Storia di Dorina e della sua fuga inutile

Villa Cadè è oggi una frazione del comune di Reggio Emilia e si estende lungo la via Emilia verso Parma, più o meno a dieci chilometri dal capoluogo. In passato, questo piccolo paese poteva contare sia sulla stazione ferroviaria sia sulla caserma dei carabinieri1. Qui è nata, il giorno della marcia su Roma, Dorina D., della cui esistenza vogliamo seguire le vicende in questo articolo. La sua vita è stata segnata, fin da giovanissima, dal ricovero in un celebre ospedale psichiatrico, il San Lazzaro di Reggio Emilia (del quale abbiamo già avuto occasione di occuparci in un’altra “Storia di paese”2) e, più avanti, dalla reclusione in carcere e in un manicomio criminale.

Dorina subì diverse forme di disciplinamento sociale, cadendo sempre più nella marginalità. Passò quasi dieci anni, praticamente tutta la sua adolescenza, come ospite della Colonia-Scuola “Antonio Marro”, un reparto, aperto da pochi anni, del manicomio reggiano, riservato a bambini e ragazzi di entrambi i sessi. Dorina proveniva da una famiglia indubbiamente “difficile”: i suoi genitori – a leggere le note anamnestiche contenute nella sua cartella clinica – presentavano entrambi «un deficiente sviluppo intellettuale». Il padre Luigi, in particolare, aveva anche seri problemi con l’alcool. Diversi fratelli di Dorina furono ricoverati al San Lazzaro: nell’archivio clinico della ex-istituzione psichiatrica risultano infatti i ricoveri anche di Luisa, Savino e Giuseppe – e la sorella di Dorina, in particolare, sarebbe rimasta molto a lungo al San Lazzaro, fino alla morte. È importante sottolineare il fatto che la questione dell’ereditarietà, cioè la presenza, fra ascendenti e collaterali, di persone con problemi psichici, di dipendenze o semplicemente “strane”, pesava molto nelle osservazioni degli psichiatri e nella loro formulazione di una diagnosi. Nel caso della famiglia di Dorina, nel quadro anamnestico si citano anche uno zio pure dedito all’alcool e una zia soggetta a non meglio specificati disturbi psichici. Viene sottolineato inoltre che la madre della bambina aveva avuto in passato due gravidanze interrotte.

L’anamnesi venne compilata da Maria Del Rio, la psichiatra che aveva creato la Colonia-Scuola e che ora la dirigeva3. Vi descrive Dorina come una «bambina di deficienti condizioni di nutrizione, pallida. È piuttosto vivace, poco ordinata nell’abbigliamento e nel contegno». Fin dai primissimi anni, la ragazza aveva dato, inoltre, «scarsi segni di attività psichica»4. Pochi giorni dopo l’ammissione al “Marro”, avvenuta il 17 dicembre 1929, Dorina fu sottoposta – come ogni altro ricoverato in manicomio – all’esame psichico, dalle cui osservazioni la Del Rio ricavò una diagnosi di frenastenia5. Si trattava di una debolezza piuttosto grave delle funzioni cerebrali, ed anche se – in estrema sintesi – non si era di fronte a una vera e propria malattia mentale, essa poteva portare a una deficienza intellettuale e a comportamenti tali da richiedere l’internamento in un ospedale psichiatrico6. Un mancato sviluppo mentale e caratteriale che poteva, però, essere disciplinato e orientato verso la buona condotta e l’autonomia: questa era l’intuizione della Del Rio che aveva, appunto, voluto l’istituzione della Colonia-Scuola, cercando di realizzare anche a Reggio una sintesi di pedagogia e medicina. Non tutti i bambini «deficienti ed anormali del carattere» potevano essere ammessi al “Marro”: requisito indispensabile era che ne fosse riconosciuta l’emendabilità, ovvero che fosse ritenuto praticabile un intervento psico-pedagogico tale da permettere di acquisire anzitutto una seppur rudimentale competenza professionale. Erano ammessi bambini e ragazzi di età compresa fra i 5 e i 15 anni (poi ridotti a 12). Dopo lunghi anni di tentativi compiuti per avere anche a Reggio Emilia un istituto ad hoc per i “deficienti”, fu nel 1921 che si arrivò alla inaugurazione della Colonia, il cui medico-sovrintendente – appunto la Del Rio – avrebbe dovuto coordinare il lavoro delle maestre e delle infermiere7. Al “Marro” le regole erano quelle del manicomio, con, in più, l’obbligo di frequentare la scuola elementare e i laboratori per l’avviamento professionale (in sostanza: facili lavori manuali)8. Il tempo era rigidamente organizzato, come in ogni istituzione totale, e nulla contava più della disciplina. Questo tipo di istituzione, che crebbe rapidamente nel numero dei bambini ospitati e nella fama, si poggiava sull’idea di difendere questi ragazzi dai pericoli del mondo esterno e, al contempo, di difendere la società da futuri disadattati e soggetti potenzialmente pericolosi. Umanitarismo e profilassi sociale andavano, come sempre nella lunga tradizione della scienza psichiatrica, assieme9.

