In apertura: ritratto di Anna Banti (Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi).
La vita, in particolare quella delle donne, si compone di situazioni in cui le parole, le azioni, gli sguardi e i corpi esistono perché occupano uno spazio, che è allo stesso tempo campo di espressione e verifica dell’identità1. Lo spazio vissuto e occupato da Anna Banti (1895-1985) – scrittrice, critica e storica dell’arte italiana e spesso conosciuta solo come Lucia Lopresti moglie del grande Roberto Longhi – nel corso della sua vita sembra aver funzionato come cifra di un destino imposto, come si può evincere dallo studio del suo archivio. È infatti indagando e riordinando il suo archivio che ci si rende conto come lei stessa per essere considerata un’autrice ha dovuto nascondersi dietro uno pseudonimo. Un nom de plume che le permettesse di affrancarsi dall’immagine della signora borghese, moglie del grande uomo. Ecco che allora per meglio comprendere il disposto emozionale di quest’archivio bisogna farsi guidare da alcune suggestioni peculiari presenti nel portato letterario bantiano. In primis quelle legate alla rappresentazione dello spazio delle donne. La scrittura di Anna Banti è incentrata sulle figure femminili e sulle scelte esistenziali che queste compiono o subiscono in base ai disposti emotivi che potrebbero essere identificati nella volontà di affermazione sociale, nella lotta verso un destino infelice e fatto di momenti di depressione e nel tentativo di trovare uno spazio di pace nonostante le avversità. Identità femminili sempre in movimento e in trasformazione, che hanno dato vita ad un archivio polimorfo, rappresentazione di una realtà archivistica nella quale una pluralità di scritture dense di emozioni trovano la loro ragione di coesistere e permettono una ricostruzione viva della biografia di Anna Banti.
L’archivio di Anna Banti, come spesso accade per gli archivi privati di persona, contiene in sé una sorta di volontarietà, in contrapposizione con la definizione canonica e di taglio istituzionale, propria della scuola italiana, che definisce l’archivio come il risultato involontario delle attività di un soggetto produttore2. La scrittrice ha selezionato, raccolto e conservato soltanto quelle scritture relative alle attività di cui voleva lasciare una traccia, quasi a voler costruire una sua «autobiografia per interposta persona» in cui l’io narrante parla di sé ma lo fa attraverso le vite altrui3. Si può dunque affermare che insito nel suo archivio sia possibile rintracciare una forte carica di emotività e soprattutto un paesaggio da cui la mente della scrittrice non riesce a prendere congedo. Non è un vero e proprio luogo, seppure l’archivio abbia una sua collocazione fisica all’interno dell’abitazione di Anna Banti, ma piuttosto l’ombra di un profilo sopra un muro, il lampo di un riflesso nello specchio4.
Osservando l’archivio di Anna Banti si può visualizzare al centro della scena la nuca di una donna ancora giovane, una testa china e un alone di silenzio che smargina il contorno dei capelli e guardando con più attenzione subito oltre le spalle appaiono un foglio bianco e una penna dentro il fuoco dello sguardo. È l’ossessivo simulacro della vocazione letteraria che rappresenta questa scrittrice, non senza un velo di nostalgia che promana anche dalla lettura delle sue carte, che – come una cartina tornasole – rimandano un’immagine di tristezza intrisa di nostalgia in una continua lotta ancestrale per la conquista di uno spazio identitario femminile inseguito per tutta la vita5.
Spazio identitario che, seppure velatamente, già si evidenzia nella lettura della corrispondenza giovanile che ci restituisce una giovane ragazza (Lucia), innamorata del suo uomo (Roberto) e incline alla sua venerazione in un afflato di emozioni che, allo stesso tempo, nascondono già quella volontà di emancipazione che la porterà negli anni a scegliere di obliare la figura della signora Lucia Lopresti Longhi a vantaggio di Anna Banti per poter esistere come donna e scrittrice.
1. Da Lucia Lopresti a Anna Banti
Lucia Maria Pergentina Lopresti nasce a Firenze, in via S. Agostino 14, il 27 giugno 1895 alle 20.30, da Luigi Vincenzo Lopresti e da Gemma Benini. Figlia di un avvocato delle Ferrovie si sposta continuamente con la famiglia.
Nel 1901 la troviamo a Bologna dove frequenta le scuole elementari, all’istituto-convitto Ungarelli, sino al 21 ottobre 1905 quando la famiglia si trasferisce definitivamente a Roma6. Bambina fantasiosa Lucia racconta e scrive favole, come si ricava da una lettera inviata a Roberto Longhi il 16 luglio 1915
Da piccola avevo la mania di dire la verità – soltanto volevo che tutti credessero ciecamente alle favole che raccontavo e … scrivevo – Già, perché non ti ho mai detto che io ho scritto da sola a quattro anni coi caratteri a stampatello così: C’ERA UNA VOLTA UNA REGINA…7.
E la stessa Anna Banti richiamerà spesso questo suo esercizio infantile della scrittura a proposito del suo esordio di narratrice quando in un’intervista rilasciata alla giornalista Grazia Livi, nel 1971, dichiara
Mi misi a scrivere perché mi è sempre piaciuto raccontare. Fin da bambina raccontavo favole ai bimbi più piccoli e segretamente scribacchiavo. Ero figlia unica, ero timida, avevo poche amiche: questo forse ha contribuito8.
Come si può ben comprendere da questi ricordi infantili è innegabile che Anna Banti volesse usare la scrittura per trasmettere la sua solitudine e quel destino intriso di infelicità che spesso connoterà sia lei sia le protagoniste dei suoi romanzi. Sentimenti che ben si delineano approcciandosi a quello che rimane del suo archivio.
