In apertura: telaio in legno (in dialetto “tiraletto”) per essiccazione delle foglie di tabacco.
1. Introduzione
Quando il prefetto Giovanni Selvi nel dicembre del 1926 giunse a Lecce, si convinse che in Salento non ci si dovesse preoccupare di possibili forze d’opposizione di natura socialcomunista, liberaldemocratica o popolare; inoltre, il popolarismo sturziano e in generale tutto il movimento cattolico salentino, così come le gerarchie ecclesiastiche avevano aderito al regime. Il problema sembrò essere piuttosto un’indifferenza generica verso l’Idea fascista da parte sia della piccola e media borghesia che delle classi più basse; il fascismo era stato sì accettato, ma passivamente o per interesse personale. Il prefetto era convinto che solo le organizzazioni sindacali fasciste avrebbero permesso la penetrazione dell’ideologia fascista tra i lavoratori e le lavoratrici agricole e del tabacco, di cui in particolare la propaganda sindacale fascista si interessava sia perché costituivano la forza economica maggiore del territorio, sia per l’importanza assegnata dal fascismo ideologicamente e simbolicamente al mondo rurale, sia perché ben si comprendeva che i problemi maggiori d’ordine e disciplina potevano giungere dai lavoratori e dalle lavoratrici. Tuttavia, mai, nel Salento, come d’altronde nel resto d’Italia, ci fu un reale consenso di massa al regime e lavoratori agricoli e tabacchine reagirono con quella che è stata definita da Salvatore Coppola, riprendendo il giudizio de feliciano,
una forma atipica di antifascismo […] silenzio, con riferimento alla mancata o forzata partecipazione di lavoratori agricoli e tabacchine alle più vistose e roboanti manifestazioni pubbliche, e rabbia, con riferimento a numerosi episodi di aperto dissenso nei confronti delle politiche economiche del governo1.
A testimoniare ciò, soprattutto, ci sono le numerose lotte sostenute dalle tabacchine del Salento che è possibile inquadrare in tre periodi: il biennio 1926-1927, proteste contro l’iscrizione obbligatoria al sindacato fascista perché le trattenute previste dalle autorità avrebbero implicato un’ulteriore decurtazione dalle loro paghe; il periodo intorno al 1932, in cui le lavoratrici iniziavano a soffrire gli effetti del processo di ammodernamento della filiera di lavorazione del tabacco e della crisi del 1929; il periodo che va dal 1934 in poi. In particolare, la manifestazione che ebbe luogo nel 1935 nei pressi del palazzo del municipio della cittadina di Tricase (LE), oggetto del presente lavoro, rappresentò l’acme delle numerose lotte che attraversarono in maniera omogenea la Terra d’Otranto, non solo per il numero di manifestanti, ma anche e soprattutto per l’escalation di violenza che la caratterizzò, portandola a divenire nel processo di sedimentazione della memoria storica simbolo delle lotte delle tabacchine e ferita identitaria della città di Tricase. Ricostruire cosa successe il 15 maggio del 1935 significa portare alla luce un fatto storico non ancora abbastanza conosciuto e indagato, poiché avvenuto in un territorio tendenzialmente ignorato dalle grandi narrazioni storiche del fascismo italiano. Si ritiene invece utile ripercorrere quanto accadde quel giorno in quanto occasione di diversi spunti di riflessione su forme di opposizione al regime apparentemente alternative rispetto a quelle immediatamente inquadrabili politicamente e poiché vicenda storica che palesa l’assoluta centralità delle donne come soggetti storici attivi e soggetti pilastro per l’economia agricola in un settore particolarmente redditizio com’era quello del tabacco. Le ricostruzioni su quanto successo si rivelano infatti pregne di contraddizioni, soprattutto se il complesso di fonti storiografiche di cui si servono è un ibrido di fonti primarie scritte e fonti orali: queste ultime, notoriamente, caratterizzate da ineliminabili criticità.