Non era necessario che la diagnosi – come la frenastenia nel caso di Dorina – fosse assolutamente sicura: ciò che contava davvero era la possibilità di correggere le anomalie emergenti (tanto dal punto di vista psichico quanto da quello fisico). Di ogni bambino era compilata una “cartella biografica”, che conteneva annotazioni sia del campo medico sia di quello pedagogico (una sintesi fra la cartella clinica e il registro scolastico, in sostanza). Come dicevamo, all’ingresso era svolta tutta una serie di esami, compreso quello psichico. Dorina era dunque una bambina «di gracile costituzione», che dimostrava meno della sua età. I test svolti dalla Del Rio rivelarono carenze intellettuali marcate. Dorina appariva come una bambina disordinata, maleducata ma, al contempo, molto timida. La sua cartella biografica contiene poi diverse pagine di diari clinici: si tratta di annotazioni piuttosto ripetitive, scritte soprattutto in corrispondenza delle scadenze scolastiche (gennaio e giugno di ogni anno). Spesso limitate a poche frasi, raccontano di periodi di irrequietezza alternati ad altri di maggior contegno10. Dorina riesce comunque a proseguire, seppur lentamente, nella carriera scolastica, arrivando a completare, a 15 anni, il corso elementare inferiore. Contemporaneamente alla scuola, attende anche al lavoro di maglierista, ma non sappiamo con quali risultati. Fra alti e bassi, la vita di Dorina trascorre senza grandi scossoni. Soltanto una volta – siamo nel giugno del 1937 – accadde un episodio di indisciplina, che dovette apparire serio agli occhi della psichiatra: «Dorina, suggestibilissima, ha dato ascolto ai cattivi suggerimenti di una compagna (M. Adriana), confessando accuse inesistenti contro alcuni ragazzi. Dopo aver alquanto ribadito le sue affermazioni, ammette di aver ripetuto ciò che compagna le aveva ordinato di dire»11. Anche Adriana era stata ammessa – nel 1933 – perché frenastenica. Nella sua cartella clinica troviamo una descrizione di quanto avvenuto:

[Adriana,] profittando di una compagna deficiente e suggestibilissima, ha inventato una storia di visite notturne al suo dormitorio da parte di parecchi maschi. Questi sarebbero entrati “con chiavi false”, avrebbero a lei sussurrato “indovinelli”, poi sarebbero andati vicino alla compagna. Dopo aver alquanto sostenuto tutto questo, ha ammesso di aver architettato tutto questo per vendicarsi del personale che aveva fatto rapporto contro di lei12.

