Raccogliere le prove. Luoghi, testimonianze e documenti per la costruzione di una cultura di pace

Collecting evidence. Sites, testimonies, and documents for building a culture of peace

In apertura: un murale realizzato presso la Scuola di Pace.

 

La città è ridondante: si ripete perché qualcosa arrivi a fissarsi nella mente.

[…]

La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere.

Italo Calvino, Le città invisibili

Poco a poco scompaiono persino le parole cesellate nella pietra,

come sparisce la vita,

come si dileguano i sogni

Héctor Abad Faciolince, Una poesia in tasca

 

La Fondazione Scuola di Pace di Monte Sole, nata nel 2002, ha sede legale, direzione e struttura operativa nel cuore del Parco Storico di Monte Sole. Questo significa che la Scuola di Pace non ha compiti di manutenzione, conservazione e gestione del territorio. Non solo. La Fondazione Scuola di Pace di Monte Sole non possiede, organizza e custodisce nessun archivio, al di là di quello – per la verità piuttosto caotico e frammentario – della memoria delle proprie attività e iniziative. La Scuola di Pace «ha lo scopo di promuovere iniziative di formazione ed educazione alla pace, alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, al rispetto dei diritti umani, per la convivenza pacifica tra popoli e culture diverse, per una società senza xenofobia, razzismo ed ogni altra violenza verso la persona umana ed il suo ambiente»1. Quale dunque la relazione di questa istituzione con il patrimonio materiale e archivistico?

1. Il luogo dell’educazione alla pace

La Scuola di Pace si occupa di educazione ma lo fa su un luogo di memoria, ovvero in «una unità significativa, d’ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavorio del tempo ha reso un elemento simbolico di una qualche comunità»2. Fare educazione a Monte Sole, dunque, non può prescindere da una profonda riflessione sul luogo, sia dal punto di vista meramente fisico, di come appare, di come e in che condizioni è attraversabile, sia dal punto di vista della sua rappresentazione che delle diverse memorie legate ad esso. In questo senso, non si può prescindere da una profonda riflessione sul patrimonio materiale e sull’archivio.

Se educare significa “condurre fuori”, “liberare”, “far venire alla luce”, quello che deve fare il processo educativo è “smontare” il testo “costruito” sul luogo e attraverso di esso e trasformare la commemorazione autoassolutoria e il rito identitario in spazio/tempo di riflessione pluriversa che apre a interrogativi imprevisti su azioni e linguaggi della propria presenza nel mondo.

Nel caso di Monte Sole la “forma-parco” appare perfetta a questo scopo: comprendendo praticamente tutti i luoghi colpiti dall’operazione di pulizia del territorio condotta dai soldati della 16a Divisione Corazzata Granatieri Reichsführer delle SS, risulta essere la forma inclusiva per eccellenza. È possibile rintracciare al suo interno differenze, dissonanze e perfino conflitti; è possibile includere tutte le diverse situazioni e quindi tutti i racconti e tutte le memorie; è possibile tentare di gestire eredità particolarmente traumatiche sia a livello personale che collettivo e per questo è pensabile il procedere nella direzione dell’elaborazione del lutto e della facilitazione del processo di “guarigione” delle ferite individuali e di ricomposizione delle fratture comunitarie e sociali.

Non solo. Nell’azione educativa della Scuola di Pace si prendono in considerazione tutte le stratificazioni del luogo, dall’iniziale abbandono alla risalita, dalla focalizzazione su alcuni dei luoghi toccati dal massacro all’oblio destinato ad altri, dalla sua rinascita come luogo di bellezza e di pace ma anche come luogo di vita e lavoro, di produzione economica e culturale.

La Scuola di Pace non si occupa quindi strettamente di didattica del patrimonio, ma prova a creare una relazione orizzontale e democratica tra chi con quel patrimonio entra in contatto per discuterne le interpretazioni, dibatterne i significati, sfruttarne le potenzialità e leggerne le insidie.