Nell’autunno del 1911 inizia a frequentare il Liceo Tasso fra «insipide bestioline», «candidate irrevocabili al matrimonio», lei che invece era già una ribelle, indipendente con una spiccata voglia di autonomia che le crea la fama di «signorina strana, femminista […] intrattabilmente superba e canzonatrice»9. Il 1913 è l’anno della terza liceo e viene segnato dall’incontro con Roberto Longhi che impartisce al Tasso un insegnamento sperimentale di storia dell’arte. All’epoca Roberto Longhi aveva 23 anni mentre Lucia ne aveva soltanto 17. Nasce fin da subito tra i due un sodalizio sentimentale ed intellettuale che durerà per tutta la vita. Sodalizio che è ben visibile sia nella cura che Anna Banti ha avuto delle carte di Roberto Longhi che nella creazione della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte a lui intitolata.
Nell’autunno del 1914 inizia a frequentare la facoltà di Lettere di Roma e nel 1916 partecipa alle avventure intellettuali di Roberto Longhi che, sottotenente in congedo, stabilitosi a Firenze, rinviene nei depositi degli Uffizi il Bacco adolescente e lo attribuisce a Caravaggio. Qualche mese dopo Longhi viene richiamato in servizio e assegnato al reggimento di Bracciano, qui indotto dalla depressione si abbandona a fantasie di suicidio. Nell’ottobre Lucia preoccupata per il silenzio del fidanzato gli manda un espresso firmato «Banti»: si affaccia sulla scena per la prima volta, usato come maschera, il nome che diventerà lo pseudonimo della scrittrice10. Ed ecco allora emergere dalla lettura di questo telegramma una congerie di emozioni che negli anni a seguire contribuiranno alla creazione dell’identità parallela che contraddistinguerà fino alla fine il rapporto tra Lucia e Anna.
Firma che ritroveremo l’anno successivo quando Roberto Longhi entrato a Milano a lavorare nel Consorzio per lo sviluppo del giocattolo italiano (GIOCOSA) decide di potenziare la produzione italiana dei giocattoli e invita tutti gli aderenti a fabbricare giocattoli da esporre in una mostra campionaria. Entusiasta, Lucia si mette all’opera e realizza una serie di giochi di legno a firma Anna Banti11.
Intanto sceglie come argomento di tesi l’artista del barocco veneziano Marco Boschini e si laurea nel 1918 in storia dell’arte. La sua tesi diventerà un saggio che sarà pubblicato sulla rivista “L’Arte” e che verrà lodato dal letterato Benedetto Croce su “La Critica” come uno fra i più pregevoli lavori italiani.
Il 31 gennaio 1924 sposa civilmente Roberto Longhi e il 19 maggio si svolge la cerimonia religiosa in Santa Teresa in Roma12. Alloggiano provvisoriamente prima in via Massaua n. 6 e poi si trasferiscono nel villino dei genitori di Lucia in via Mogadiscio n. 7. Iniziano a frequentare gli intellettuali romani, tra cui i Contini Bonacossi, Emilio Cecchi e la moglie, la pittrice Leonetta Pieraccini ed altri. Attraverso queste relazioni emotive Lucia sviluppa la consapevolezza di dover alienare la sua persona a vantaggio di una nuova identità per poter meritare una visibilità non solo come moglie ma come scrittrice. Reazione questa che ben si riflette nell’archivio, che attraverso le sue scritture racconta simultaneamente due situazioni. In primis il prezzo sociale pagato da Lucia che sceglie di mettersi in uno spazio non previsto dal suo ruolo di moglie di Roberto Longhi, in seconda analisi ci racconta il modo in cui Lucia ha deciso di reinventare la sua biografia creando la figura di Anna Banti.
Nei primi anni del matrimonio Lucia Lopresti si interroga sul proprio destino, consapevole che nella critica d’arte potrebbe avere soltanto un ruolo di secondo piano e decide di provare a fare la moglie (velata confessione che lei stessa farà nel racconto La signorina pubblicato nel 1975). Intanto matura con grande sforzo il proprio sofferto distacco dalla scrittura d’arte per passare alla letteratura e nel 1930 si compie la svolta e si colloca il punto di snodo della vicenda umana che trasformerà Lucia Lopresti in Anna Banti.
Il quotidiano “La Tribuna” bandisce un concorso letterario a cui Lucia Lopresti invia un racconto Barbara e la morte firmandolo Anna Banti. Non vince il premio ma viene pubblicato sul giornale il 13 luglio.
Lei stessa di questa scelta dirà in seguito
ero la moglie di Roberto Longhi e non volevo espormi né esporlo con quel nome. Né volevo usare il mio nome di ragazza, Lucia Lopresti, col quale avevo già firmato degli articoli d’arte. Così scelsi Anna Banti: il mio vero nome, quello che non m’è stato dato dalla famiglia né dal marito13.
E quel nome come si può evincere da altri scritti non è scelto a caso. Si legge, infatti, in un’altra testimonianza
Anna Banti era in realtà un personaggio che già viveva in me e che il filtro magico della memoria s’incaricò di portare a galla. Era una lontana parente di mia madre, una signora che nel ricordo mi tornava sempre velata, quasi temesse di esporre la propria pelle ai raggi del sole. Analizzandola, scorgevo in essa il simbolo di una condizione eterna della donna: quel suo esistere all’ombra dell’uomo, dipendere da lui14.
La tematica del destino femminile sarà presente in quasi tutta la narrativa bantiana, ma occorrerà tempo perché si affermino le sue scelte di scrittura tanto che un secondo racconto apparirà solo nel 1934, quando Anna Banti decide di uscire allo scoperto e lo fa con il racconto Cortile, legato inequivocabilmente all’infanzia bolognese di Lucia, pubblicato su “Occidente”, la rivista di Armando Ghelardini, editore dell’Officina ferrarese di Roberto Longhi15. Per lungo tempo, però, pochi hanno saputo chi fosse veramente Anna Banti, complice un ingegnarsi di Lucia Lopresti a confondere le piste, per innata timidezza e allergia alla mondanità. Vi è un aneddoto legato a questa fase della sua vita che rende bene l’idea: nel 1935 la rivista “Italia Letteraria” le chiede una fotografia, la scrittrice invia la foto di una signora di mezza età, vestita in modo singolare, piacevolmente antiquato.