La «compagna deficiente» era appunto Dorina. La questione si risolse con alcune lettere di scuse, indirizzare alla «signora dottoressa»13. Il contegno di Dorina si era comunque al tal punto riordinato da permetterle di essere dimessa, nel maggio del 1938, in prova e su richiesta del padre, che si impegnava a sorvegliarla. In una delle ultime annotazioni, la Del Rio insiste comunque sul fatto che Dorina fosse una ragazza molto fatua e sempre «bisognosa di consiglio e di guida». Dorina rimase in libertà circa due anni. Il 5 settembre del 1940, infatti, venne ricondotta al San Lazzaro, ma questa volta in un reparto del manicomio vero e proprio. Proveniva dal “reparto celtico” dell’Ospedale Santa Maria Nuova di Reggio, dove era stata condotta dalla Squadra del buon costume della questura. Era risultata infetta da blenorragia. In manicomio fu assegnata alla 4ª classe (quella dei più poveri) e la diagnosi questa volta fu di frenastenia morale. Non dovevano essere stati mesi facili, quelli vissuti da Dorina in famiglia. Dall’“Esame della malata”, e in poche frasi, emergono diversi aspetti degni di nota, che concorrono a comporre il quadro di una esistenza assai disordinata e anche con i primi reati di cui dover rispondere.

Dichiara che da due anni circa fa la donna pubblica e tiene una camera in via Francotetto. Non le piace lavorare e si è rifiutata di andare alla scuola. Nel maggio scorso ebbe blenorragia curata all’ospedale. Il sonno è regolare.
Confessa di aver sottratto 30 lire dalla borsetta della donna che vende i lumini nella Chiesa della Madonna della Ghiara. Denunciata, ha dovuto scontare un mese di prigione.
Racconta con le infermiere e le malate, manifestando apertamente la sua soddisfazione, che le piace fare la prostituta14.

Una ragazza che ruba e che, soprattutto, ha iniziato a prostituirsi. Dorina era già nota per questa sua attività alle forze dell’ordine: in una nota dei carabinieri di Villa Cadè, del 5 settembre 1940, leggiamo: «È incorreggibile. Più volte fermata a Reggio Emilia dove andava a prostituirsi destando scandalo»15. L’episodio del piccolo furto di cui abbiamo letto – e per il quale Dorina era stata detenuta dal 28 luglio al 31 agosto successivo – venne anche ripreso da “Il Solco fascista”, quotidiano reggiano16. Per questo Dorina dovette comparire il 23 dicembre di quello stesso anno davanti al Tribunale dei minorenni di Bologna. Non sappiamo quale fu l’esito del processo, né dovevano conoscerlo i medici del San Lazzaro, se, ancora nel 1943, chiedevano allo stesso tribunale bolognese se esistessero degli impedimenti formali per la dimissione17. Nella cartella clinica possiamo ricavare ben poche osservazioni dei medici sulla vita di Dorina negli anni del secondo internamento. A volte la ragazza protesta per il fatto di essere trattenuta in manicomio, si rifiuta di mangiare, tenta una impossibile fuga mentre è a passeggio in un cortile. Viene definita come «un bel tipo di scriteriata e amorale», della quale sembra ormai assai improbabile, se non la guarigione, almeno un serio miglioramento. In cartella è conservato un solo autografo, senza data ma risalente alla primavera del 1941, nel quale – come era molto comune fra i ricoverati – Dorina scrive al medico-direttore affermando di sentirsi bene e chiedendo di essere liberata: «Ora stando qui ne o [sic] compreso il male che o fatto fuori. Ora voglio sperare che mi dia la libera uscita che mio babbo mi venga a prendere nella speranza del buon cuore come medico e come padre»18.