Monte Sole è dunque lo sfondo integratore3 di ogni attività che la Scuola di Pace elabora e sviluppa ed è un patrimonio materiale di cui la Scuola non potrebbe fare a meno. Per chi raggiunge quelle colline, il trovarsi fisicamente nel Parco, l’esperire col proprio corpo la bellezza della natura, la fatica del camminare, gli odori, i colori, il clima, fa sì che i sentieri, gli alberi, le pietre assumano senso nel presente. E il senso nel presente si connette con il senso del passato, agganciando le storie e le memorie, per riportarle in un qui e ora che interroga le parole e i silenzi, i comportamenti, le azioni o le omissioni di chi entra in contatto con Monte Sole.

Le modalità che la Scuola di Pace utilizza di preferenza conducono quindi alla coeducazione: tutt* fanno parte di un processo di apprendimento collettivo e reciproco nel quale i/le facilitatori/trici imparano quanto i/le partecipanti. Informazioni e nozioni non vengono trasmesse, ma messe a disposizione di tutt* per avviare un processo di riflessione.

In questo senso, il luogo non è un ambiente neutro e sostituibile, poiché è l’allenamento a vederne le diverse sfaccettature a predisporre all’ascolto di sé e del mondo, nonché al riconoscimento dell’altr* da sé come primo passo per la costruzione di una cultura di pace.

2. Memoria ed educazione al centro della giustizia di transizione

Una cultura di pace, tuttavia, non è una cultura che nega l’esistenza del conflitto. Al contrario, essa insegna a riconoscerlo e accettarlo, come presenza costante e non necessariamente negativa in sé, purché se ne diventi consapevoli, si impari a riconoscerne i diversi aspetti, ad agire su di essi, trasformandoli in modo creativo, in forme non violente; purché si impari a comprendere e accettare che esso appartiene alla quotidianità del nostro vivere. Come scrive Charles Villa-Vicencio dopo la sua esperienza alla Commissione Verità e Riconciliazione in Sudafrica, «riconoscere la possibilità del male in ciascuno di noi chiama in causa l’importanza di assumerci l’impegno di fare in modo che il male del passato non debba più ripetersi in futuro»4.

Il lavoro internazionale sui conflitti e sulla riconciliazione è quello che ha dato vita alla Fondazione e continua a caratterizzarne l’approccio e la metodologia. L’idea stessa della Scuola di Pace infatti è nata negli anni Novanta, momento di grande vitalità del movimento pacifista, dopo la Guerra del Golfo e le Guerre dei Balcani. Si deve ad alcune associazioni l’intenzione di lavorare sui conflitti, in un luogo che ne aveva subito uno terribile. E questa origine ci lega profondamente all’attivismo della società civile, con cui condividiamo pezzi di strada importanti.

Uno di questi è il lavoro nella cornice della cosiddetta giustizia di transizione. Sul sito della più importante istituzione internazionale che opera su questo tema, l’International Center for Transitional Justice5, si legge che la giustizia di transizione si riferisce al modo in cui le società rispondono alle eredità di gravi e massicce violazioni dei diritti umani. Non è un monolito, né una formula unica che i singoli contesti possono replicare. La giustizia di transizione è più simile a una mappa e a una rete di strade che possono portare più vicino all’obiettivo finale: una società più pacifica, giusta e inclusiva, che abbia fatto i conti con il suo passato violento e abbia reso giustizia alle vittime. Non esiste un’unica strada. Al contrario, società diverse intraprendono percorsi diversi, a seconda della natura delle atrocità che si sono verificate e delle peculiarità di quella società, tra cui la sua cultura, la sua storia, le sue strutture giuridiche e politiche e le sue capacità, nonché la sua composizione etnica, religiosa e socioeconomica. Questa mappa è composta da differenti svincoli che sono raggruppabili in nove macroaree: la giustizia penale, le riparazioni, la verità e la memoria, la riforma istituzionale, la giustizia di genere, l’impegno per i giovani, il perseguimento di obiettivi di sviluppo sostenibile, la prevenzione, la costruzione e l’implementazione di processi di pace. Un percorso di ricostituzione del tessuto sociale pieno e soddisfacente dovrebbe esplorare tutte queste rotte, ma sono appunto le variabili storiche, sociali e culturali a determinare quali saranno più facilmente percorribili e quali saranno di difficile implementazione.

