In apertura: illustrazione di Collettivo FX per la Jam R60 – 11 ottobre 2015 (Ivana de Innocentis, Una Jam per celebrare le Officine Reggiane e la sua storia, in “Urban Lives”, 27 ottobre 2015).
Nei capannoni delle Officine Meccaniche Reggiane, costituitesi all’inizio del XX secolo, decine di migliaia di dipendenti si avvicendarono nella produzione di carrozze, locomotive, aerei, materiale bellico, attrezzature portuali, ecc. Nel 2010, la chiusura della sede storica – adiacente alla stazione ferroviaria di Reggio Emilia – segnò una svolta importante per la città stessa: sebbene l’azienda non si fosse più avvicinata ai livelli occupazionali precedenti alla liquidazione coatta amministrativa del 1951, l’abbandono dello stabilimento venne profondamente avvertito dai cittadini, per i quali le Reggiane rappresentavano un «pezzo del vissuto di una comunità»1. Dopo aver toccato il proprio apice raggiungendo la quota di 11.225 lavoratori nel 19412, dalla fine della Seconda guerra mondiale l’industria metalmeccanica dovette affrontare difficoltà di vario tipo, a partire dalla ricostruzione degli impianti distrutti dai bombardamenti del 7 e dell’8 gennaio 1944; nei decenni seguenti, l’avvio della produzione di grandi complessi industriali nonché il breve rilancio tentato dall’imprenditore reggiano Luciano Fantuzzi non furono sufficienti a invertire la parabola discendente delle Reggiane. Fu così che nel 2008 i rinnovati problemi finanziari costrinsero Fantuzzi a consegnare il controllo della propria holding alla multinazionale statunitense Terex e condussero all’abbandono dello stabilimento. Tenendo in considerazione il fatto che la vicenda della fabbrica ha coinciso con la storia politica, economica, sociale e culturale di Reggio Emilia nonché le forti emozioni che la sua chiusura ha causato nei cittadini, le Reggiane possono essere definite a buon diritto un luogo della memoria: esse rappresentano infatti a tutti gli effetti un’unità di significato, elevata dalla volontà degli uomini e dal lavorio del tempo al rango di elemento simbolico della comunità reggiana3. Numerose sono le storie che vi si trovano inscritte e che ne costituiscono il profilo memoriale; tra gli eventi che più hanno connotato questo luogo, ricoprono una posizione privilegiata l’eccidio del 28 luglio 1943 e l’occupazione svoltasi tra il 1950 e il 1951. Tuttavia, oltre alla varietà di eventi, figure, dati materiali e simbolici che un luogo della memoria offre, è necessario considerare sia i tempi e le culture che li hanno prodotti sia il presente dal quale li si osserva. È su quest’ultimo dato che desidero porre l’attenzione: lungi dall’essere una categoria unica e omogenea, il presente raggruppa più attori, i quali nutrono ambizioni e interessi in parte dissimili su un luogo della memoria, sulla sua valorizzazione e sugli aspetti essenziali della sua storia. Naturalmente, ciò non significa che i progetti di tali gruppi risultino sempre in netto contrasto gli uni con gli altri, bensì che vi siano approcci, sguardi e interazioni differenti con lo spazio del ricordo. Da questo punto di vista, il caso delle Reggiane risulta particolarmente interessante. Dopo la cessione alla Terex, il dislocamento della sede produttiva e amministrativa dell’azienda portò all’abbandono definitivo dei locali, i quali furono sottoposti a gravi condizioni di degrado e incuria. Negli anni immediatamente successivi, mentre le autorità cittadine erano alla ricerca delle risorse necessarie per attuare un progetto di riqualificazione dell’area dismessa, le voci di nuove maestranze riempirono quegli spazi vuoti: invasi dalle infiltrazioni e circondati dalle sterpaglie, alcuni capannoni vennero occupati da individui in cerca di riparo e da essi adibiti a veri e propri alloggi; altri locali, invece, diventarono gli atelier di writer e street artist, i quali realizzarono numerose opere sulle pareti dell’ex fabbrica4.