Nel ricordare questo momento della sua vita Anna Banti racconta
Fu uno scherzo e anche uno schermo alla mia giovanile timidezza. Allora non si usavano certe esibizioni propagandistiche, uno scrittore serio rifuggiva dai mezzi pubblicitari da divo del cinema. La foto che mi era richiesta dal settimanale era stata tolta da un album di famiglia: pare si trattasse di una signora brasiliana, amica di mia suocera16.
Il gioco dell’identità andrà avanti a lungo tanto che per tutto il 1946 le lettere di Alberto Mondadori a proposito della traduzione di Vanity Fair e di Jacob’s Room sono indirizzate prima alla «Signora Lucia Longhi», poi dal 20 marzo alla «Signorina Anna Banti».
Gli anni che seguono vedono, da un lato, Anna Banti sempre più attiva nella scrittura e dall’altro Roberto Longhi ottenere la cattedra di Storia dell’arte medievale e moderna a Bologna e attestarsi sempre più come una figura preminente nel mondo della critica d’arte.
Indubbiamente in questo periodo inizia quel lavoro di scavo, da parte di Lucia/Anna, nella propria infanzia e adolescenza, in cui compaiono già alcuni temi – la volontà d’indipendenza, la diffidenza nei confronti del matrimonio, la voglia di monacazione, i progetti di fuga – che rimarranno fondamentali nella sua opera e che daranno vita, in particolare, nel 1937 all’Itinerario di Paolina.
Da questo momento in poi si svilupperà nella scrittura e nella vita di Anna Banti un percorso emotivo puntellato da alti e bassi in un intreccio di turbamenti, eccitazioni, apprensioni e inquietudini che si esprimono pienamente nelle assenze e nelle presenze documentarie riscontrabili nel suo archivio17.
Nel febbraio del 1940 Le Monnier pubblica Il coraggio delle donne che contiene alcuni dei racconti rifiutati da Bompiani e vincerà il Concorso Galante dell’Almanacco Bompiani. La raccolta inaugura quella serie di figure femminili umiliate, offese, risentite che saranno da questo momento in poi una costante della scrittura di Anna Banti. Le recensioni sono favorevoli, fatta eccezione per quella di Mario Alicata che dalle pagine de “La Ruota” parla di Anna Banti come di una scrittrice di «ostinata perfidia», di «intelligenza spietata e assurda». Inizierà così la leggenda della crudeltà della Banti, in cui pochi sapranno, invece, riconoscere l’esito di un’umanità profonda e straziata, che caratterizzerà sia lo stereotipo delle figure femminili bantiane che la sua stessa identità.
Nel 1942 inizia la prima stesura di Artemisia e si dedica alla scrittura trascorrendo le sue giornate in completa solitudine come si evince da una lettera inviata all’amica Leonetta il 13 febbraio dove si legge: «qui a Firenze, a forza di solitudine, credo che perderò l’uso della parola»18. Nei mesi a seguire i tempi si faranno sempre più duri e le angosce e le difficoltà dovute alla guerra segneranno una battuta d’arresto nella scrittura di Anna Banti. Il 25 settembre del 1943 Firenze viene bombardata e Anna Banti è smarrita, scrive all’amica Maria Bellonci
Ora non so che dire. Siamo qui colle braccia aperte ma forse il vostro destino è migliore del nostro. Vederti sarebbe, senza esagerazione, l’unica cosa che mi sia permesso, ormai, di desiderare: e piangere con te. Cara, finché puoi scrivimi: fallo proprio come mi verresti a trovare se fosse malata19.
Sono anni difficili per l’Italia. Anna Banti non è solo smarrita ma, come si evidenzia dalla lettura del suo archivio, è anche arrabbiata, mortificata e spaventata, soprattutto quando l’anno successivo il marito, Roberto Longhi, rifiuta di prestare servizio sotto la Repubblica Sociale Italiana e sono costretti a lasciare la loro casa per rifugiarsi nell’appartamento di un amico in via Guicciardini, in pieno centro storico. Una scelta questa che costerà molto alla Banti, non solo perché dovrà abbandonare la sua casa e la sua vita, ma anche da un punto di vista professionale, in quanto il 29 luglio del 1944 il comando tedesco evacuerà tutto il quartiere, che verrà minato per ritardare l’avanzata degli alleati. Lucia e Roberto verranno sfollati in Palazzo Pitti e sotto le macerie della casa di via Guicciardini rimarranno una parte dell’archivio di Anna Banti e il primo manoscritto su Artemisia, che la scrittrice riscriverà ex novo e pubblicherà nel 194720.
Il dopoguerra in Italia è un periodo delicato in cui prevale un forte desiderio di pace e di ricostruzione sociale e culturale. Su questa scia nel 1950, insieme a Roberto Longhi, Anna Banti fonda la rivista “Paragone” dove si occuperà di critica cinematografica e letteraria. Stringe rapporti di amicizia con Sibilla Aleramo, Pier Paolo Pasolini ed altri scrittori ed intellettuali. Nel 1962 pubblica il romanzo Le mosche d’oro che viene definito dalla critica uno sforzo per agganciare il presente anche da un punto di vista linguistico e che la Banti stessa definirà, in una lettera inviata ad Alberto Mondadori, «un atto violento in tutti i sensi, qualcosa che ha impegnato il mio coraggio e il mio senso di responsabilità, totalmente»21. È esemplare a questo proposito come l’unico dattiloscritto conservato in archivio sia proprio questo, come se la Banti avesse voluto trasmettere ai posteri la fatica e il coraggio che l’avevano animata in questo progetto editoriale e come la sua scrittura sia sempre stata pienamente espressiva del suo tentativo di trovare uno spazio letterario riconosciuto sia dal pubblico che da quella critica che l’aveva sempre considerata una signora borghese lontana e superba dal mondo reale22.