Pur non essendo una formula esatta replicabile, comunque c’è una condizione imprescindibile, il punto di partenza generativo di ogni tipo di percorso che si voglia costruire: la centralità delle vittime.

È infatti necessario concentrarsi sui loro diritti e sulla loro dignità di cittadin* e di esseri umani e cercare di rendere conto, riconoscere e riparare ai danni subiti. Mettendo le vittime al centro e la loro dignità al primo posto, la giustizia di transizione indica la strada da seguire per un contratto sociale rinnovato in cui tutt* i/le cittadin* siano inclus* e i diritti di tutt* siano protetti.

Se questo è vero, si comprenderà come diventa essenziale il lavoro di indagine per la raccolta e la conservazione delle storie delle vittime, la raccolta e la conservazione delle prove delle violazioni compiute. In pratica come sia essenziale un lavoro di archivio.

I processi di documentazione archivistica che si propongono l’obiettivo di chiarire la verità spesso si attivano molto prima che inizino i percorsi ufficiali e istituzionali di riconciliazione. In effetti, gran parte del lavoro svolto dalle istituzioni incaricate di implementare questi percorsi di transizione poggia spesso sull’eredità costruita dalle organizzazioni della società civile nel corso di decenni. La documentazione d’archivio cerca quindi di ricostruire gli eventi che si configurano come crimini contro i diritti umani, cerca di determinare i responsabili (autori materiali e mandanti) degli atti commessi, le circostanze in cui sono stati commessi, chi sono le vittime colpite e, in alcuni casi, anche le possibili cause di questi eventi.

La documentazione d’archivio risulta dunque fondamentale per la ricostruzione (storica) dei fatti poiché di fatto offre il materiale probatorio in modo che le vittime possano rivendicare il proprio diritto alla verità, alla giustizia e alla riparazione, in modo che sia possibile attribuire le responsabilità ai diversi attori, siano essi individui, gruppi o istituzioni, nell’esecuzione di questi crimini. La parola chiave diventa dunque riconoscimento e tale parola chiave ci rimanda al nucleo metodologico che il radicamento a Monte Sole ha consegnato alla Scuola di Pace.

3. Gli archivi per l’educazione alla pace

Nello sviluppo del suo lavoro a livello internazionale, la Scuola di Pace ha agito di fatto nell’alveo di tre di quelle macroaree definite dal paradigma della giustizia di transizione: verità e memoria, impegno per i giovani e processi di pace. Progettando e realizzando esperienze residenziali sia per giovani che per adulti che vivono in contesti di conflitto o di post-conflitto, elaborando e sperimentando percorsi di formazione e sostegno per attivisti e attiviste in situazione di grande trauma sociale, la Scuola di Pace ha agito mettendo sempre al centro i bisogni e le risorse dei/lle partecipanti, strutturando percorsi di co-educazione dal basso, pienamente centrati sulla persona e in cui molte attività prevedono lo storytelling6. Nel corso degli anni, la Scuola di Pace ha incontrato diverse realtà archivistiche impegnate in una missione di ricomposizione del tessuto sociale e con esse ha sviluppato e approfondito alcune linee di lavoro e alcuni concetti chiave per l’educazione alla pace.

