1947) and British women astronomers at the dawn of professional astronomy, in “The British Journal for the History of Science”, 2000, n.33, pp. 67-84.

6 Marta Cavazza, Laura Bassi. Donne, genere e scienza nell’Italia del Settecento, Milano, Editrice Bibliografica, 2020.

7 Sandra Tugnoli Pattaro, A proposito delle donne nella scienza, Bologna, Clueb, 2003, pp. 80-81.

8 Sul connubio fra fantascienza e femminismo si rimanda a: Eleonora Federici, Quando la fantascienza è donna. Dalle utopie femminili del secolo XIX all’età contemporanea, Roma, Carocci, 2017, pp. 19-29 (“La capostipite: Mary Shelley”); Maria Serena Sapegno, Laura Salvini (a cura di), Figurazioni del possibile. Sulla fantascienza femminista, Pavona (Roma), Iacobelli editore, 2008, pp. 36-37.

9 Shelley, Frankenstein, cit., p. 100.