Gli anni che seguono vedono la pubblicazione di una biografia di Matilde Serao (1965), del romanzo Noi credevano (1967) che racconta la storia del nonno di Lucia, Domenico Lo Presti, personaggio risorgimentale. Protegge e incoraggia giovani scrittrici, fra cui Gina Lagorio; sollecita collaborazioni a Soldati, a Siciliano, a Pasolini ed interviene due volte sulla rivista Rinascita a favore della questione femminile con gli articoli La mamma lavora e L’emancipazione non c’entra. Nel 1969 Anna Banti ha 74 anni, è ormai profondamente amareggiata dal mondo della critica letteraria e stanca del suo personaggio di signora borghese. Leggendo la documentazione conservata in archivio si percepisce come la scrittrice stia vivendo una crisi letteraria ed emotiva che la porterà a sostenere, a seguito di un’inchiesta lanciata da “Il Giorno” sul tema se il romanzo sia morto, che non esiste una crisi del romanzo, bensì dei romanzieri e soprattutto dei critici.
Il 3 giugno 1970 muore Roberto Longhi. In esecuzione di quanto disposto dal suo testamento del 18 aprile 1970, Anna Banti costituisce la Fondazione Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi. In estate si rifugia nella casa di Ronchi dove «in un limbo senza luce», le tiene compagnia l’amica e collaboratrice Fausta Garavini. La morte del marito è per Anna Banti un momento difficile. Ha perso l’uomo che sin dalla gioventù aveva venerato e che aveva protetto rinunciando anche alla sua stessa identità (Lucia) quando aveva scelto di costruirsi un proprio spazio professionale. Ma allo stesso tempo questa perdita sarà per Anna Banti quella forza catalizzatrice che le permetterà di dare finalmente voce alla sua esistenza e alla sua storia di donna. Gli anni che seguono rappresentano un’intricata matassa di emozioni che avranno una piena ricaduta sulla produzione letteraria della scrittrice e sulla sedimentazione e relativa conservazione delle sue carte. Ancora legata da un cordone ombelicale difficile da recidere, nel 1971 decide di recarsi in Portogallo, insieme all’amica Fausta, per compiere un viaggio di «risarcimento alla memoria» del marito, che non era mai riuscito a vedere dal vivo la pittura portoghese23.
Nell’aprile del 1981 viene pubblicato Un grido lacerante che ripercorre il viaggio portoghese. Questo romanzo, di cui si tratterà più avanti, è certamente l’opera più significativa per comprendere da un lato le assenze/presenze documentarie dell’archivio di Anna Banti e dall’altro lato il carico di emozioni (ansia, infelicità, voglia di affermazione, rivalsa e non ultimo lutto) che ha costellato la vita della scrittrice e che ben si evince dalla lettura delle sue sedimentazioni scrittorie. In questo romanzo, così come accadrà poi nella vita reale quando la scrittrice deciderà di mettere ordine tra le sue carte, Lucia Lopresti torna a fare i conti con Anna Banti chiedendole di pagare un prezzo altissimo. Morirà il 2 settembre 1985 a Ronchi dove si era trasferita per passare l’estate.
2. Quello che rimane… nel setaccio della penultima ora
Per comprendere fino in fondo l’archivio di Anna Banti bisogna però soffermarsi su un’analisi più accurata e soprattutto più intima della scrittrice. Alla luce di quanto delineato, seppure sommariamente, ci si aspetterebbe di rintracciare nel suo archivio quella laboriosità che l’ha contraddistinta sia nella sua vita privata che, particolarmente, nella sua vita professionale: così come, spesso, accade per altri soggetti produttori privati che conservano all’interno dei loro archivi carte eterogenee a metà tra pubblico e privato, diverse stesure delle opere letterarie, diari, corrispondenza, materiali di studio, ritagli stampa, libri postillati ed altro ancora24. Ovvero tutte quelle testimonianze archivistiche che di solito è l’autore stesso a conservare, consapevole che le sue tappe lavorative, in particolare, ma a volte anche private verranno scandite dall’archivio e contribuiranno a creare quella sorta di autobiografia “filtrata” che sappiamo essere cara a tanti autori e personalità25.
Così non è. Quello di Anna Banti, per usare le parole di un noto cantautore italiano, Vinicio Capossela, è «quello che rimane da spartirsi e litigarsi nel setaccio della penultima ora»26.
Le vicende della trasmissione delle scritture di Anna Banti sono da rintracciarsi, a primo impatto, in un momento particolare della vita della scrittrice. Nel 1981, come già detto, esce il romanzo Un grido lacerante: una resa dei conti tra Lucia Lopresti e Anna Banti, che qualche anno dopo, intorno alla metà del 1983, porterà la scrittrice a decidere di mettere ordine tra le sue carte. Presa da un attacco di isteria, così racconta la vulgata ma così non è, e sentendosi sopraffare dalla quantità di documenti conservati e raccolti nel corso della sua lunga vita, Anna Banti decide di distruggere tutto il suo archivio, tutto il suo passato, tutte le tracce del suo passaggio terreno, compiendo così – consapevolmente – un’operazione mirata ad obliare Lucia Lopresti, Anna Banti e le loro vite. Ma la questione della conservazione delle carte bantiane è molto più complessa ed è possibile leggerla attraverso l’analisi di tre romanzi, Itinerario di Paolina – Sette lune – Un grido lacerante, che la scrittrice stessa ha definito pienamente autobiografici e che rappresentano appieno quelle emozioni che la porteranno a distruggere una parte del suo archivio27.
