Intervista a Joan Roca i Albert. Barcelona flashback, un metodo per leggere la città

Interview with Joan Roca i Albert. Barcelona Flashback, a method to read the city

In apertura: Barcelona, MUHBA, Casa Padellàs, Barcelona Flashback (Photo MUHBA).

 

Il MUHBA1 è il museo di storia della città di Barcellona. Può essere definito come un museo diffuso, disperso, con 17 sedi che contengono al proprio interno 55 “sale” urbane. Ogni “sala”, cioè ogni sede, racconta un capitolo di storia della città, dai resti archeologici dell’antica Barcino alle tracce medievali del Palau Major, dalle trasformazioni urbane dopo la crisi del monachesimo al patrimonio industriale, dalle casas baratas dei quartieri popolari al rifugio antiaereo Refugi 307. L’intervista a Joan Roca i Albert, Direttore del MUHBA, si deve a Paola E. Boccalatte ed è stata realizzata nell’ambito del programma di mobilità “Culture Moves Europe”2.

 

Al centro del MUHBA c’è Casa Padellàs, autentico fulcro del sistema, centro di interpretazione della città.

Qui è stata allestita Barcelona Flashback3, un’esposizione sperimentale di sintesi in continuo aggiornamento, come la città stessa. Il percorso comincia in una sala buia in cui sono proiettate immagini di Barcellona nel XX secolo che compaiono e scompaiono al ritmo di un battito, il battito delle persone che vivono la città, le loro azioni in relazione agli spazi. Il MUHBA vuole essere anzitutto un museo della cittadinanza. Il pannello che accoglie i visitatori dice “Esplorare la storia significa esplorare la vita della città attraverso i suoi cittadini. Il risultato sarà sorprendente quanto il mondo di Alice che attraversa lo specchio nel racconto di Lewis Carroll. La storia si rivolge a noi anche se veniamo da lontano. Tutta la storia ci appartiene in quanto storia dell’umanità”.

 

Apre l’esposizione una sala dedicata ai paesaggi. Qui si fa riferimento all’urbanista statunitense Kevin Lynch e alla sua teoria sull’immagine della città4, che nella nostra mente si costruisce su alcune categorie: percorsi, margini, quartieri, nodi, riferimenti.

All’inizio del percorso il primo impatto è con la città viva e il suo battito vitale, poi gli abitanti e i visitatori sono inseriti nello spazio urbano. Le categorie analitiche di Lynch costituiscono uno strumento per capire dove ci troviamo fisicamente, fondamentale per orientarsi anche nella conoscenza della città. È un metodo utile soprattutto per i giovani, per imparare a capire la pianta di una città, le sue espansioni, le sue contrazioni, le modifiche che l’hanno interessata nel tempo; senza questa capacità analitica della geografia non si coglie il senso di ciò che accade nella città. Una sala è dedicata quindi alla cartografia urbana, cioè alla lettura dei fenomeni per come si distribuiscono in modo diverso e significativo nelle aree (dalla presenza di persone straniere al voto per una parte politica piuttosto che un’altra); la cartografia è un metodo di visualizzazione e analisi applicabile a tutte le città.

 

La sala dedicata a “Oggetti, documenti” intende chiarire il ruolo delle cose come strumenti per la narrazione. Sono loro a rivolgersi direttamente al visitatore, rivelando la propria identità e funzione, anche attraverso l’ironia. Ci sono una zuppiera, una pistola, la video-testimonianza di un operaio della fabbrica tessile Fabra i Coats, il busto di una nobildonna romana.

Questo è un ulteriore strumento metodologico. Per capire la storia dobbiamo rapportarci con le fonti, con le testimonianze di diverso genere che spiegano la città. Credo che utilizzare la scala urbana per capire la storia sia più semplice e utile rispetto alla scala nazionale o europea e ci rende anche più liberi, come non potremmo essere se mantenessimo l’ampiezza di orizzonte necessaria per rappresentare un intero Paese. Un oggetto di per sé dice poco, siamo noi a farlo parlare, ma se non sappiamo interrogarlo correttamente l’oggetto non dà risposte. Per questa ragione la sala successiva espone alcuni libri sulla storia urbana di Barcellona, chiarendo quindi una volta di più il posizionamento e l’approccio epistemologico del Museo; il visitatore si è collocato all’interno del paesaggio, ha capito come servirsi dei dati statistici, dei documenti, e ora può partire dagli studi esistenti e, inseguendo i propri interessi, raccontare il proprio pezzo di storia della città servendosi di basi accurate, documentate e rigorose. È opportuno tenere presente, però, che la storia non dice la verità, la storia ricerca la verità. Inoltre a mio avviso è bene rifuggire da un approccio conservatore alla storia e contrario all’interesse collettivo, che mette a fuoco solo le memorie ed esperienze di una piccola porzione della comunità: è importante cercare di raccontare in modo sempre più preciso la città nella sua totalità, il centro come le periferie, non concentrandosi solo su un gruppo sociale o su uno spazio privilegiato, ma considerando la collettività urbana nella sua totalità, come sistema complesso, non solo le sue porzioni isolate. Capire la città nella sua totalità ci permette di capire meglio le esperienze e le esigenze degli altri e di operare scelte più consapevoli, assumere decisioni politiche libere.