Sebbene alcune incursioni si fossero verificate anche negli anni precedenti, è a partire dal 2012 che un collettivo di artisti tradusse buona parte dello stabilimento in una vera e propria officina creativa. Affascinati dagli ampi spazi che avevano a disposizione, essi ne divennero assidui frequentatori, trasformando le Reggiane in un riferimento per l’arte urbana nazionale e internazionale. Nel contesto cittadino, la fabbrica costituì un luogo emblematico dove la street art si è consolidata e «da azione individuale di riscrittura di uno spazio si è progressivamente collettivizzata», fino a essere fruita da un certo gruppo come luogo della creatività artistica5. Più in generale, è necessario evidenziare che nell’arte urbana lo spazio non deve essere ridotto a mero elemento scenografico: esso è il protagonista di un’interazione con l’artista stesso, dalla quale non si può prescindere se si desidera comprendere il senso di tali opere. Le pratiche di risemantizzazione dello spazio urbano sono innanzitutto pratiche di senso, attraverso le quali si esplicitano pensieri polemici sulla città e sulle forme di potere che la governano. Tali forme espressive possono essere considerate una vera e propria presa di posizione contro la gestione da parte delle autorità preposte e, allo stesso tempo, un invito agli spettatori a vivere lo spazio in modo attivo. Inoltre, uno dei temi soggiacenti alla street art che più merita di essere menzionato in questa sede è il tentativo di porre rimedio alla perdita di storia e memoria, sempre più minacciate dall’anonimato e dall’omogeneizzazione del tessuto urbano6.
La storia di questo decennio di vita dello stabilimento non sembra essere ancora oggi molto conosciuta al di fuori della ristretta cerchia di individui che visse tale esperienza: è proprio per sottolinearne il rilievo che Anna Fornaciari e Anastasia Fontanesi, redattrici del blog “Travel on Art”, hanno realizzato nel 2022 – in collaborazione con il centro culturale Spazio Gerra – un podcast dal titolo La città nella città7. Nel corso degli episodi, le autrici hanno intervistato tre artisti che sono stati membri di questo cenacolo, i quali hanno raccontato cosa rappresentò per loro la cosiddetta «scuola Reggiane», distintasi come laboratorio di sperimentazione creativa anche oltre i confini italiani. È interessante notare che, durante questi incontri, alcuni artisti hanno rivendicato una profonda connessione con i dipendenti che occuparono la fabbrica tra il 1950 e il 1951: la scelta della direzione di chiudere lo stabilimento, sospendendo le attività produttive e interrompendo le retribuzioni dei lavoratori, provocò la risposta da parte della Camera del Lavoro Territoriale e delle maestranze, le quali per circa un anno continuarono la produzione nell’estremo tentativo di salvare le Reggiane attraverso la costruzione di un trattore denominato R60; la lotta si concluse con la liquidazione coatta amministrativa della società e la riapertura delle cosiddette Nuove Reggiane nel 19528. In effetti, è possibile riscontrare alcune similitudini tra le parole dei testimoni dell’occupazione e quelle di writer e street artist, tra cui la sensazione di trovarsi a casa, l’orgoglio derivante dall’operare all’interno dello stabilimento così come la volontà di riprendersi un luogo del quale si è stati privati e sul quale si avanzano dei diritti. Su tutte, però, l’analogia più evidente è probabilmente l’esperienza di autogestione che vissero i due gruppi a distanza di decenni, analogia che venne evocata concretamente attraverso la jam-session organizzata l’11 ottobre 2015, in occasione del 65° anniversario dell’occupazione.
