XXI Conferenza internazionale del Minom. Ripensare le museologie in chiave trasformativa: alleanze trans-disciplinari per società più giuste

XXI International conference Minom. Rethinking museologies as transformative trans-disciplinary alliances for more just societies

In apertura: Mario Chagas (Minom International) porge i propri saluti in video all’apertura della prima giornata del convegno (Foto di Giovanni Raciti, 22 febbraio 2024).

Per i quarant’anni del Movimento internazionale per una nuova museologia (Minom), l’Università di Catania ha ospitato la XXI Conferenza internazionale sulla museologia dal 20 al 23 febbraio 2024. L’evento è stato organizzato da Federica Santagati, Giusy Pappalardo e Manuelina Duarte con lo scopo di: «discutere su come reagire alle sfide sociali ed ecologiche in atto»1 e proporre azioni per un’evoluzione della museologia sostenuta dalla costruzione di alleanze e relazioni tra persone, istituzioni, comunità, territori e discipline, per mettere in atto processi decolonizzanti. Il convegno si è tenuto nel Monastero dei Benedettini, patrimonio Unesco e sede del Dipartimento di scienze umanistiche dell’Università di Catania.

1. Il Movimento internazionale per una nuova museologia2

Il Minom viene fondato a Lisbona nel 1985, come risultato del primo laboratorio internazionale sugli ecomusei e la nuova museologia, tenutosi l’anno precedente in Québec. Questo incontro, nel 1984, di persone attive nella nouvelle museologie perseguiva tre obiettivi fondamentali: riflettere sui principi e le pratiche dell’ecomuseologia, elaborare una dichiarazione comune di intenti e costituire le basi per i futuri symposia internazionali. Il laboratorio metteva a confronto per la prima volta diverse metodologie di trasformazione dei musei tratte dalle esperienze personali dei partecipanti e invitava a discutere le definizioni, le teorie, le tecniche e le filosofie della nuova museologia. La dichiarazione scaturita da quel dialogo (Québec Declaration) raccoglieva norme di comportamento condivise ed è divenuta il pilastro fondante del Minom. Inoltre, la dichiarazione ampliava l’orizzonte teorico oltre i confini degli ecomusei i quali, fino a quel momento, erano stati considerati come gli unici esempi pratici di nouvelle museologie. Nel 1985 a Lisbona, lo scambio di opinioni viene formalizzato in un movimento affiliato poi all’International council of museums (Icom) nel 1987.

Da quel momento, ogni conferenza Minom affronta problemi specifici, riflettendo sulla domanda generale di come musealizzare i comportamenti e la partecipazione sociali. Nel 1986 a Toten, si discute sui musei en-plain air e sul ruolo delle istituzioni museali in relazione alle minoranze culturali nei paesi nordici. Nel 1987 a Molinos, le rappresentanze africane dal Mali e dal Niger fanno il loro ingresso nella riflessione. Nel 1989 a Merlebach, nascono i rami regionali. Nel 1990 in Arizona e nel 1996 a Patzcuaro, i partecipanti lavorano con esponenti di comunità locali per comprendere le diverse culture che di volta in volta arricchiscono le conferenze. L’ottavo incontro del 1999 a Salvador de Bahia introduce la sfida del nuovo secolo e i doveri dei musei verso i giovani. L’arrivo del 2000 sprona ulteriormente quella modernizzazione della nuova museologia che era stata posta al centro dei dibattiti Minom fin dalle prime conferenze. Nel 2004 e nel 2013 a Rio de Janeiro si concordano nuove terminologie e la Declaration of Rio (2013) segna un’altra pietra miliare del percorso del Minom.