La spiccata somiglianza che lega il grande ritratto eseguito nell’estremo Un grido lacerante agli schizzi tracciati più di quarant’anni prima in Itinerario di Paolina e in Sette lune, il romanzo d’esordio e il successivo, consapevolmente imprime una esatta forma circolare, una simmetria ferrea al suo percorso narrativo. Quella che in Paolina (protagonista del primo romanzo) e in Maria Alessi (protagonista del secondo romanzo) non appare che una vaga inclinazione, l’attitudine per il momento indecifrabile di due studentesse solitarie, diventerà per Agnese Lanzi (protagonista dell’ultimo romanzo), storica dell’arte mancata ma celebre scrittrice, la scelta decisiva, anche luminosa di un mestiere. L’opera stessa, poiché si avvera, trasforma un oroscopico presagio nel compimento assoluto di un destino.
Per quanto la trama sembri procedere in direzione opposta, il significato autentico di Un grido lacerante riposa nella contemplazione incantata, tutto sommato riconoscente, di una sorte difficile non da accettare, ma da seguire. Più che il resoconto umiliato di una sconfitta, l’ultimo romanzo – e di conseguenza la sedimentazione dell’archivio di Anna Banti – rappresenta la cronaca orgogliosa, addirittura stupefatta di un trionfo. Come si evince dall’intervista rilasciata a Enzo Siciliano nel 1981 dove la Banti racconta come è nato Un grido lacerante e dice
I fogli si sono messi insieme da soli, non so neanche io come. Ero ospite di un’amica a Maratea, scrivevo con un quaderno sulle ginocchia, e non sapevo cosa scrivevo. Non avevo idea di un romanzo, o di un libro. Poi all’improvviso, il libro diventò una concreta realtà. Ne intuii la conclusione e lo conclusi nel modo più rapido possibile28.
Pochi giorni dopo, in un’altra intervista, Anna Banti dirà più allusivamente di «un libro nato per caso da fogli e foglietti che all’improvviso si sono intrecciati quasi per un fenomeno magnetico». Un processo di scrittura automatica che permetterà ad Anna Banti di entrare nuovamente in contatto con Lucia Lopresti, dopo una vita passata ad obliarla, e che allo stesso tempo farà emergere dal profondo del subconscio tutti i conflitti psicologici non risolti con cui la scrittrice aveva lottato per tutta la vita.
La genesi di quello che la scrittrice pensava di intitolare all’inizio Memorie travestite, così come lei stessa la ricostruisce a posteriori, non si direbbe troppo diversa dalla nascita di Agnese scrittrice secondo il suo romanzo. Spezzato in due metà dalla morte del Maestro (Roberto Longhi marito di Lucia Lopresti), calamità che precipita dentro la trama con un effetto di esplosione o di catastrofe, Un grido lacerante narra nella seconda parte l’opera di smantellamento mentale e successivamente anche reale delle proprie carte e dunque del proprio archivio compiuta da Agnese (Anna Banti / Lucia Lopresti) in una sorta di vendicativo quanto liberatorio sacrificio29.
Un castigo inflitto da Lucia ad Anna per averla obliata con l’uso dello pseudonimo ma insieme una penitenza attuata da Anna verso Lucia per potersi assolvere. E dunque approcciandosi alla lettura dell’archivio di Anna Banti è inevitabile percepire come la scena del romanzo, che nella trama dovrebbe rappresentare per Agnese Lanzi (la protagonista) un luttuoso esercizio di mortificazione, un’offerta votiva di umiltà alla memoria del Maestro, diventa invece nella realtà e nella scelta consapevole di intervenire sulle carte e lasciare memoria attraverso esse, una rivendicazione orgogliosa del disegno di sé imposto al destino e un attestato inconfutabile del proprio talento di scrittrice, come dimostrano le bozze manoscritte e dattiloscritte dei racconti conservatisi. Analizzando nel profondo le carte di Anna Banti è perfettamente comprensibile come la scena della consacrazione di Agnese alla scrittura sia stata collocata in posizione perfettamente simmetrica a quello dello smantellamento dell’archivio. Ed è così che ripercorrendo il romanzo è stato possibile capire e avere in qualche modo le risposte al perché di alcune assenze documentarie30.
Accanto a questa prima rilevazione, non va escluso un altro elemento caratterizzante della figura della scrittrice, che ci rende un’ulteriore conferma di come l’operazione di oblio messa in atto non sia solo dovuta ad un momento di crisi e isteria. Si può, infatti, tranquillamente affermare che Anna Banti era una pessima segretaria di sé stessa, oltre ad aver distrutto tutti i suoi manoscritti, non ha mai tenuto registro delle sue cose edite, e quando ripubblica un testo con la dicitura «trovato in fondo a un cassetto», come afferma Fausta Garavini «si può stare sicuri che non mente, il contributo è davvero inedito»31.
Era solita scrivere a penna, su quaderni grandi formato registro, e poi trascriveva a macchina, rimaneggiando, ripulendo. Ma quaderni e dattiloscritti erano destinati immediatamente alla sparizione della sua intelligenza «ritrosa nemica di qualsiasi narcisismo, a dispetto delle voraci formiche filologiche sempre a caccia di briciole di varianti». Disapprovava, insomma, la meticolosa conservazione delle carte, il culto votato ai preziosi residui delle proprie stesure, da dare in pasto agli studiosi e «alla curiosità pettegolaia che talvolta ne alimenta le ricerche»32.