La scelta dei due simboli presenti nella locandina – il trattore e la bomboletta – inseriva le due esperienze come tappe della medesima vicenda, collegate tra loro dalla stessa volontà di realizzare un progetto alternativo rispetto ai piani delle autorità che controllavano le Reggiane: come gli operai proposero con la costruzione dell’R60 una produzione nuova e pacifica per l’azienda, così gli artisti avevano trasformato lo stabilimento industriale in uno degli scenari culturali più innovativi del panorama nazionale, approfittando della non immediata ristrutturazione dell’area da parte delle istituzioni e introducendovisi clandestinamente. “Pittare” i muri dell’ex fabbrica costituì «una riappropriazione politica di quegli spazi», una sorta di azione di conquista che si sviluppò soprattutto nel corso del primo anno di frequentazione e che permise, in alcuni casi, di costruire rapporti sociali con gli individui che sfruttavano gli ampi locali sia come punti d’appoggio sia come alloggi dove risiedere in modo più stabile9. La proposta degli street artist e dei writer di creare – quantomeno in alcuni capannoni – un polo artistico e culturale, un punto di riferimento per l’arte pubblica libero e fruibile da tutti, si scontrò con le ambizioni delle autorità cittadine. A partire dal 2015, infatti, l’amministrazione comunale di Reggio Emilia ha avviato nel concreto un progetto di recupero urbano volto a trasformare l’area delle Reggiane in un Parco dell’innovazione. Spicca in tal senso il capannone 19, protagonista della metamorfosi da antico reparto di sbavatura e fonderia della ghisa a Tecnopolo cittadino: inaugurato nel 2013, questo centro di ricerca applicata organizza attività e servizi specializzati a supporto dell’innovazione delle aziende locali, soprattutto delle piccole e medie imprese. In seguito, circa venti società di innovazione si sono riunite in una partnership privata per riconvertire gli attigui capannoni 17 e 18, aprendovi le proprie sedi di start-up d’impresa e l’intervento pubblico ha condotto alla riqualificazione delle zone adiacenti all’ex stabilimento. Tra gli altri progetti in corso, vi è anche il recupero del capannone 15C, che sarà destinato all’apertura di una nuova sede dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia10.
Al di là dei progetti di riconversione dell’area, un importante patrimonio da preservare è senz’altro l’immenso archivio storico della fabbrica: con l’abbandono degli edifici e lo spostamento delle attività in provincia, i documenti conservati negli scantinati della palazzina direzionale furono minacciati da un rapidissimo degrado a causa dell’umidità; nell’agosto del 2011, grazie all’atto di donazione al Comune di Reggio Emilia da parte di Luciano Fantuzzi, che giuridicamente risultava essere l’ultimo possessore, ebbe inizio il trasferimento delle serie archivistiche. I documenti furono depositati provvisoriamente in diversi luoghi, quali il Polo archivistico del Comune gestito dall’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea (Istoreco), l’ex laboratorio di falegnameria dei magazzini comunali e l’Archivio di Stato di Morimondo. A questo proposito, a partire dal 2014, si cominciò a ventilare la possibilità di collocare i nuclei documentali in un’unica sede, identificata in un capannone delle ex Reggiane, scelto come lo spazio più idoneo per valorizzare la memoria della storica azienda e per stendere un filo rosso tra l’innovazione – rappresentata dalle start-up e dal Tecnopolo – e il ricordo. Nello specifico, la realizzazione dell’Archivio storico delle Officine Reggiane si configura come la costituzione di un polo archivistico dinamico e funzionale, dove potrebbero confluire anche i fondi di altre istituzioni – quali altre storiche aziende meccaniche reggiane, organizzazioni sindacali di lavoratori, associazioni di categoria – a testimonianza del peculiare modello di sviluppo economico, tecnologico e sociale del territorio11. Parallelamente a tale progetto e al processo di restauro e catalogazione dei documenti avviato in questi anni, sono state organizzate azioni di valorizzazione, mostre temporanee e attività didattiche: il Comune di Reggio Emilia, proprietario dell’archivio, ha infatti scelto di eseguire le operazioni di recupero nella massima trasparenza e di informare costantemente i cittadini sullo stato di avanzamento dei lavori.
La volontà di condivisione dei risultati da parte delle istituzioni, l’interesse riscontrato soprattutto in occasione delle installazioni temporanee, ma anche le stesse modalità di riqualificazione dell’area evidenziano come la centralità delle Reggiane non sia riconducibile solo al mero marchio industriale, bensì riguardi, più in generale, la costituzione di una comunità politica e culturale. L’obiettivo delle autorità sembra essere una sorta di “doppia tutela” del luogo: da un lato, essa riguarda il passato della fabbrica, che deve essere preservato sia nelle sue forme visibili – l’architettura dei capannoni è stata mantenuta invariata – che invisibili – le serie archivistiche; dall’altra, lo stabilimento deve essere riscosso dal declino che ne ha segnato gli ultimi anni di vita e collocarsi nell’economia del futuro, in un contesto di innovazione, tecnologia e ricerca.