2. La struttura della conferenza

La conferenza di Catania si inserisce nella linea di sviluppo tipica del Minom, mantenendo l’attenzione sui temi cari al movimento e, allo stesso tempo, includendo elementi innovativi. L’organizzazione, infatti, aggiunge al consuetudinario laboratorio di discussione e condivisione per gli esperti del settore due giornate di convegno dal taglio più accademico e inclusivo verso i giovani ricercatori, rese disponibili anche in collegamento online. Le due giornate di laboratorio precedenti il convegno si tengono nel quartiere periferico Librino con lo scopo di inserire la discussione museale nel contesto locale. Qui i partecipanti sono guidati attraverso la storia del quartiere e invitati a condividere le proprie sensazioni sul luogo. In particolare sono poste due domande di riflessione: «come siete arrivati a occuparvi di museologia sociale?», «come la vostra esperienza può essere utile al dibattito sulla museologia sociale e a contesti “marginali” come Librino?»3. Infine, i partecipanti redigono collettivamente la Carta di Librino. La tradizione del workshop è importante per il funzionamento del Minom in quanto, non solo permette di avvicinare i partecipanti a realtà locali trascurate, ma anche perché, come sottolinea Giusy Pappalardo nella plenaria conclusiva, talvolta il processo di costruzione è più rilevante del risultato stesso a cui si perviene. Lo sforzo collettivo e internazionale sollecitato dal workshop pone ogni esperienza sullo stesso piano di rilevanza, introducendo un concetto fondamentale oggetto di analisi delle sessioni plenarie.

Il primo giorno di convegno è aperto dai saluti istituzionali di Marina Paino, Matteo Ignaccolo, Mario Chagas, Aida Rechena e Antonio di Lorenzo. Cinque interventi compongono poi le due plenarie mattutine, seguite da sei sessioni parallele. La giornata è chiusa dai festeggiamenti dei 40 anni del Minom attraverso interventi che ripercorrono la sua evoluzione. Il secondo giorno prende avvio con la presentazione di poster seguita dalla mostra “Rimbalzando verso sud” dell’associazione Briganti rugby Librino, i cui pannelli spiegano i progetti sportivi attuati nel sud del mondo. Il convegno si articola poi in cinque sessioni parallele nella mattina e in sei nel pomeriggio, per finire con l’ultima plenaria e l’approvazione della Carta di Librino.

Lo spirito collaborativo dell’iniziativa si estende a tutti i partecipanti durante le quattro giornate. Sicuramente, un elemento innovativo è l’uso di cinque lingue ufficiali: italiano, inglese, francese, spagnolo e portoghese4. La scelta permette la presentazione di casi specifici altrimenti impossibile, ma richiede un grande lavoro di traduzione. In questo ambito si distinguono l’associazione Apoyonline e gli studenti dell’università che si dedicano anche all’accoglienza e alla fornitura di supporto tecnico. Le dieci borse di studio di solidarietà, erogate dallo Strategic allocation review commitee dell’Icom, contribuiscono in maniera rilevante alla costruzione del clima di conversazione internazionale.

3. Decolonizzare i musei

Le due sessioni introduttive “Nuove traiettorie per la museologia nel contesto internazionale” e “Perché e come agire nel solco della museologia sociale, nel contesto locale” anticipano alcuni punti chiave della discussione. I primi due interventi di Bruno Brulon Soares e Giovanna Vitelli delineano coerentemente la cornice teorica, mentre quelli a seguire di Alberto Garlandini, Cristina Alga e Francesco Mannino restringono il campo portando l’attenzione sui temi di attivismo e riscatto sociale e di legame con il territorio locale. Il contributo di Soares dal titolo “Decolonizzare per riumanizzare: alcune lezioni comunitarie” e quello di Vitelli “Silenzi e omissioni: l’eredità della negligenza coloniale nella pratica museale contemporanea” si concentrano su come decolonizzare i musei da due punti di vista diversi, ma in sostanza integrati nel dibattito di questa conferenza. Soares parla dalla prospettiva dei musei sociali incentrati sulle comunità, mentre Vitelli da quella dei musei europei istituzionalizzati e incentrati sugli oggetti. Nonostante le differenze sostanziali tra i due tipi di museo, Soares e Vitelli riescono a trovare punti di contatto e a instaurare un dialogo nel quale mettono in luce come i cambiamenti in atto e le sfide poste dalla museologia sociale riguardino tutti i musei.