 

A Praga, il 24 agosto 2022, l’Assemblea Generale straordinaria di Icom (International Council of Museums) ha approvato a maggioranza la nuova definizione di “museo5”, che vede ora la presenza di parole importanti come accessibile, inclusivo, diversità, sostenibilità. C’è un aspetto che le sembra manchi?

Nella definizione manca l’interesse per il rigore scientifico, per il metodo di lavoro di un museo, per la verifica dei fatti, mi pare sia una lacuna pericolosa per la democrazia. Quando si parla di patrimonio e di musei raramente si parla di volontà di orientarsi verso il rigore dei dati, delle informazioni, delle interpretazioni, benché sempre fallibili. In una definizione è importante chiarire il metodo e la finalità perché sia garantito un approccio democratico alla conoscenza. Negli anni di consultazioni che sono state effettuate per giungere alla definizione sono stati presi in considerazione tanti punti di vista ma non si è arrivati, a mio avviso, a una vera sintesi, bensì a un elenco di istanze. La vera finalità democratica è far sì che la conoscenza sia accessibile a tutti senza ricorrere a espedienti esclusivamente emozionali, che sono solo un tipo di narrazione, non il contenuto storico. Un museo di storia della città deve spiegare il mondo che viviamo in relazione a geografie più ampie.

 

Le battaglie per i diritti civili sono presenti quasi in ogni capitolo del Museo. Forse il filo conduttore è quel diritto alla città di Henri Lefebvre6, che compare nel primo pannello di Barcelona Flashback?

Le sale del secondo piano sono scandite da domande semplici, dirette, contenute entro fumetti, forma che rimanda immediatamente alla forma dialogica. La risposta a quelle domande va ricercata negli oggetti, nei filmati, nelle fotografie, nelle infografiche. Il diritto alla città è la motivazione che sottende all’esposizione, il diritto alla conoscenza, che ci consente di decidere in modo libero e consapevole. Il diritto alla città è la ragione per cui si fa un museo di città.

Al secondo piano mi pare che l’idea sottesa sia che la storia non è mai come la vorremmo ma spesso è come ci fa paura che sia. Il percorso aiuta a cogliere come al tempo dei romani, del cristianesimo, dei conflitti tra città marinare, delle distruzioni, le persone siano riuscite ad affrontare condizioni difficili, di limitazioni della libertà personale, di soprusi, di violenze, di conflitti. Il percorso storico non intende dare un giudizio etico e critico a ogni capitolo ma vuole fornire al visitatore gli strumenti per capire.

Il progetto museale che sta prendendo forma alla ex fabbrica Fabra i Coats parla di storia del lavoro e soprattutto del lavoro delle donne, dei bambini. La sede del Bon Pastor ricostruisce il tema dell’abitazione, del diritto alla casa, dell’immigrazione. Sono due sedi in cui si spiegano le strutture sociali, i conflitti, i meccanismi, i processi, storie personali e collettive anche molto diverse da ciò che viviamo noi oggi. Al Bon Pastor si presentano il tema dell’abitare, della città nel suo insieme, delle difficoltà degli immigrati, con una visione di lungo periodo e con la descrizione di un caso specifico, quello del quartiere e delle sue case popolari: sono state riallestite quattro case che esemplificano la vita del quartiere in quattro momenti storici diversi, quindi non con un approccio etnografico o nostalgico. Anche a distanza di tempo dall’inaugurazione l’affluenza di pubblico resta significativa, anche da altre zone della città; ciò significa che il Museo si prende cura delle relazioni di prossimità ma non solo. Se osserviamo come sia stato gestito un problema, un tema, una situazione conflittuale nel passato possiamo trarne elementi per affrontare nodi attuali come la questione migratoria. Ed è interessante anche come spesso persone che hanno vissuto quel quartiere frequentino assiduamente lo spazio museale raccontandosi ai visitatori.