La prima in ordine di tempo è stata l’organizzazione Memoria Abierta, con base a Buenos Aires7. Memoria Abierta è un’alleanza di organizzazioni argentine per i diritti umani che dal 2000 promuove la memoria delle violazioni dei diritti umani del recente passato (terrorismo di Stato durante la dittatura 1976-1983), delle azioni di resistenza e delle lotte per la verità e la giustizia, al fine di riflettere sul presente e rafforzare la democrazia. Per questo motivo, Memoria Abierta cataloga e dà accesso a diversi archivi istituzionali e personali; produce interviste audiovisive che costituiscono un archivio di storia orale; contribuisce a dare visibilità ai luoghi utilizzati per la repressione attraverso diversi strumenti e registri; sviluppa risorse tematiche per la divulgazione e l’educazione basate sulla ricerca, cercando di promuovere dibattiti sulle modalità di narrazione di ciò che è accaduto e collabora, nella specificità dei suoi compiti, con le azioni del sistema giudiziario. Il senso del loro lavoro archivistico è particolarmente emblematico poiché incarna esattamente l’opposto del disegno politico della dittatura militare di Videla: le prove, le testimonianze contro le sparizioni e la segretezza, l’Archivo Oral contro i/le desaparecid@s. Il regime basava infatti la sua strategia sui sequestri notturni, sulle incarcerazioni in centri di detenzione segreti, sulla dispersione dei poveri corpi martoriati dalle torture nel Rio de la Plata e nell’Oceano Atlantico. Al contrario, le organizzazioni che compongono Memoria Abierta fondano la loro esistenza sulla trasparenza nella raccolta di documenti, storie individuali e memorie di comunità; sulla organizzazione puntuale e continuamente aggiornata dei materiali per una consultazione accessibile a tutta la cittadinanza; sulla mappatura di momenti e spazi significativi per ragionare sulla sistematicità delle violazioni; sulla regolare e competente conservazione di tutte le informazioni per fornire fonti e strumenti innovativi all’avanzamento dei casi giudiziari. Camminare accanto a Memoria Abierta ha consentito alla Scuola di Pace di elaborare maggiormente e con più consapevolezza la tematica delle interviste ai/alle sopravvissut*, nei suoi risvolti etici e psicologici, nelle sue conseguenze a livello sociale e di rappresentazione pubblica del passato e ha permesso di sviluppare meglio la questione – centrale per l’educazione alla pace – dell’importanza dei processi di umanizzazione al contrario della stereotipizzazione.

La seconda realtà che la Scuola di Pace ha incontrato è stata l’organizzazione Humanitarian Law Center di Belgrado8, fondata nel 1992 dall’attivista per i diritti umani Nataša Kandić e che da allora ha lavorato instancabilmente per documentare i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani in Croazia, in Bosnia e in Kosovo e per sostenere le vittime e le loro famiglie nell’ottenere giustizia.

La documentazione raccolta è stata fondamentale per i casi principali che sono stati discussi al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, come quello di Foča, che fu un caso cruciale per il perseguimento penale della violenza sessuale in tempo di guerra. Quando è iniziata la guerra in Kosovo, l’HLC ha aperto degli uffici nella regione e vi è rimasta anche durante i bombardamenti della NATO, anche quando il Comitato Internazionale della Croce Rossa, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e i media internazionali se ne sono andati, continuando a raccontare quello che stava accadendo. Dopo la fine delle guerre, HLC si è dedicato alla giustizia di transizione. Ha sviluppato un modello di azione per promuovere la rappresentanza delle vittime nei vari processi nazionali per crimini di guerra, consentendo alle famiglie delle vittime di Bosnia, Croazia e Kosovo di partecipare ai processi in Serbia. Inoltre, HLC ha rappresentato più di 1.000 vittime di violazioni dei diritti umani e di crimini di guerra in procedimenti civili di risarcimento presso tribunali serbi.

Questo incontro ha permesso di riflettere su un aspetto degli archivi che non sempre viene messo in evidenza, ovvero come gli archivi possano costituire un baluardo di resistenza. Quando questa organizzazione venne fondata, il potere criminale di Slobodan Milošević era in un certo senso agli albori eppure gli oppositori e le oppositrici hanno compreso immediatamente come fosse essenziale non perdere nemmeno un frammento di quanto stava accadendo. Davanti alla debacle del sistema delle organizzazioni internazionali, davanti all’ignavia e all’inettitudine della comunità politica mondiale, il monitorare, documentare, diffondere informazioni, utilizzarle per imbastire fin da subito casi legali a livello di comunità nazionale hanno rappresentato e rappresentano tuttora un argine di resistenza rispetto alla dittatura, alla violenza e alla presunzione di impunità che il potere statale spesso mette in mostra.