I musei comunitari sorgono dal basso, dalle persone, e per Soares sono strumento per la lotta politica e per l’emancipazione delle comunità storicamente colonizzate e de-umanizzate, presentate nei musei «tradizionali del nord globale» come «oggetti» di esposizione e non come «attori» nella narrazione. Per questo, per Soares, il punto chiave nel processo di decolonizzazione e ri-umanizzazione di tali comunità è la «ridistribuzione del potere e dell’autorità». Ciò implica la necessità di accettare l’esistenza di diversi tipi di conoscenze professionali di pari valore, indipendentemente dalla loro provenienza nazionale, territoriale o comunitaria. Secondo Soares, è importante rendersi conto che quando si tratta di patrimonio sociale e culturale non esistono conoscenze superiori o maggiormente legittimate rispetto ad altre. Infatti, il centro della sua analisi risiede nel concetto per il quale è diritto di ogni gruppo sociale e comunità locale poter istituire musei come mezzo di autodeterminazione e di conquista politica. La legittimazione di tale diritto, sottolinea Soares, dovrebbe avvenire attraverso l’istituzionalizzazione dei musei comunitari, una pratica al momento rara, ma che renderebbe tali musei permanenti, in termini sia temporali sia legali. In conclusione, la decolonizzazione dei musei potrà avvenire attraverso la loro integrazione nel tessuto sociale e la contestuale integrazione delle comunità nelle strutture museali, in qualità di esperti e di attori.

Vitelli affianca l’argomentazione di Soares con un esempio pratico tratto dalla propria esperienza all’Hunterian Museum di Glasgow. Benché la prospettiva di Vitelli giunga da «un museo classico europeo», il suo intervento copre l’altro lato della medaglia rispetto a quello di Soares, sottolineando lo sforzo da parte del personale di istituzioni museali tradizionali di cambiare le proprie metodologie e convinzioni per decolonizzare esposizioni radicate in un tessuto storico ottocentesco. Vitelli riconosce che anche nei musei classici si possa avviare un processo di decolonizzazione e di ridistribuzione del potere. Con musei classici Vitelli si riferisce a istituzioni museali che possiedono collezioni di oggetti acquisiti attraverso metodi talvolta dubbi da viaggiatori bianchi, spesso membri dell’élite nazionale, ed esposti secondo il gusto coloniale. In tale ottica gli oggetti vengono presentati come memorabilia esotica. Estratti dal proprio contesto storico-culturale, affascinano i visitatori in quanto rappresentativi di culture e abitudini considerate primitive e bizzarre. Vitelli osserva come nei musei tradizionali il processo di decolonizzazione parta dagli oggetti e sostiene che il primo passo sia quello di rivolgersi ai «proprietari» degli oggetti, in senso anche culturale e scientifico, per elaborarne dialogicamente una lettura il più possibile completa. Vitelli si appella ai concetti di «shared authority»5 e «co-production» i quali si riferiscono al lavoro congiunto di esperti e comunità locali, ma anche di esperti in diversi ambiti, con lo scopo di scoprire, raccogliere e spiegare i significati e le interpretazioni legati a un determinato prodotto sociale e culturale, in modo da offrire al visitatore una narrazione costituita da molteplici punti di vista. Tale approccio permette di coinvolgere nell’impianto espositivo coloro che sono stati esclusi e non rappresentati o rappresentati in maniera ingiusta, scorretta o offensiva nelle esposizioni a stampo coloniale.

Il caso proposto riguarda un esemplare, probabilmente estinto, di galliwasp giamaicano conservato all’Hunterian. Il tentativo di rimpatriare tale reperto ha inaspettatamente dato vita a un lavoro di ricerca condiviso che ha coinvolto i ricercatori di Glasgow ed esperti giamaicani. Sia Vitelli sia Soares sottolineano la difficoltà di riconoscere gli ambiti di provenienza delle conoscenze come eguali, con il rischio di limitare la produzione efficace del sapere nei musei. Per questo motivo occorre un impegno duraturo e la possibilità di avviare progetti in un orizzonte temporale lungo. Se nei musei comunitari è necessaria l’istituzionalizzazione, come osserva Soares, per Vitelli, nei musei classici serve stabilire con chiarezza una metodologia che preveda la co-produzione a ogni stadio del lavoro.

4. Ecomusei e territorio

Gli interventi di Alberto Garlandini, Cristina Alga e Francesco Mannino nella seconda sessione plenaria portano l’attenzione sul ruolo sociale dei musei nel contesto globale in rapido mutamento. I loro interventi si intrecciano ai precedenti sui temi dell’istituzionalizzazione dei musei comunitari e del coinvolgimento delle comunità di riferimento e indagano l’estensione con cui i musei possono farsi promotori di comportamenti civici positivi.