2. I fatti
Come accennato precedentemente, dopo il periodo successivo alla Grande Guerra, si raggiunse una nuova acme di azioni oppositive da parte delle tabacchine all’inizio degli anni Trenta del Novecento. Difatti, la crisi economica che imperversava in Italia alimentò ulteriormente l’interventismo dello Stato fascista che, con la fondazione dell’Istituto mobiliare italiano (Imi) e dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) e diffuse opere di bonifica e pubbliche, spianava la strada alla fase di attuazione della cosiddetta politica autarchica. Benché il fascismo salentino si facesse forte di una figura con un cursus honorum per il Partito nazionale fascista notevole, Achille Starace2, non si riuscì mai a far penetrare in terra salentina la nuova «concezione organica del mondo» che «vuole rifare non le forme della vita umana, ma il contenuto, l’uomo, il carattere, la fede»3. Così, il periodo 1930-1932 si caratterizzò per un clima di incertezza generale e molte tensioni sociali. Nel Mezzogiorno lavoratori agricoli, dell’industria e tabacchine si unirono sotto lo slogan rimasto celebre anche nella memoria della sommossa di Tricase “Vogliamo pane e lavoro”. Per quanto riguarda la tabacchicoltura la situazione era particolarmente complessa sia per i piccoli coltivatori poiché:
i concessionari avevano un notevole controllo del settore e del mercato del lavoro […] La fase più delicata era poi la consegna del tabacco al concessionario, fase in cui i coltivatori subivano veri e propri furti, con l’applicazione di prezzi bassissimi dove i concessionari, durante la fase di valutazione delle partite, minacciavano i coltivatori che intendevano farsi assistere dai periti, di non rinnovare la coltivazione. I concessionari usavano declassare gran parte del tabacco ricevuto ed anche porlo fuori classe, cioè fuori pagamento; in media il prezzo applicato si aggirava sulle 400 lire il quintale, e per alcune partite anche 200 lire, il che significava per il coltivatore impossibilità di coprire le spese4.
sia ovviamente per le tabacchine, che denunciavano la decisione dei concessionari del tabacco di ridurre il salario e aumentare il carico di lavoro, infierendo sulle già terribili condizioni di lavoro a cui le operaie erano sottoposte. Di solito le proteste si indirizzavano verso i sindacati, così come contro il podestà o il governo in generale. A partire dal 1934 circa iniziò a manifestarsi il problema dell’automatizzazione del lavoro con l’introduzione di nuove tecnologie e il conseguente timore da parte di lavoratrici e lavoratori di perdere posti di lavoro. Il tradizionale sistema di lavorazione della foglia, basmà, fu sostituito infatti con il thongas, che, richiedendo l’uso di macchinari moderni, portò ad una riduzione delle ore di lavoro: ciò non aveva ricadute redditizie solo immediate, ma anche a lungo termine poiché la concessione dell’indennità di disoccupazione era vincolata al raggiungimento di un certo numero di giornate lavorative nel corso dell’anno. Bisogna considerare che nella tabacchicoltura erano occupate circa 40.000 operaie: interi paesi del basso Salento fondavano la propria economia quasi esclusivamente sulla foglia di tabacco. La situazione era quindi tesa e vedeva unirsi coltivatori e tabacchine. Inoltre, il clima di repressione era molto pesante, con le Leggi Fascistissime che già da tempo avevano impedito ogni libertà di espressione del dissenso e di sciopero. È in tale clima di tensione che arrivò a Tricase la notizia del decreto del Ministero delle Corporazioni, emanato il 30 aprile 1935: il decreto prevedeva lo scioglimento dei Consigli di amministrazione del Consorzio di Tricase e di altri organismi cooperativistici; i Consorzi inoltre sarebbero stati tutti fusi in unico organismo provinciale su cui le autorità fasciste avrebbero avuto più facile controllo.
Il Consorzio era nel 1935 un’istituzione importante per Tricase: occupava un migliaio di tabacchine per la cura delle foglie, e faceva capo a parecchie centinaia di contadini del circondario impegnati nella tabacchicoltura. Le radici filantropiche del Consorzio avevano consentito di realizzare per le maestranze una serie di benefit: orari di lavoro sopportabili, paghe corrispondenti al lavoro svolto, asilo nido per i figli delle tabacchine ed incunabolo per l’allattamento dei neonati, servizi igienici adeguati, uno spaccio dove si faceva credito5.