Infine, la terza realtà che è importante menzionare è il Documentation Center of Cambodia di Phom Penh9. Il DC-Cam è stato fondato dopo che il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il Cambodian Genocide Justice Act nell’aprile 1994. Nel luglio dello stesso anno, è stato quindi istituito l’Ufficio per le indagini sul genocidio cambogiano presso l’Ufficio per gli affari dell’Asia orientale e del Pacifico del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, incaricato di indagare sulle atrocità del periodo dei Khmer Rossi (1975-1979). Lo scopo era quello di raccogliere prove sulla leadership della Kampuchea Democratica (DK) e determinare se il regime della DK avesse violato le leggi penali internazionali contro il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Gli obiettivi principali erano tre: preparare un’indagine e un indice della documentazione, intraprendere scientifiche ricerche storiografiche e fornire formazione legale agli/alle attivist*. Il primo responsabile di programma, Youk Chhang, era un sopravvissuto ai cosiddetti killing fields dei Khmer Rossi. Il DC-Cam è diventato un istituto di ricerca cambogiano indipendente il 1° gennaio 1997. Da allora, ha continuato le sue ampie attività di ricerca, documentazione e formazione.

In questo caso, è stato particolarmente interessante l’incontro e lo scambio in quanto il Centro ha raccolto e custodisce numerose testimonianze dei perpetratori. Alla Scuola di Pace, infatti, il lavoro educativo inizia con l’interrogarsi sulle ragioni che hanno reso possibile il sistema di terrore che si è manifestato a Monte Sole e durante la Seconda guerra mondiale, e che, in modi e forme diverse, ritroviamo in altri luoghi del mondo e in altri momenti della storia. Chi ha potuto commettere simili azioni? Erano umani? Come può un essere umano? Si poteva disobbedire? Qual è il confine tra responsabilità personale e influenza del contesto e del gruppo? Vale solo in guerra? I meccanismi di propaganda e costruzione del nemico che hanno portato ai disastri della Seconda guerra mondiale sono confinati a quel periodo oppure si ripresentano in altri spazi e in altri tempi? Fino a che punto ci possiamo autoassolvere se obbediamo ad un ordine, ci uniformiamo alla volontà del gruppo o “stiamo a guardare”?

Certo, questa appare come una batteria di domande insormontabili, ma se affrontate con pacatezza e concentrazione esse si rivelano fondamentali per cercare di orientare le azioni nel tempo presente. Durante una visita-studio, gli esperti di DC-Cam hanno organizzato un incontro con un sottufficiale appartenente ai Khmer Rossi, rendendo possibile porre quelle stesse domande proprio a lui. Non solo, l’incontro è stato organizzato alle porte del sito memoriale del campo di sterminio di Choeung Ek. In un verosimilmente problematico ma incredibilmente interessante cortocircuito emotivo, l’archivio in questo caso si rivela essere custode del (quasi) indicibile, del (forse) impensabile e proprio per questo si afferma come baluardo per la diffusione della pratica della coscienza critica nei propri confronti e nei confronti della società in cui si vive.

4. L’altro lato dell’archivio

Questo ultimo esempio di archivio ci riporta sulle colline di Monte Sole. Educare ad una cultura di pace infatti è un percorso lungo e complesso dove si intrecciano le memorie del passato ed lo sforzo costante di rielaborarle, a partire dalla consapevolezza di sé, dal riconoscimento dei propri limiti e delle proprie responsabilità, per riflettere sulle responsabilità altrui, sui meccanismi e sui percorsi che permettono l’emergere e il consolidarsi della cultura della violenza e della sopraffazione: l’indifferenza e il silenzio di chi vedeva avvicinarsi l’orrore e non sapeva opporvisi; l’indifferenza e il silenzio di chi, oggi, riconosce le premesse di analoghi processi di violenza e di terrore e tuttavia tace. Nella pratica esperienziale della Scuola di Pace di Monte Sole questo riconoscimento si svela proprio attraverso il processo educativo. Esso, attivando nei/lle partecipanti al contempo la sfera fisica, emozionale e cognitiva e partendo dall’analisi del comportamento dei perpetratori, con l’accortezza di non ridurre le analogie a uguaglianze mira a individuare nei diversi fattori fondativi della genealogia della violenza nazista i dispositivi e i meccanismi che fanno parte del nostro quotidiano stare insieme: la propaganda e la pubblicità; l’educazione; i mezzi di comunicazione di massa; l’imposizione rigida di modelli e identità; la costruzione e la reiterazione – consapevole e non – di stereotipi, pregiudizi e stigmi; l’esclusione, il razzismo e la discriminazione; l’obbedienza all’autorità; la ricerca del prestigio sociale; il conformismo e l’adeguamento alla pressione del gruppo; la categorizzazione e la disumanizzazione dell’altro attraverso il linguaggio verbale e delle immagini; la socializzazione del rancore; la costruzione del capro espiatorio e di identità oppositive noi/loro10.