Il contributo di Alberto Garlandini “Ripensare la museologia e i musei in un mondo che cambia. I contributi degli ecomusei e dei musei comunitari e la definizione di museo di Icom” presenta il contesto nel quale si sono formati gli ecomusei. Egli delinea le nuove responsabilità museali in relazione ai cambiamenti della modernità e analizza tale evoluzione anche attraverso le definizioni di museo introdotte da Icom negli ultimi cinquant’anni. Gli ecomusei e la nuova museologia nascono come critica alle teorie museali tradizionali e alle istituzioni classiche. Negli anni Settanta, con il diffondersi di nuovi movimenti sociali, esse vengono percepite come arroccate nella propria torre d’avorio e generalmente dialoganti con un pubblico composto di esperti, di conseguenza insensibili nei confronti di visitatori non specializzati o appartenenti a minoranze culturali. Garlandini spiega che nel 1972 la discussione sul «ruolo sociale dei musei e sulla necessità di una democratizzazione della cultura» accende la tavola rotonda di Santiago del Cile, organizzata dall’Unesco e dall’Icom, e segna la nascita degli ecomusei e dei musei comunitari. Questi “nuovi” enti al servizio dello sviluppo sociale spronano la partecipazione delle comunità alla vita del museo come fondamento della propria esistenza. Il patrimonio culturale di cui si occupano, infatti, non è più solamente quello materiale, ma anche quello intangibile e quello vivente.

Lo sviluppo della definizione di museo, teorizzata genericamente dall’Icom nel 1946, segue un’evoluzione simile, arricchendosi notevolmente nel 1974, inserendo il patrimonio culturale immateriale nella definizione del 2007 e rafforzando lo sguardo sulle comunità e sulla sfera sociale, oltre a mostrare un interesse per la sostenibilità ambientale nel 2022. In conclusione, secondo Garlandini, i musei devono continuare ad adeguarsi al contesto che cambia e allontanarsi progressivamente dalla semplice attività di conservazione, intraprendendone altre sempre più rivolte alla dimensione sociale. I musei dovrebbero occuparsi di memoria attiva, di mantenere viva l’informazione e di promuovere comportamenti consapevoli e giusti per uno sviluppo positivo della società.

Gli interventi di Cristina Alga “Cosa significa essere ecomuseo, oggi, in Sicilia” e Francesco Mannino “I musei hanno i superpoteri? Forse no, ma possono essere alleati sociali formidabili” dialogano con l’argomentazione di Garlandini attraverso esperienze pratiche in due ecomusei siciliani: Ecomuseo mare memoria viva e Officine culturali di Catania. Cristina Alga parla del ruolo sociale dei musei nei confronti delle comunità di riferimento e del territorio per costituire una dimensione di condivisione che racconti i luoghi attraverso le storie delle persone. Per mantenere il rapporto con i cittadini e con il patrimonio naturale, che Alga considera patrimonio culturale a tutti gli effetti, gli ecomusei devono ridefinirsi e re-inventarsi costantemente. Come Soares, anche Alga sottolinea la necessità di istituzionalizzazione degli ecomusei siciliani attraverso partnership con i Comuni poiché «oggi, essere ecomuseo in Sicilia significa stare ai margini». Pure Francesco Mannino richiama temi di Soares partendo dai musei come mezzi di riscatto sociale in grado di incidere sulla vita delle persone in termini conoscitivi, emotivi ed educativi. Purtroppo, però, Mannino osserva la povertà educativa nel contesto siciliano dipingendo un quadro tetro e dimostrando come la conoscenza veicolata dai musei giochi un ruolo irrilevante. Per questo motivo i musei non hanno il potere di migliorare le condizioni sociali da soli, ma potrebbero essere artefici di cambiamenti rilevanti attraverso alleanze con scuole, università, altre istituzioni culturali e movimenti sociali. Mannino adatta al contesto degli ecomusei siciliani il tema della partecipazione culturale introdotto da Vitelli, aggiungendo la sfida di coinvolgere chi solitamente non frequenta i musei, investendo questi ultimi del ruolo di mediatori di comunità.