 

Negli ultimi anni, il Museo ha aperto nuove sedi. Quale capitolo della storia della città le sembra che manchi ancora e che spera di poter raccontare?

Un museo è sempre in divenire, non è mai concluso e definito una volta per tutte. Il mondo cambia a una velocità tale che quando avremo concluso i lavori per un ulteriore spazio del museo in città si apriranno nuove intenzioni, nuove volontà, nuovi interessi. Attualmente stiamo lavorando per includere fra le sedi del MUHBA anche il Born, ex mercato comunale di Barcellona trasformato non molti anni fa in un centro culturale con un’ampia area archeologica coperta e uno spazio museale. Qui vorremmo raccontare il processo di modernizzazione che va dalla fine del medioevo alla città contemporanea, con tutti i suoi aspetti conflittuali, anche rispetto all’ordine costituito. Finora il Born interpretava la guerra di Successione spagnola (1701-1714) e le distruzioni cagionate dallo stato borbonico, il quale, nel 1717, decise di costruire una fortificazione demolendo parte della città. Ciò che ci interessa è inserire questo specifico episodio nell’history flow di lungo periodo.

 

Ci sono alcune parole d’ordine come comunità e partecipazione che in ambito culturale usiamo con molta disinvoltura e su cui forse non stiamo riflettendo a sufficienza.

Oggi i musei della città parlano ossessivamente di partecipazione. Bisognerebbe però ragionare maggiormente sul fatto che questo termine, così come inclusione, implica che ci sia qualcuno che include qualcun altro e dunque che qualcuno resti escluso. Nelle squadre che hanno lavorato intorno alla nascita di nuove sedi del Museo tutti i portatori di interesse sono stati coinvolti fin dal principio e non solo una volta realizzato il progetto. Se si riesce a organizzare un processo trasparente si può ottenere un risultato che dà emozione, conoscenza, storia e memoria, in modo accessibile, economico, con la materialità degli oggetti; per farlo, però, serve un progetto chiaro, una narrazione, la cittadinanza pienamente coinvolta. La questione della partecipazione rischia di essere vissuta con condiscendenza e pietismo. E qualcosa di simile avviene anche per la decolonizzazione. Noi lavoriamo anche in città dell’Africa e dell’America del sud e spesso quest’operazione è fraintesa e giudicata come neocoloniale; il nostro intento invece è quello di creare le condizioni per imparare reciprocamente, è uno scambio tra pari, una ricerca di dialogo fra le città.

Il concetto di comunità è invece utilizzato soprattutto in ambito anglosassone e diventa problematico se reso assoluto. Parlare di comunità al plurale, di strutture sociali è molto interessante; si dovrebbe però cogliere la differenza tra comunità e società, Gemeinschaft e Gesellschaft, questione rilevante nelle scienze sociali. Ma soprattutto bisognerebbe fare molta attenzione a non concepire, come spesso accade negli Stati Uniti, per esempio, le comunità costituite da persone originarie di uno stesso Paese come unità omogenee e distinte. Quello che conta è la cittadinanza, la relazione fra tutti, l’organizzazione della città. Dietro all’individuazione e all’uso di categorie come quelle delle comunità si annida il rischio di segregare ed essenzializzare. Un giusto approccio non nega le origini delle persone ma evita di assumerle come tratto assoluto e stereotipante. Un errore concettuale nella costruzione di un progetto, anche virtuoso nelle intenzioni, può generare risultati opposti rispetto a quelli cercati. I musei urbani sono luoghi straordinari per la sperimentazione sociale e spero i professionisti museali ne colgano maggiormente le potenzialità.


Note

1 https://www.barcelona.cat/museuhistoria/es, ultima consultazione di tutti i link: 16 gennaio 2024.

2 Questo lavoro è stato realizzato con il contributo finanziario dell’Unione Europea. Le opinioni espresse nel presente documento non possono in alcun modo essere considerate come l’opinione ufficiale dell’Unione Europea.

3 https://www.barcelona.cat/museuhistoria/ca/barcelona-flashback-una-mostra-experimental-i-participativa.

4 Kevin Lynch, L’immagine della città, Venezia, Marsilio, 2006.

5 Definizione di Museo: https://icom.museum/en/resources/standards-guidelines/museum-definition/.

6 Henri Lefebvre, Il diritto alla città, Venezia, Marsilio, 1968.