E per arrivare a questo riconoscimento dei meccanismi di violenza quotidiani, lo sguardo va necessariamente volto non più solo verso le vittime ma appunto verso i perpetratori.

Dal 2020 la Scuola di Pace collabora ad un progetto di ricerca che fa capo al prof. Carlo Gentile dell’Università di Colonia dal titolo “Le stragi nell’Italia occupata 1943-1945 nella memoria dei loro autori”11.

Si tratta di un progetto che intende contribuire ad ampliare la conoscenza delle stragi naziste in Italia, integrando nella linea narrativa centrale delle vittime i risultati dei recenti studi della Täterforschung (ricerca sugli autori dei crimini) e della violenza di guerra delle forze armate naziste.

Muovendo dall’attuale stato degli studi, questo progetto intende creare strumenti che permettano ad un largo pubblico di comprendere quali meccanismi psicologici, quali percorsi politici, mentalità, motivazioni e disposizioni abbiano potuto portare in pochi anni migliaia di ordinary men a trasformarsi in assassini di civili innocenti, o come giovanissimi soldati di 17 o 18 anni abbiano potuto accettare come normale atto di guerra la strage di donne e bambini e, infine, quali conseguenze, non tanto penali quanto psicologiche, questa esperienza abbia avuto per i perpetratori e le loro famiglie.

Ecco dunque una nuova forma di archivio, interamente dedicata al “lato oscuro” della storia: una eccezionale fonte di informazioni, spunti e riflessioni ma anche un banco di prova incredibilmente denso per l’educazione.

La pratica – che è piuttosto comune – di “voler incontrare un testimone”12 non si basa tanto su quella restituzione di dignità cui si accennava in precedenza nell’ambito della giustizia di transizione. «Il testimone […] non ci interessa come veicolo di informazioni fattuali, come un semplice surrogato di oggettività da usare solo laddove non siano proprio disponibili le più affidabili fonti scritte o materiali. La testimonianza ci interessa in sé»13, perché attraverso l’empatia possiamo in qualche modo essere partecipi di quell’innocenza e condannare chi, altro da noi, ha compiuto il male. L’atto del raccontare in capo al testimone/vittima perde la sua primaria funzione catartica, quella eminentemente privata ed individuale, che viene sorpassata da quella pubblica e collettiva della moralizzazione, di più complicata attribuzione. Lo scopo variamente dichiarato è che il racconto dell’orrore e dei tentativi di resistergli agisca da efficace vaccino contro il ripetersi dell’orrore. Ma come bloccare l’empatia mentre si legge il diario di un giovane soldato al fronte, lontano da casa da molti anni, impaurito e stanco? Come non “intenerirsi” davanti al racconto di un vecchio che ricorda i bei tempi della sua gioventù o le fatiche del tornare a vivere dopo la guerra? Detto altrimenti, come usare la Täterforschung senza dare spazio a tentativi di relativizzazione, a revisionismi o favorire l’identificazione con i carnefici del 1944?

Appare chiaro che precisione, differenziazione e chiarezza di giudizio sono più che mai necessari per affrontare questo tema, alla stregua di una seria formazione degli educatori e delle educatrici che vogliano usare il patrimonio materiale e documentale come strumento del loro lavoro. Questo perché in educazione non esistono automatismi ma relazioni, non esistono posizioni oggettive e neutre ma posizionamenti relativi, personali e mutevoli, non esistono solo meri ragionamenti ma si attivano sensazioni, emozioni e sentimenti, nonché preconcetti, pregiudizi e stereotipi sia nei/lle formatori/trici che nei/lle partecipanti. È insomma necessaria una consistente preparazione per far sì che l’analisi critica prevalga sul giudizio, la comprensione e la decostruzione sulla condanna e sulla trasmissione valoriale sotto forma di comandamento.

