Le quattro stagioni in Giappone

The four seasons in Japan

In apertura: picnic notturno sotto i fiori di ciliegio giapponesi (Foto dell’Autore).

Come ogni venerdì pomeriggio, dopo le lezioni universitarie, mi trovavo nel solito kissaten, una tipica caffetteria giapponese, situato in un vicoletto appartato nella città di Fukuoka. All’esterno soffiava un gelido vento invernale, e io ero seduto insieme a un amico giapponese al bancone a chiacchierare del più e del meno con l’anziana proprietaria mentre sorseggiavamo una tazza calda di caffè; la gente passava davanti all’entrata del locale senza fermarsi e alcuni gatti randagi che vivevano nel santuario a fianco miagolavano affamati e infreddoliti. Stavamo giusto apprezzando il piacere di starcene al calduccio in una giornata fredda come quella e mi accingevo a bere un altro sorso del liquido scuro quando all’improvviso la proprietaria, chiamata mama dai clienti, mi mostrò un sorrisino enigmatico.

«Anche in Italia (come in Giappone) ci sono le quattro stagioni?» mi chiese alzando in aria quattro dita della mano come per voler evidenziare il fatto che ne potessero esistere non una, né due, e nemmeno tre, ma addirittura quattro! Sebbene durante il mio soggiorno in Giappone avessi sentito parlare di alcuni stranieri ai quali era stato posto almeno una volta lo stesso quesito, stentavo a credere che fosse vero.

Succede spesso che i giapponesi rivolgano ai visitatori del loro paese, specialmente a quelli occidentali, molte domande che possono spaziare tra le tematiche più disparate e solo dopo aver vissuto per tre anni in Giappone sono arrivato alla conclusione che questo può accadere per tre motivi principali: il primo riguarda la pura e semplice curiosità data dal non sapere qualcosa, come quando viene domandato “da che paese provieni?”. Il secondo attiene invece al tentativo di rinforzare, senza necessariamente confutare, gli stereotipi, le opinioni personali (anche infondate), o i luoghi comuni riguardo un paese straniero e/o il Giappone stesso, come nel caso della domanda “è vero che gli italiani vestono sempre bene rispetto a noi giapponesi?”. Il terzo motivo concerne un forte orgoglio nazionale per la cultura giapponese e un velato senso di superiorità nei confronti delle altre nazioni, come quando ad esempio viene chiesto al visitatore se anche nel suo paese ci sia una certa qualità similmente al o un certo difetto diversamente dal Giappone.

Se perciò la domanda di mama fosse stata rivolta per pura curiosità e semplice ignoranza, la risposta sarebbe dovuta essere ovviamente affermativa, magari accompagnata da una boutade del tipo “certamente! Abbiamo persino una pizza in Italia dedicata alle quattro stagioni”. Tuttavia, non appena si cerca di ricondurre la motivazione della domanda al tentativo di rinforzare un’opinione o impressione riguardo l’Italia e/o il Giappone, ecco che anche il suo significato cambia, e deve essere intesa nel seguente modo: “in Italia le quattro stagioni non sono come quelle in Giappone, non è vero?”. Data la diversità del clima giapponese rispetto a quello italiano, non si può certamente rispondere in maniera affermativa come nel caso precedente: mentre quello italiano è infatti prettamente mediterraneo, il clima giapponese è temperato e piovoso, specialmente durante l’umidissima stagione delle piogge (tsuyu in giapponese) a giugno e luglio.

Dal punto di vista culturale, bisogna inoltre considerare che in Giappone lo shintoismo, la religione nativa che permea la realtà e la società nipponica da tempi immemori, ha origine sia dal timore quasi reverenziale per la natura, causato dai diversi disastri naturali che hanno sempre devastato l’arcipelago nipponico, sia dai riti legati alla tradizione contadina. Non c’è perciò da stupirsi se i giapponesi hanno sviluppato nel corso dei secoli una profonda devozione nei confronti dei fenomeni naturali e se i periodi dell’anno sono scanditi da una serie di celebrazioni di origine antica. Di conseguenza, dato che in Giappone le stagioni vengono vissute con particolare intensità e ritualismo, la loro bellezza e più in generale quella della natura diventa motivo di fierezza e di identità nazionale per la maggior parte dei suoi abitanti. Se si interpreta perciò la domanda dell’anziana proprietaria del kissaten come un’espressione di velato orgoglio e attaccamento verso la propria cultura, il suo significato cambia un’altra volta: “in Italia le quattro stagioni sono per caso belle come quelle giapponesi?”.