Tra le speranze degli artisti reggiani e i progetti delle istituzioni cittadine, si pongono le riflessioni della Compagnia Teatrale MaMiMò, nata a Reggio Emilia e coproduttrice degli spettacoli Officine Reggiane. Il sogno di volare (2020) e Arte Operaia (2022). Il progetto di Officine Reggiane partì dalle oltre 22.000 cartelle prodotte dall’Ufficio personale della fabbrica e conservate all’interno dell’Archivio storico: dopo la catalogazione, questa serie archivistica è stata resa consultabile al pubblico nel novembre del 2018, riscontrando un consistente flusso di visitatori. Lungi dall’essere considerati annotazioni di carattere meramente amministrativo, per l’équipe teatrale tali documenti incarnavano tracce di storie particolari, a partire dalle quali è stato possibile ricostruire la quotidianità di uomini e donne la cui vita ha avuto come sfondo le Reggiane. Ciò che è importante sottolineare è che l’intento non è stata la realizzazione di una ricostruzione storiografica precisa e puntuale, bensì quello di amplificare i ricordi e le voci provenienti dalle cartelle, operazione nella quale è considerata lecita anche l’invenzione. La pièce, che traccia una parabola dell’azienda tramite la selezione di determinati episodi, attraversa allo stesso tempo il concetto di progresso e il suo significato odierno. I personaggi interpretano sé stessi nell’atto di immergersi nell’archivio delle Reggiane al fine di delineare lo spettacolo ed è in questi momenti di «continua epifania» che avviene in modo fluido il passaggio dalla cornice – l’archivio – alle scene recitate vere e proprie, nelle quali gli attori si trasformano nei lavoratori delle Reggiane: «è come se ci cadessero dentro», per citare l’espressione scelta dalla regista Angela Ruozzi. A un primo sguardo, le Reggiane rivivono nello spazio scenico, la cui somiglianza con un ambiente industriale è ottenuta grazie alla sobrietà dell’arredamento e alla proiezione di immagini e filmati; in realtà, però, la fabbrica si ritrova soprattutto nelle situazioni di evocazione, dove l’immaginario degli attori si proietta concretamente sul palco e dona al resoconto degli avvenimenti un valore poetico. Lo spazio libero consente infatti il passaggio dalla realtà alla suggestione, dal luogo materiale al livello onirico e memoriale12.
In tal senso, il significato che le Reggiane assumono come luogo della memoria è soprattutto quello di una “fabbrica di storie”, le quali rivivono sia attraverso le voci degli attori sia tramite l’intervento in diretta dei testimoni, ovvero coloro che si sono recati all’archivio per consultare le cartelle dei loro familiari e riscoprirvi frammenti delle proprie biografie personali. Nessun personaggio dà infatti un giudizio sulle trasformazioni che attualmente interessano l’area, limitandosi ad accennarvi in una scena che si contraddistingue per il forte dinamismo, creato dalle voci degli attori che si sovrappongono continuamente. Ciò che lo stabilimento ha rappresentato – e rappresenta – per la comunità di Reggio Emilia percorre i decenni perché riguarda le persone: la progressiva scomparsa dei testimoni più celebri delle vicende della fabbrica e la possibilità sempre più remota di accedere alla memoria diretta degli eventi non viene considerata una lacuna incolmabile, bensì uno spazio dove la creatività può distendersi, giustificata da un «mi piace immaginare che sia andata così». Da quest’impostazione consegue che ciò che deve prevalere non è tanto il contenuto, ma la funzione stessa della memoria, la sua capacità di trasmettere uno scenario13. Dunque, al di là dell’ingente mole di dati, nozioni e testimonianze, ciò che l’équipe teatrale sembra sostenere è la creazione di una memoria culturale “attiva”, capace di immettere le informazioni all’interno di un quadro dotato di senso. La messa in scena dello spettacolo itinerante Arte Operaia, svoltosi all’interno delle Reggiane in occasione della mostra Un tocco di classe. L’occupazione delle Officine Reggiane 1950-51, segue la stessa linea, cioè si ispira agli eventi storici per poi rielaborarli in modo creativo: nella fattispecie, le cinque “stazioni”, che si animano al passaggio dei visitatori, sono incentrate sulle modalità in cui i lavoratori intesero la fabbrica come spazio culturale oltre che sociale. Forse risulterebbe eccessivo definire le Reggiane un terreno di scontro poiché, come dimostra la recente mostra Un tocco di classe, i diversi attori sono talvolta disposti a collaborare gli uni con gli altri. Ciò non elimina, tuttavia, la complessità di un luogo del quale tutti i gruppi desiderano tutelare la memoria, ma valorizzandone aspetti differenti: la centralità economica e il valore del lavoro nel caso delle istituzioni cittadine; la via della cultura e la fruibilità collettiva per gli artisti reggiani; le storie di vita e l’attivazione della memoria “attiva” da parte della Compagnia Teatrale MaMiMò.