5. Gli archivi antidiscriminazione

Rispetto all’educazione ad una cultura di pace vale certamente la pena di nominare un’ultima tipologia di archivi che hanno molto da offrire: gli archivi “attivisti”.

In qualche modo il principio del loro utilizzo è il medesimo, ovvero avere la possibilità di attingere a voci altrimenti inascoltate e consentire la ricostruzione del contesto in cui esse si sono espresse oppure sono state silenziate. Tuttavia, la loro peculiarità di essere archivi “di movimento” fa sì che essi si presentino come una sfida alla onnipresente gerarchizzazione sociale che il potere più o meno legittimamente struttura. Riferendosi ai movimenti, tali archivi spesso non raccontano di violazioni massive dei diritti umani ma descrivono uno stillicidio di abusi, ingiustizie, soprusi e violenze che altrimenti rischierebbero di passare inosservate e di essere assimilate come normali dalle società in cui si commettono. Tutte le società legittimano o istituzionalizzano disuguaglianze stabilendo che determinati gruppi di individui possano essere esclusi da ruoli, occupazioni, cariche pubbliche, beni, servizi. Quando a fare la differenza intervengono non tanto appartenenze sociali ma caratteristiche identitarie (vale a dire “ciò che le persone sono”) si dovrebbe parlare più propriamente di discriminazione, ovvero di disparità di trattamento attuata a partire da un processo di de-valorizzazione della persona. Ecco quindi diventare fondamentali i patrimoni raccolti e custoditi da movimenti come quello lgbtiq+, quello femminista, quello antirazzista, quello ambientalista o quello per i diritti delle persone con disabilità.

Per la Scuola di Pace lavorare con queste realtà vuol dire avere una solida sponda per ragionare sull’importanza del linguaggio, sulla necessità di smontare luoghi comuni e disinformazione, sul bisogno di una esplorazione onesta delle proprie cornici e della possibilità che ciascuno e ciascuna di noi agisca violenza nei confronti della persona umana che ci sta accanto e dell’ambiente che ci circonda.


Note

1 Dallo Statuto della Fondazione, consultabile qui: https://www.montesole.org/wp-content/uploads/2017/12/Statuto_modificato_definitivo_2012.pdf, ultima consultazione di tutti i link: 12 maggio 2025.

2 Pierre Nora, Les Lieux de Mémoire, Paris, Gallimard, 1984-1992, p. 7.

3 Paolo Zanelli, Massimo Marcuccio, Marina Maselli, Sfondo educativo, inclusione, apprendimenti, Bergamo, Zeroseiup, 2017.

4 Alejandro Bendana, Charles Villa Vicencio, La riconciliazione difficile. Dalla guerra a una pace sostenibile, Torino, EGA Edizioni Gruppo Abele, 2002, p. 27.

6 Elena Bergonzini, Elena Monicelli, Dar voce al silenzio. L’esperienza dei campi di pace a Monte Sole, in “Educazione Aperta”, 2020, n. 8, https://www.educazioneaperta.it/dar-voce-al-silenzio-lesperienza-dei-campi-di-pacea-monte-sole.html.

10 Non è questo il luogo per una trattazione compiuta di questa tematica. Tuttavia rimandiamo ad alcuni testi fondamentali che hanno improntato il lavoro della Scuola di Pace: Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964; Luca Baldissara, Paolo Pezzino, Un massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, Bologna, Il Mulino, 2009; Christopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Torino, Einaudi, 1999; Fabio Dei (a cura di), Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2006; Tzvetan Todorov, Memoria del male. Tentazione del bene, Milano, Garzanti, 2004; Enzo Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, Il Mulino, 2002.

12 Per approfondire: Elena Monicelli, “Fin che non vado via”. Il ruolo della testimonianza storica nell’educazione alla pace e ai diritti umani, in Marzia Rosti, Valentina Paleari, Donde no habite el olvido. Herencia y transmisión del testimonio: perspectivas socio-jurídicas, Milano, Le edizioni, 2017, pp. 177-191.

13 Fabio Dei, Storia, memoria e ricerca antropologica, in Clara Gallini, Gino Satta (a cura di), Incontri etnografici. Processi cognitivi e relazionali nella ricerca sul campo, Roma, Meltemi, 2007, p. 51.