Non c’è dubbio che nel paese del Sol Levante il modo di sentire e celebrare le quattro stagioni, chiamate shiki, sia profondamente differente rispetto a quello italiano: la primavera, haru in giapponese, è caratterizzata ad esempio dalla millenaria e celebre tradizione dell’hanami, che consiste nell’organizzare, in genere durante i fine settimana, piacevoli picnic nei parchi per ammirare la fioritura dei ciliegi, sakura in giapponese. L’indubbia importanza che viene attribuita a questa usanza è espressa, dal punto di vista linguistico, sia nel termine hanami, dove il fiore di ciliegio viene chiamato semplicemente hana, ossia “(il) fiore”, congiunto al verbo mi che significa “vedere”, sia nella stessa parola giapponese sakura, che deriverebbe dal verbo “fiorire”, ossia saku. In altre parole, la sakura è il fiore che sboccia nel paese del Sol Levante come simbolo della primavera.

In genere, i giapponesi preparano a casa o acquistano un bentō, ossia il pranzo al sacco, e lo consumano bevendo alcolici sotto i rami dei ciliegi, attività che viene svolta anche di notte, quando i fiori vengono illuminati da fari speciali nei parchi di ogni città regalando così un affascinante spettacolo chiamato yozakura, o “sakura notturna”. La tradizione dell’hanami è talmente apprezzata e sentita dal popolo nipponico che persino le previsioni meteo aggiornano i telespettatori sull’andamento della fioritura che culmina nel mankai (la “massima fioritura”) durante la prima decade di aprile. La caduta dei petali rosa trasmette un profondo senso di transitorietà delle cose, o mono no aware, e segna la fine del periodo della sakura.

Tra le varie ricorrenze religiose di origine buddhista, una tra le più significative viene celebrata in primavera l’otto aprile di ogni anno, e trattasi del compleanno di Gautama Buddha, o Hana Matsuri, letteralmente “festa dei fiori”. Per celebrare la nascita del fondatore del buddhismo, i fedeli visitano i templi e versano del tè dolce, chiamato amacha, sopra una statuetta raffigurante il Buddha da bambino, posizionata sopra un altare decorato con diversi fiori. Dopo il suddetto atto di devozione, ai fedeli vieni offerta una tazza dello stesso amacha che viene sorseggiato dentro il tempio.

L’estate, natsu in giapponese, è contraddistinta da moltissime feste tradizionali, i matsuri, più di qualsiasi altro periodo dell’anno. La parola matsuri è un termine generico per indicare diversi tipi di celebrazioni a carattere storico, religioso (shintoista o buddhista), o culturale, festeggiate sia a livello nazionale sia regionale in tutto il Giappone. I matsuri erano originariamente dei rituali di devozione shintoista volti a ottenere il favore dei numi della natura, o kami, ed erano talmente radicati nel tessuto socio-politico del Giappone antico che lo stesso termine per “governo” veniva indicato con la parola matsurigoto, composta dal verbo matsuru (“venerare, consacrare”) e dal sostantivo koto (“affare, faccenda, cosa”), quest’ultimo simile per significato al termine latino res. Se in latino, tuttavia, il sopracitato concetto di “governo” veniva espresso attraverso l’espressione res publica per indicare che le faccende politiche erano un bene pubblico, in giapponese antico la parola matsurigoto esprimeva un forte senso di unità esistente tra l’amministrazione e il rituale propiziatorio, ossia la res publica nel paese del Sol Levante veniva intesa come res caerimonialis.