Quando la mattina del 13 maggio la notizia giunse al direttore del Consorzio Mario Ingletti, egli si recò presso il presidente del Consiglio di amministrazione del Consorzio e insieme convocarono il consiglio per l’indomani mattina, 14 maggio 1935. I presenti alla riunione e i sindaci dei consorzi prossimi allo scioglimento decisero di indirizzare una supplica al capo del governo per chiedere il mantenimento dell’autonomia del consorzio. Salvatore Coppola riporta che la supplica sarebbe poi stata portata a Roma da una commissione di contadini nominati appositamente e che, informato dell’iniziativa il podestà Edgardo Aymone, questi si dimostrò d’accordo. Il 15 maggio mattina le tabacchine diedero inizio ad uno sciopero sul posto di lavoro al grido di “Vogliamo il pane, vogliamo il lavoro”, ma ben presto furono convinte a tornare a placarsi dal dirigente del consorzio Mario Ingletti, dal sindacalista fascista Ciro Facchini e dal maresciallo dei carabinieri Matteo Mossuto, che comunicarono dell’iniziativa indirizzata a Roma, riuscendo così a riportare momentaneamente la calma. Tuttavia, il mormorio mosso dall’indignazione e dalla paura della fame continuò a circolare tra le operaie, così come la voce di una possibile dimostrazione davanti al palazzo del municipio durante la giornata. Già dalle diciannove di sera di quello stesso giorno nella zona dov’era ubicata la Sezione dei combattenti c’era grande via vai di gente, donne e uomini, che andavano ad apporre la propria firma in calce al documento che sarebbe stato spedito a Roma. Nel frattempo, il podestà Aymone, comprendendo la possibilità di disordini, aveva fatto affiggere un manifesto in cui era recato scritto che sarebbe stata rispettata anche dopo la fusione dei consorzi «l’attuale sfera di attività» e seguiva invitando ad avere fiducia «nell’opera oculata e provvida del governo fascista»6 e di ritornare dunque a lavoro. Tale manifesto fu interpretato, secondo quanto traspare sia dai verbali che dalle interviste raccolte da Santoro e Torsello, più come una minaccia. La folla confluì numerosa nella piazza del municipio e qui gli eventi divennero velocemente tragici: le forze dell’ordine uccisero Rizzo Giuseppe Pompeo, Scolozzi Maria Donata, Panico Maria Cosima, Panarese Pietro e Nesca Maria Assunta, ci furono inoltre accertati dai documenti di processo 22 feriti e decine di lavoratori arrestati. L’indomani la “Gazzetta del Mezzogiorno” liquidò con un trafiletto quanto accaduto e la “manifestazione ostile” fu narrata da chi si faceva portavoce del regime come una sommossa aizzata da pochi istigatori. Tipico della propaganda fascista era infatti mettere a tacere più possibile la presenza di manifestazioni ostili e farle passare per operazioni politiche di pochi oppositori, in modo da celare il profondo malcontento e la miseria che i lavoratori e le lavoratrici invece accusavano. Tuttavia, la manifestazione di Tricase ebbe un impatto mediatico rilevante sia per la partecipazione numerosa e sia, purtroppo, per il numero di vittime e di feriti che vi furono7.
3. Criticità delle narrazioni e interpretazioni successive
È interessante notare come sia nei verbali di processo su cui lavora Salvatore Coppola, sia nelle interviste raccolte da Vincenzo Santoro e Sergio Torsello nella loro ricerca di storia orale, i modi in cui quella sera del 15 maggio 1935 a Tricase, che Di Vittorio in “Lo Stato operaio”, luglio 1935, definì «la rivolta di Tricase», è narrata in modi diversi e apparentemente contraddittori. In particolare, il fatto ampiamente testimoniato da tutte le fonti che uno degli slogan più gridati dai manifestanti fosse “abbasso il podestà, viva il duce”, ha fatto sorgere interrogativi interpretativi sulla possibilità di definirla una manifestazione antifascista o meno.
La contraddittorietà delle narrazioni postume da parte dei soggetti coinvolti in prima persona è preziosa risorsa di osservazione del fatto storico da angolature prospettiche diverse e non può che essere problematica poiché diverse memorie soggettive si intrecciano andando a disegnare un quadro necessariamente complesso così come la natura dell’episodio che si cerca di narrare: un evento di massa, un’azione comunicativa di gruppo. La potenzialità della fonte orale dei soggetti attivi nell’evento storico di interesse, d’altronde, è proprio quella di arricchire e completare una narrazione storica egemonica che ha caratteri di oggettività solo presunti. I fatti umani non conoscono oggettività. Bisogna inoltre considerare che il territorio in cui la rivolta si è verificata aveva all’epoca una situazione politico amministrativa complessa, le gerarchie di potere erano stratificate e frutto di intrecci tra vecchie dinamiche di natura feudale e l’amministrazione sopraggiunta con il governo fascista. Mettere al centro nella ricostruzione le voci di lavoratori e lavoratrici diventa necessario per parlare di un episodio di microstoria che però palesa subito la sua funzione di lente su quello che in tutta Italia stava accadendo.