Non teneva diari e non ha mai scritto un’autobiografia e la corrispondenza conservata nel corso della sua vita per espletare le normali attività e relazioni quotidiane è stata, in parte, volutamente distrutta prima della sua morte. È innegabile come in questa operazione di distruzione sistematica della memoria e del suo passaggio terreno Anna Banti avesse, sin dal momento in cui si sceglie un nuovo nome e una nuova identità, deciso di consegnare consapevolmente attraverso la scrittura delle sue opere la trasmissione della sua memoria. Una memoria intrisa di subconscio e realizzata al fine di canalizzare tutte le contrastanti emozioni che avevano affollato il suo spirito sin dall’infanzia.
Immergendosi ancora di più nello studio del personaggio Anna Banti, attraverso le poche interviste da lei concesse o i racconti fatti agli amici, è evidente questa sua volontà di non conservare, poiché lei stessa della sua vita diceva che «sono cose non essenziali; e che quello che per lei era importante lo aveva detto nei suoi libri». Motivo per cui la scrittrice, due anni prima di morire, decide di fare una selezione e uno scarto del suo archivio, da cui si sprigionava quella vita reale frutto della sedimentazione della quotidianità di una donna che aveva deciso di lasciare traccia di sé solo come Anna Banti e non come Lucia Lopresti. Una donna che conosceva molto bene il potere e il valore dell’archivio nel suo essere testimone e giudice delle scelte compiute e vissute33.
Ecco che dunque individuare cosa era rimasto per poterlo riordinare e redigerne un inventario, ha avuto sin dalle prime fasi embrionali della ricerca un obiettivo specifico: cercare di riprodurre l’immagine delle funzioni letterarie, personali e soprattutto le dinamiche emotive consce e inconsce del soggetto produttore, nell’intento di ricostruire il sistema da questi adottato nell’organizzare la propria memoria, nel realizzare le tecniche e le logiche di produzione, nella gestione e nella conservazione delle sue scritture. È, dunque, in questa operazione di individuazione e del successivo ordinamento/riordinamento che si è cercato di rilevare ed esaltare il polimorfismo insito nelle attività e nelle scelte operate da Anna Banti che, naturalmente, hanno poi avuto una ricaduta sulla sedimentazione archivistica. Frutto questa della continua ricerca di equilibrio, identità e affermazione di una donna consapevole di meritarsi uno spazio d’azione proprio, ma costretta dalla società a incarnare un ideale di donna non collimante con la sua natura intellettuale e emotiva.
Gli archivi di persona, come risaputo, rappresentano una particolare tipologia di archivi privati il cui elemento caratterizzante e unificante è l’individuo che li ha prodotti. Tale peculiarità ne fa dei complessi organici, all’interno dei quali le singole parti acquistano pieno significato34. E dunque se a primo impatto l’archivio di Anna Banti, così come appariva, poteva sembrare un caso di archivio improprio, nel quale quel vincolo naturale e originariamente esistente tra le carte non era più riconoscibile, l’analisi archivistica ha invece evidenziato che quello che rimane può definirsi una sorta di «archivio scomposto»35.
I tasselli e le presenze/assenze documentarie, in gran parte già comprese, vanno ricercate non all’interno ma bensì all’esterno, nella consapevolezza che per poter riassemblare il composito puzzle “bantiano” sia necessario muoversi su quelle coordinate individuate nella verticalità temporale e nell’orizzontalità istituzionale, che ci permettono di allargare il campo di indagine verso una individuazione polimorfa delle scritture prodotte.
Ed è in questa fase di ricerca del polimorfismo archivistico ed allo stesso tempo emotivo, che l’archivio di Anna Banti sembra rilevare pienamente l’assenza di presunti rigori istituzionali sino a diventare una sfida notevole al concetto di vincolo che si sfilaccia per ricomporsi, successivamente. E lo fa proprio grazie al polimorfismo, che ci permette di recuperare quelle informazioni mancanti nell’archivio del soggetto produttore, comprendere più a fondo il motivo di talune assenze documentarie, e ritrovare, esternamente in altri archivi, documentazione utile a recuperare quelle lacune e informare su ulteriori aspetti.
Un complesso documentale originato con le caratteristiche naturali di archivio – esistenza del soggetto produttore e suoi rapporti con il mondo esterno – può dunque, a seguito di operazioni di scarto volontario, divenire incompleto, ma rimarrà sempre un archivio poiché le trasformazioni della struttura non possono incidere sulla natura: il corpus potrà essere scomposto, depauperato ed anche mutilato, ma rimarrà sempre in esso la natura di corpus36.
In questo senso il polimorfismo si esalta e le tecniche e le logiche di produzione, gestione e conservazione impazzano; poiché la ricerca di quel fil rouge che identifica le componenti documentarie di un archivio altro non è che un seguire quelle mappe della vita del soggetto produttore che, come nel caso di Anna Banti, è innegabilmente intrecciata con la produzione e la lettura delle sue opere, così da permetterci di disegnare e recuperare arcipelaghi documentari imprevedibili. Seguendo questo polimorfismo dunque si possono recuperare, se non i documenti veri e propri, almeno quei contenuti informativi che ci permettono di comprendere ancora più a fondo il perché delle assenze, delle presenze e ritrovare aspetti a volte sconosciuti. E se, durante i mesi di ricerca, il vincolo sembrava in un primo momento sfilacciarsi, perdere quella sua naturale rigorosità, successivamente quando le attività di analisi e ricognizione hanno iniziato a restituire le tracce documentarie, il risultato è stata la ricomposizione del puzzle che rappresenta la cifra distintiva dell’archivio scomposto di Anna Banti.