5. I musei verso il futuro

Le sessioni parallele del primo e del secondo giorno continuano il dibattito sui temi sollecitati dalle plenarie, in parte presentando casi di studio di musei comunitari ed ecomusei. Maggiore attenzione è posta al contesto brasiliano, con esempi di collaborazioni con le popolazioni locali, e al contesto degli ecomusei siciliani, con alcune sessioni pensate apposta per stabilire un dialogo tra realtà vicine ma spesso inconsapevoli le une delle altre. Gli interventi spaziano poi dall’Italia alla Spagna e al Portogallo, con esponenti dal Kenya, Bruxelles e Capo Verde. La riflessione teorica copre le prospettive del cambiamento del ruolo dei musei per una società più giusta, l’educazione e la partecipazione, e riflette su democrazia e diritti, il fare comune, territorio e resistenza, i processi curatoriali come cura delle relazioni, il rapporto con l’università e il legame con i luoghi, le persone e i contesti sociali.

L’ultima plenaria “La museologia sociale come agente di cambiamento? Una prospettiva trans-disciplinare” raccoglie gli interventi di Ciraj Rassool e di Giusy Pappalardo. Il contributo di Rassool “Musei e attivismo sociale: il museo come processo, il museo post-etnografico e il lavoro della restituzione” chiude coerentemente gli spunti di riflessione sorti durante il convegno e, con tono e contenuto provocatori, suscita domande che mantengono vivo il dibattito. Rassool argomenta in favore di un nuovo tipo di museo incentrato sulla sfera sociale e sulla pratica della restituzione. Con restituzione si intende il processo controverso avviato dai musei tradizionali di rimpatriare oggetti delle proprie collezioni acquisiti senza la legittimazione delle comunità di appartenenza. Secondo Rassool, la restituzione non dovrebbe essere un «semplice ridare», a testimonianza di un comportamento politicamente corretto da parte delle istituzioni. Essa è piuttosto un esigere da parte delle comunità di riavere indietro la propria cultura rubata. Riprendendo il punto di Soares sull’oggettificazione di certi gruppi negli allestimenti museali, Rassool sostiene che la restituzione, come da lui intesa, rappresenti un processo attraverso il quale le comunità possono imporre la propria de-oggettificazione e de-musealizzazione. Alla luce di questa trasformazione, che Rassool definisce «process of becoming», egli vede l’evoluzione dei musei sociali nel museo come processo di mobilitazione delle persone e si interroga se esso possa effettivamente costituirsi come museo sociale. Propone dunque «musei intesi come processi sociali, transazione e interscambio di conoscenze» dove al centro viene posto il movimento e non più lo spazio, né il territorio locale dei musei sociali,il luogo dove regnano gli oggetti dei musei tradizionali. In ultimo, Giusy Pappalardo racconta la progettazione e l’organizzazione dell’evento con la soddisfazione e la sincerità di chi avvera un sogno impossibile e conclude ringraziando tutti coloro che sono stati fondamentali per la costruzione di un progetto così ambizioso.

6. Spunti finali

Il convegno ha raccolto molti spunti sui quali vale certamente la pena continuare a ragionare. Gli interventi hanno ben delineato il contesto della nascita della nuova museologia e degli ecomusei e inquadrato la contrapposizione, a volte spinosa, tra i musei sociali e quelli tradizionali, mettendone in luce le debolezze e i punti di forza. Da un lato, il convegno ha posto l’attenzione su temi spesso trascurati, come la collaborazione, la pari valorizzazione delle diverse esperienze e l’importanza di instaurare relazioni bidirezionali che prendano il posto di quelle a senso unico. Dall’altro lato, alcune domande rimangono aperte per il futuro. Come possono i musei sociali conciliare la voce discordante dei movimenti militanti con la necessità di istituzionalizzazione? Come risponderebbero alle esigenze dei portatori di interessi mantenendo il proprio ruolo attivo nella lotta politica? Quale formula di collaborazione tra musei sociali e musei tradizionali può essere praticabile? Sicuramente le conferenze e i workshop Minom continueranno a cercare risposte per una museologia sempre più attiva nella sfera sociale.


Note

1 Dipartimento di scienze umanistiche dell’Università di Catania, https://www.disum.unict.it/it/content/conferenza-internazionale-del-movimento-internazionale-per-una-nuova-museologia-minom, ultima consultazione di tutti i link: 10 marzo 2024.

2 Pagina Facebook Minom Catania 2024.

3 Programma cartaceo del workshop.

4 In questo articolo la traduzione delle citazioni è mia.

5 Michael Frisch, A Shared Authority. Essays on the Craft and Meaning of Oral and Public History, New York, State University of NY Press, 1990.