Nella manifestazione di Tricase sono uniti nella protesta lavoratori, coltivatori, tabacchine soprattutto e figure anche del potere locale, tutti e tutte scioperando per mantenere autonomia territoriale e per il diritto al pane e al lavoro. Lo slogan sopracitato va inserito in un contesto, quello della vita quotidiana di lavoratori e lavoratrici che sono soggetti storici attivi ma comuni, in cui in pochi possedevano gli strumenti per un’alfabetizzazione politica di rilievo. Inoltre, manifestare contro l’ordine delle cose e per il diritto a lavoro, in uno Stato che sopprime ogni possibilità di dissenso è in sé per sé un’azione che si oppone al regime fascista, al suo processo di accentramento, ad una propaganda che dice di premiare i lavoratori della terra ma che li lascia in uno stato di miseria e va a controbilanciare una narrazione egemonica che ci parla della donna come angelo del focolare quando invece è in piazza e in lotta per mantenere il proprio posto di lavoro e per rivendicare dignità sul lavoro.
Qualcuno ricorda che gridavano “viva il duce, viva il re, abbasso il podestà’’, il tradizionale appello all’autorità lontana e assente contro i rappresentanti vicini e direttamente oppressivi […] Qualcun altro invece dice che avevano gridato “abbasso Mussolini, abbasso il re’’: una protesta politica, che riconosce nell’autorità lontana il responsabile primo della propria oppressione vicina. Ora, probabilmente in piazza c’erano tutte e due le cose, e c’era anche chi al duce e al re non pensava per niente. Questo ci dice una cosa importante sugli eventi di massa: sono sempre il coagulo di storie diverse, di significati molteplici, di intenzioni contraddittorie8.
Dunque, questa diatriba sulla natura dichiaratamente antifascista o meno della manifestazione soffre di un vizio epistemologico che vuole interpretazioni storiche rigidamente catalogabili e che, per quanto in ambito storiografico si dica superato, permane nel modo in cui quotidianamente la cittadinanza si rapporta al fatto storicamente rilevante. Ma se la storia è fatta di persone, prima di giungere a conclusioni affrettate, bisogna restituire la complessità agli eventi che necessariamente la natura umana porta con sé. Una protesta delle tabacchine alla luce del quadro legislativo fascista rimane una manifestazione contro il fascismo benché si gridasse “viva il duce”, ma non è tuttavia possibile dare l’univoco e netto significato di manifestazione antifascista, «fu insieme e non fu una manifestazione antifascista: sia l’atto di assumerla dentro la storia dell’antifascismo politico, sia quello di negarle ogni valenza politica riducendola a una tardiva jacquerie hanno torto. Non fu nessuna delle due cose, fu tutte due, fu di più»9. Nulla più che le contraddizioni consente di varcare i confini di un’interpretazione storica rigida che non conosce sfumature né angolature visive diverse e che troppo a lungo non si è interrogata sui fatti umani partendo dalle voci dei soggetti coinvolti in prima persona e sulla vita di ogni giorno di chi viveva la sopraffazione del lavoro del tabacco, della terra sotto un regime e non, e che tuttora caratterizza il mondo del bracciantato. Il passato come sempre si offre lente sul presente; la microstoria, angolatura periferica per comprendere le grandi vicende storiche più conosciute: arricchendole, approfondendole e, soprattutto, completandole.
Note
1 Salvatore Coppola, Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà. Anatomia di una sommossa (Tricase, 15 Maggio 1935), Lecce, Giorgiani, 2015, p. 45.
2 Nato a Sannicola, frazione di Gallipoli, si era distinto negli anni della Grande Guerra e nel post-guerra, fu segretario regionale dei Fasci trentini e protagonista di numerosi episodi di squadrismo tra Trento e Puglia, nominato vicesegretario nazionale e poi eletto per il Salento insieme a Guido Franco alle elezioni politiche generali del 6 aprile 1924 per il listone governativo.
3 Benito Mussolini e Giovanni Gentile, Fascismo, in Gabriele Rigano, Fascismo e religione: un culto per la nazione imperiale, in Giulia Albanese (a cura di), Il fascismo italiano. Storia e interpretazioni, Roma, Carrocci, 2021, p. 139.
4 Franco Antonio Mastrolia, La coltivazione del tabacco in Terra d’Otranto tra Otto e Novecento, 2008, in “Proposte e ricerche”, n. 61, p. 146.
5 Giorgio Pedrocco, Fuoco sotto la cenere. Cinque morti, ventidue feriti, settantadue arrestati… La protesta e l’eccidio di Tricase del 15 maggio 1935, in “Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche”, 2022, n. 10, p. 189.
6 Salvatore Coppola, Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà. Anatomia di una sommossa (Tricase, 15 Maggio 1935), Lecce, Giorgiani, 2015, p. 82.
7 Per una ricostruzione completa e dettagliata sia dei fatti che del processo consultare il lavoro di Salvatore Coppola già citato.
8 Vincenzo Santoro, Sergio Torsello, Tabacco e tabacchine nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento, Lecce, Manni, 2002, p. 12.
9 Ivi, p. 15.