3. Conclusioni
L’archivio di Anna Banti è da considerarsi – almeno per chi scrive – un’occasione per riflettere sul significato, la consistenza e l’impatto delle emozioni nell’influenzare la forma e il contenuto dell’archivio stesso. Le scritture bantiane conservatesi nel loro multiforme complesso trovano piena espressione soltanto guardandole attraverso quel filtro di elaborazione dei ricordi, che la scrittrice ha messo in atto quando ha deciso di riordinare le sue carte. Un’elaborazione avvenuta attraverso la registrazione e la sedimentazione – sia nelle opere letterarie che nell’archivio – di fatti concreti, di stati d’animo e componenti emotive. Memorie emozionali, in grado di influenzare le scelte e le reazioni di Anna Banti e che in un momento di crisi, dovuto anche all’avanzare dell’età, hanno influenzato le sue scelte conservative. Per concludere attualmente le presenze documentarie riscontrate presso l’archivio di Anna Banti, legate da quel vincolo archivistico interno di cencettiana memoria, sono composte dalle seguenti serie archivistiche: Corrispondenza; Giornali; Racconti; Recensioni; Rassegna Stampa; Scritti di costume; Scritti di cinema; Scritti letterari; Contratti editori; Schede bibliografiche; Amministrazione dei beni (Villa Il Tasso, Villa Il Cancello rosso; Appartamenti siti a Roma in Via Livorno 51, Via Livorno 89, Via del Tritone); Documenti personali e familiari; Archivio fotografico.
Si segnalano inoltre: una cospicua parte della documentazione inerente la realizzazione dell’opera Corte Savella tra cui le riproduzioni fotografiche dei documenti del processo di Artemisia Gentileschi conservati presso l’Archivio di Stato di Roma; il dattiloscritto delle Mosche d’oro; una serie di recensioni cinematografiche realizzate da Anna Banti e pubblicate su varie riviste; documentazione. inerente il bisnonno Domenico Lopresti che ha dato vita al romanzo storico Noi credevamo.
Ne consegue che l’immagine che attualmente ci rimanda l’archivio è quella di una donna che si è lasciata affondare in un lago dolcissimo e traditore, che l’ha portata a scegliere di illuminare sulla carta le verità per sempre nascoste del cuore umano e scandagliare con le parole i pozzi senza fondo in cui giace melmosa la verità della storia. In un primo momento Anna Banti si è limitata a osservare in silenzio «quell’affollato risvegliarsi di fantasmi fuoriusciti dal suo archivio domestico» accontentandosi di annodare mentalmente i fatti e le persone37. Successivamente la donna dalla penna tagliente, giudicante, morbida, partecipe che, come un entomologo, ha analizzato manie, difetti e ridicolezze dei suoi contemporanei e della società in cui ha vissuto, ha scelto di obliare il suo passaggio terreno a vantaggio della sua proficua produzione letteraria lasciando nel suo archivio soltanto quei semi necessari a far germogliare una conoscenza di sé, non filtrata ma stabilita da un preciso destino.
Note
1 Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, Torino, Einaudi, 2022, p. 6.
2 Antonio Romiti, Gli archivi privati visti da più prospettive, in Roberto Guarasci e Erika Pasceri (a cura di), Archivi privati: studi in onore di Giorgetta Bonfiglio-Dosio, Roma, Consiglio nazionale delle ricerche, 2011, p. 8.
3 Sue McKemmish, Evidence of me …, in “Archives and Manuscript”, 1996, n. 24, p. 29.
4 Catherine Hobbs, The Character of Personal Archives: Reflections on the Value of Records of Individuals, in “Archiviaria”, 2001, pp. 126-135: 52; Mario Isnenghi, Parabola dell’autobiografia. Dagli archivi di “classe” agli archivi dell’io, in “Rivista di storia contemporanea”, 1992, pp. 397-499: 2-3.
5 Margherita Ghilardi, La capra matta. Autobiografia e destino in Anna Banti, in “Paragone Letteratura”, 2019, n. 141-143, pp. 85-121.
6 Esiste ancora oggi davanti all’ex sede dell’Ungarelli lo «scivolo di pietra e di cotto che, cordonato di neve leggera, aspettava i suoi piccoli piedi» che Anna Banti descrive nel racconto Ballata della grassa città del 1947.
7 Università degli Studi di Pavia – Centro Manoscritti, Fondo Roberto Longhi. Corrispondenza, 16 luglio 1915, segnatura LON 01 0144.
8 Grazia Livi, Tutto si è guastato, in “Il Corriere della sera”, 15 aprile 1971, p. 10.
9 Università degli Studi di Pavia – Centro Manoscritti, Fondo Roberto Longhi, cit., fine luglio 1915.
10 Sandra Petrignani, La sfortuna di essere seri, in “Il Messaggero”, 8 novembre 1983, p. 8: in questa tardiva intervista la scrittrice dirà che Anna Banti «era una parente della famiglia di mia madre. Una nobildonna molto elegante, molto misteriosa. Da bambina mi aveva incuriosito parecchio».
11 Università degli Studi di Pavia – Centro Manoscritti, Fondo Roberto Longhi, cit., gennaio-febbraio 1917: Lucia Lopresti scrive a Roberto Longhi sull’invio di un giocattolo «un canino di fil di ferro bianco – sai bene, quelle bestiole ragnesche che pedalano il terreno con quelle gambette microscopiche! e con quelle gualdrappine padronali sulla schiena – Lo si potrebbe legare con un cordoncino a qualche tipo di signora o di cocotte di tua fabbrica».
12 Giuseppe Grieco, Anna Banti, in “Grazia”, 19 novembre 1961, p. 4: racconta in un’intervista Anna Banti «La nostra fu una cerimonia semplice, senza sfarzo né mondanità. Pochi invitati, e scelti tra gli amici sicuri. Eravamo due che sentivano di dover percorrere un lungo cammino insieme. Ciò che ci univa non era solo l’amore, ma una concezione della vita, un modo di guardare le cose, una comunità di interessi».
13 Livi, Tutto si è guastato, cit., p. 10.
14 Grieco, Anna Banti, cit.
15 Enza Biagini, Con sguardo di donna: i “racconti di costume” di Anna Banti, in Silvia Franchini e Simonetta Soldani (a cura di), Donne e giornalismo. Percorsi e presenza di una storia di genere, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 276-291.