Sono moltissimi i natsu matsuri (“feste estive”) celebrati in ogni parte del Giappone, dal momento che in tempi antichi si cercava di ottenere il favore dei kami per la protezione del raccolto durante la stagione delle piogge, quando tifoni, violenti acquazzoni e sciami di insetti attirati dall’umidità danneggiavano le risaie. Sia per rispetto alla tradizione che per le elevate temperature, durante i natsu matsuri i giapponesi indossano lo yukata, un tipo di kimono di cotone, e tra le varie celebrazioni in cui lo sfoggiano, le due più importanti sono molto probabilmente il Tanabata e l’Obon. Il primo matsuri, festeggiato il sette di luglio, viene anche detto “Festa delle stelle” e ha origine da un’antica leggenda cinese secondo la quale le stelle Vega e Altair, due innamorati, possono incontrarsi solo una volta all’anno sulla Via Lattea; per questa occasione, i giapponesi scrivono i loro desideri su dei foglietti di carta colorata chiamati tanzaku e li appendono a delle canne di bambù. L’Obon, anche detto “Festa dei morti”, viene celebrato dal tredici al sedici di agosto e comprende una serie di rituali volti a onorare gli avi defunti e ad accogliere le loro anime tornate temporaneamente dall’aldilà. La festa ha origini buddhiste e in molti paesi asiatici è dedicata agli esseri sofferenti nell’inferno buddhista, il Naraka. Il primo giorno dell’Obon, le famiglie accendono un “fuoco di benvenuto” chiamato mukaebi per guidare le anime degli antenati nel mondo dei vivi, mentre l’ultimo giorno della festa le invitano a tornare nell’oltretomba grazie a un “fuoco di commiato” detto okuribi. In tutto il Giappone, per onorare i morti viene ballata la danza del bon odori, in cui gruppi di persone si muovono lentamente in cerchio a ritmo di musiche che possono essere sia tradizionali che contemporanee.

In autunno, aki in giapponese, inizia la stagione dei momiji, ossia degli aceri le cui foglie si tingono di un rosso intenso; i giapponesi praticano la cosiddetta momijigari, ovvero la “caccia” agli aceri, e in maniera simile all’hanami in primavera, ma con la differenza che in genere non si organizzano picnic, si dirigono nei parchi per osservare le foglie e più in generale il paesaggio autunnale. La prima volta che vidi i momiji fu a Kyoto, nel giardino retrostante il tempio zen Ginkaku-ji, e la vista che mi si presentò davanti agli occhi fu inaspettata e indimenticabile: gli alberi erano colorati di rosso, giallo, viola e marrone scuro, e l’intero panorama sembrava essere stato dipinto da Van Gogh.

Nel 2021 assistetti a un importante evento tradizionale, ovvero il Karatsu Kunchi, una festa simile a un carnevale che ogni anno, dal due al quattro di novembre, si svolge nella cittadina di Karatsu, nella regione meridionale del Kyushu. Il prefisso Kunchi indica un tipo speciale di matsuri celebrato per onorare il raccolto autunnale e la sua peculiarità consiste nella celebre parata di carri allegorici chiamati hikiyama, i quali raffigurano immagini mitologiche legate al folklore dell’Asia orientale, come ad esempio un’enorme orata rossa (tai in giapponese), un mostro marino chiamato shachi, una viverna, e il fenghuang, la fenice cinese. Gli hikiyama vengono trascinati per le vie della città e sono accompagnati dal suono ipnotico dei fue, flauti tradizionali giapponesi suonati da giovani ragazzi seduti sui carri.

Durante il periodo invernale, fuyu in giapponese, la festa più importante è senza dubbio il Capodanno, ovvero lo Shōgatsu. Il Natale, sebbene importato dall’Occidente, non viene celebrato come nei paesi a maggioranza cristiana; in Giappone rappresenta infatti una semplice occasione per le coppie di scambiarsi regali o cenare al ristorante, e per alcune famiglie con bambini piccoli di mangiare il pollo fritto del Kentucky Fried Chicken e una torta “tradizionale” chiamata Christmas cake, acquistabile in qualsiasi convenience store.