Note
1 Massimo Storchi, Una fabbrica, un territorio, una storia, in Michele Bellelli (a cura di), “Reggiane”. Cronache di una grande fabbrica italiana, Reggio Emilia, Aliberti compagnia editoriale, 2016, p. 7.
2 Comune di Reggio Emilia, L’Archivio Storico delle Officine Reggiane. Progetto di salvaguardia e valorizzazione, p. 23, https://issuu.com/villacougnet/docs/progetto_archivio_reggianea>, ultima consultazione: 25 gennaio 2023.
3 Cfr. Pierre Nora, Entre Mémoire et Histoire. La problématique des lieux, in Pierre Nora (a cura di), Les lieux de mémoire. 1. La République, Paris, Gallimard, 1997, pp. XXXIV-XLII.
4 Tali opere sono oggi visibili grazie alla galleria virtuale Reggiane Urban Gallery.
5 Marco Mondino, Street art, spazi, media: pratiche di riscrittura urbana [Tesi di dottorato], Palermo, Università degli Studi di Palermo, 2016, p. 41.
6 Silvia Viti, Al di qua del quadro, la strada: Attraversamenti urbani e arti del quotidiano [Tesi di dottorato], Limoges, Université de Limoges, 2015, pp. 15-20.
7 Il podcast è disponibile sulla piattaforma Spotify nella playlist “KM 0” di Alimentari Cult.
8 Per approfondire si veda Dario Melossi, Maria Grazia Ruggerini, Lino Versace et al., Restaurazione capitalistica e Piano del lavoro. Lotta di classe alle Reggiane 1949-51, Roma, Editrice Sindacale Italiana, 1977.
9 Alimentari Cult., La città nella città – Pittate, in playlist “KM 0”.
10 Comune di Reggio Emilia, Il progetto “Reggiane Parco Innovazione”, https://www.comune.re.it/argomenti/sviluppo-economico-e-innovazione/progetti-di-sviluppo-del-territorio/reggiane-parco-innovazione, ultima consultazione: 25 gennaio 2023.
11 Comune di Reggio Emilia, Approvazione della convenzione con l’Istoreco di Reggio Emilia per il completamento di un progetto di salvaguardia, riordino e valorizzazione dell’Archivio storico delle ex Officine Reggiane [determinazione dirigenziale R.U.D. 1059], 10 ottobre 2015, https://openapps.comune.re.it/jattipubblicazioni/AttiPubblicazioni, ultima consultazione: 25 gennaio 2023.
12 Mariacostanza Fallacara, “Officine Reggiane – Il sogno di volare”: una fabbrica, una città, uno spettacolo, in “24Emilia”, 28 gennaio 2020, https://www.24emilia.com/officine-reggiane-il-sogno-di-volare-una-fabbrica-una-citta-uno-spettacolo/, ultima consultazione: 25 gennaio 2023.
13 Cfr. David Bidussa, Testimonianza e storia. Verso la post-memoria, in “La Rassegna Mensile di Israel”, maggio-agosto 2004, vol. 70, n. 2, pp. 1-15.