16 Rossana Ombres, Una sosta nello studio della scrittrice Anna Banti, in “Stampa sera”, 12 marzo 1965, p. 7.
17 Per una biografia estesa e puntuale si rimanda alla lettura di: Anna Banti. Romanzi e racconti, a cura e con saggio introduttivo di Fausta Garavini con la collaborazione di Laura Desideri, Milano, Mondadori, 2013, pp. LX-CLXI.
18 Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti, Gabinetto G.P. Vieusseux, Fondo Cecchi, s.n., lettera a Leonetta Cecchi, Firenze, 13 febbraio 1942.
19 Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Carteggio Bellonci, 1926-1944, A.R.C.31.I, n. 46, Firenze, 11 ottobre 1943.
20 Edoardo Bassetti, Scrivere (e dipingere) l’Altrove. Anna Banti, Artemisia e Lily Briscoe: per un’arte “di memoria, non di maniera”, in “Allegoria”, 2020, n. 82, pp. 186-201: XXXIII.
21 Archivio Storico Mondadori, Carteggio Alberto Mondadori, s.n., Firenze, 10 aprile 1962.
22 Myriam Trevisan, Gli archivi letterari, Roma, Carocci, 2009, p. 1-127; Ersilia Alessandrone Perona, Gli archivi personali, in “Rassegna degli Archivi di Stato, 1999, pp. 60-66: 59.
23 Anna Banti. Romanzi e racconti, cit., pp. LX-CLXI.
24 Raffaeli, Marina, Archivi di persona e archivi di famiglia: una distinzione necessaria, in “Nuovi Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari”, 2008, pp. 185-209: 22.
25 Stefano Vitali, L’Archivio di Guido Quazza come autobiografia, in “Passato e presente”, 2009, n. 27, pp. 151-158.
26 Vinicio Capossela, Che Cos’è l’amor, in Camera a sud, Bologna, GCD East West, 1994.
27 Il futuro della memoria. Atti del Convegno Internazionale di studi sugli archivi di famiglie e di persone, Capri, 9-13 Settembre 1991, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali – Ufficio centrale per i beni archivistici, 1997. Si vedano i contributi di: Antonella Pompilio, L’archivio della Casa editrice Laterza: un contributo alla storia della cultura italiana, pp. 459-468; Stefania Martinotti Dorigo, L’archivio storico della Fondazione Luigi Einaudi di Torino, pp. 552-557.
28 Enzo Siciliano, Strappare il velo che oscura la verità, in “Corriere della Sera”, 12 agosto 1981.
29 Ghilardi, La capra matta, cit., pp. 85-121.
30 Marina Zancan (a cura di), Alba de Céspedes. Approfondimenti, Milano, Il Saggiatore, 2005, si vedano i contributi di: Linda Giuva, L’archivio come autodocumentazione, pp. 383-391; Alessandra Miola, Il riordinamento e l’inventariazione: criteri, scelte e problemi, pp. 392-397; Il futuro della memoria, cit., si vedano i contributi di: Pompilio, L’archivio della Casa editrice Laterza, cit., pp. 459-468; Martinotti Dorigo, L’archivio storico della Fondazione Luigi Einaudi di Torino, cit., pp. 552-557.
31 Fausta Garavini (a cura di), Anna Banti. Racconti ritrovati, Milano, La nave di Teseo, 2017, pp. IX-XXIX.
32 Ibid.
33 Elena Gianini Belotti, Anna Banti e il femminismo, in Enza Biagini (a cura di), L’opera di Anna Banti. Atti del Convegno di studi di Firenze, 8-9 maggio 1992, Olschki, Firenze, 1997, pp. 111-117: appassionata di documenti d’archivio, forse non a caso decide di collocare le sue eroine non nel tempo presente, ma nella distanza del passato, là dove più chiara, spietata e inequivocabile si è manifestata la repressione contro le donne. In questo modo le loro vicende si trasformano in una esplicita denuncia della gravità dell’ingiustizia storica, la quale è tutt’ora presente, sì, ma in forme più attenuate, più sfumate, più mimetiche. […] Artemisia vive nel Seicento romano, La camicia bruciata è ambientata nel rinascimento fiorentino, Lavinia fuggita nel Settecento veneziano, Il coraggio delle donne e Vocazioni indistinte nell’Ottocento.
34 Roberto Navarrini, Gli archivi privati, Torre del Lago, Civita Editoriale, 2018, pp. 51-52.
35 Antonio Romiti, Riflessioni sul significato del vincolo nella definizione del concetto di archivio, in Luigi Borgia, Francesco de Luca, Paolo Viti, Raffaella Maria Zaccaria (a cura di), Studi in onore di Arnaldo D’Addario, Lecce, Conte Editore, 1995, pp. 3-18.
36 Luviano Boccalatte (a cura di), Guido Guazza. L’archivio e la biblioteca come autobiografia, Milano, Franco Angeli, 2008; Serena Dainotto (a cura di), Le biblioteche d’archivio. Atti della giornata di studi (Roma, 24 febbraio 1999), Roma, Direzione Generale per gli Archivi, 2001; Alessandra Miola, Il fondo personale. Archivio e Biblioteca, in Marina Zancan (a cura di), Alba de Céspedes, Milano, Fondazione Arnaldo e Alberto Mondadori, 2001, pp. 118-119; Paola Carucci, Tipologia, carattere della documentazione, problemi organizzativi, in Gli archivi per la storia contemporanea. Organizzazione e fruizione. Atti del Seminario di studi (Mondovì, 23-25 febbraio 1984), Roma, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1986, pp. 71-90; Gloria Manghetti, Gli archivi letterari del Novecento. Esperienze e riflessioni, in “Culture del testo”, 1995, n. 2, pp. 3-15.
37 Ghilardi, La capra matta, cit., pp. 85-121.