Sebbene anticamente il Capodanno giapponese, analogamente alla maggior parte dei paesi asiatici, coincidesse con l’inizio della primavera in base al calendario lunare cinese, in seguito alle riforme atte a modernizzare e occidentalizzare il paese durante il periodo Meiji (1868-1912), oggigiorno lo Shōgatsu viene celebrato il primo di gennaio come in tutti i paesi occidentali. Rimangono tuttavia immutate le antiche tradizioni e la parola ereditata dal cinese geishun (letteralmente “accogliere la primavera”) viene ancora usata come espressione beneaugurale per l’anno nuovo. Davanti alle abitazioni e ai negozi, dopo il 25 dicembre, vengono esposti degli ornamenti composti da canne di bambù e aghi di pino chiamati kadomatsu, mentre sulle porte vengono appese delle decorazioni, simili alle ghirlande natalizie, chiamate shimezakari: queste ultime sono formate di solito da una spessa corda di paglia alla quale vengono attaccati dei fogli di carta bianca a forma di zigzag (shide), usati anche per delimitare uno spazio sacro nello shintoismo, e una varietà di arancia amara chiamata daidai, considerata simbolo delle generazioni che si susseguono nel tempo.

I giapponesi trascorrono i giorni di festa con la propria famiglia e in genere i membri più anziani regalano ai nipoti delle buste chiamate otoshidama contenenti denaro. Vengono inoltre spedite ad amici, colleghi, e parenti lontani cartoline d’auguri (i nengajō) raffiguranti il segno dello zodiaco cinese che corrisponde all’anno nuovo. Il 2023 ad esempio, l’anno corrente, è considerato quello del coniglio. Le famiglie mangiano insieme delle pietanze tipiche dette osechi dentro eleganti contenitori laccati e ciascun cibo ha un significato particolare: tra i più popolari ci sono i kazu no ko (letteralmente “numero di bambini”), ossia uova di aringa portatrici, secondo la tradizione, di fertilità e di una prole sana e numerosa, e i mochi, piccole torte di riso glutinoso, simbolo di longevità e salute, consumate in una zuppa di miso.

La notte del 31 dicembre molti giapponesi praticano il cosiddetto hatsumōde, ovvero si dirigono nei templi buddhisti e santuari shintoisti e pregano per chiedere la felicità nell’anno nuovo. In genere viene offerto loro del sakè dolce caldo, l’amazake, e nei templi viene suonata una grande campana sacra chiamata bonshō, i cui 108 rintocchi, secondo la tradizione buddhista giapponese del joya no kane, purificherebbero l’anima di chi li ascolta dai bonnō, i desideri terreni che affliggono e arrecano sofferenza agli esseri umani. Tradizionalmente, perciò, la notte di San Silvestro (ōmisoka), che anticipa il primo giorno dell’anno nuovo (gantan), non prevede in Giappone fuochi d’artificio, i tanto vituperati “botti”, lo stappo di una bottiglia di spumante, o un chiassoso e vivace countdown tra amici e parenti, ma solamente il suono ritmato e profondo della campana buddhista che riecheggia nel buio mentre i giapponesi accolgono la mezzanotte e il futuro con calma e tranquillità.

«Anche in Italia (come in Giappone) ci sono le quattro stagioni?».

Quella volta avrei voluto rispondere alla proprietaria del kissaten come se la sua domanda fosse stata “in Italia le quattro stagioni sono per caso belle come quelle giapponesi?”, ma non sapendo in che modo farlo senza sembrare presuntuoso, tacqui e non riuscii a replicare. Fu il mio amico giapponese a intervenire in mio aiuto citando Vivaldi: «Conosce Le Quattro Stagioni? Si dice che il celebre musicista Vivaldi sia riuscito a comporre le sinfonie proprio perché anche in Italia le stagioni sono belle», le rispose sorridendo. La mama annuì apparentemente sorpresa, dopodiché riprendemmo a bere il nostro caffè caldo in silenzio.