Paradossalmente, fu la guerra a “liberare” Dorina. Vediamo perché. Il San Lazzaro occupava una ampia area a est della città di Reggio, e si trovava delimitato a sud dalla via Emilia e a nord dalla linea ferroviaria Milano-Bologna. I terreni del San Lazzaro, molti dei quali coltivati dai ricoverati presso la Colonia agricola, confinavano con il piccolo aeroporto cittadino e, soprattutto, con i capannoni delle Officine Meccaniche Reggiane, direttamente impegnate nella produzione bellica. Per queste ragioni, con il passare del tempo, tutta quell’area divenne un obiettivo sensibile nel corso dei bombardamenti alleati19. Per lungo tempo gli amministratori del San Lazzaro chiesero al Ministero dell’Interno il permesso di sfollare i padiglioni, trasferendo i malati rimasti (chi poteva essere accolto in famiglia, veniva dimesso). Il manicomio fu sottoposto a bombardamenti ripetuti e quello dell’8 gennaio 1944 provocò decine di morti e di feriti gravi. Soltanto a maggio di quello stesso anno giunse il nullaosta per lo sfollamento dei malati in diversi strutture (soprattutto scuole) di paesi della provincia, fra le quali il Collegio di Correggio, dove venne trasferita Dorina. In quell’istituto – per nulla simile a un manicomio – la sorveglianza degli infermieri e delle suore era senz’altro meno rigorosa, tanto che nella notte fra l’8 e il 9 luglio di quello stesso 1944, assieme a una compagna (Pasquina V.), Dorina riuscì a scappare, calandosi da una finestra con delle lenzuola annodate. Le ricerche furono vane, anche nei giorni seguenti20. In una lettera del 10 luglio, da parte di uno psichiatra che lavorava nella “succursale” di Correggio al direttore del manicomio, sono contenuti alcuni particolari interessanti:

Vi comunico che alla evasione non devono essere estranei due militari che erano ricoverati nella locale Infermeria Provinciale e che ora si trovano, secondo quanto mi hanno riferito gli informatori, in licenza di convalescenza. I due suddetti soldati (od ufficiali come qualcuno sostiene) hanno consigliato le malate alla fuga, le avrebbero aiutare per uscire dal cortile della infermeria nel quale si erano calate dalla finestra e naturalmente tutto questo per avere rapporti sessuali.
Tale relazione avrebbe avuto breve durata poiché questa mattina la malata V. Pasquina è stata vista dal nostro personale su di un camion che percorreva la strada per Reggio. Il camion è stato fermato ma la malata è riuscita a darsi alla fuga attraverso i campi rendendosi irreperibile21.

Pasquina V., la compagna di fuga, era pure una frenastenica che era stata internata al “Marro” da bambina e che era rientrata al San Lazzaro nell’aprile del 1944. Non fu più ricondotta in manicomio: nel 1946 giunse alla direzione una lettera da Torino, nella quale una signora, nella cui casa Pasquina era a servizio da quasi due anni, chiedeva che le venissero recapitati i pochi beni (vestiti e un po’ di denaro) della ragazza ancora custoditi dall’economato dell’ospedale psichiatrico. Anche Dorina, come dicevamo, non sarebbe più rientrata al San Lazzaro, anche se la sua cartella clinica contiene ancora diverse informazioni sulla sua “carriera” di criminale.

Qualche giorno dopo la fuga, il padre di Dorina si presentò al direttore del manicomio, affermando che l’evasa era tornata a casa e chiedendo che le fosse nuovamente affidata in custodia. La condotta della ragazza non cambiò per nulla, anzi. Siamo a conoscenza di almeno tre episodi, in cui «la bella Dorina» – così, quasi nel tentativo di creare un personaggio buono per la cronaca reggiana, capita che sia citata sulla stampa la protagonista di questa storia – rivestì i ruoli di ladra, adescatrice e, soprattutto, di (mancata) omicida.

Su “Reggio democratica” (quotidiano locale del post-Liberazione), il nome di Dorina compare in diverse occasioni, fra il settembre del 1945 e il febbraio del 1947. Nel primo caso, abbiamo la cronaca di un suo arresto, per un furto compiuto presso la “Casa di protezione della giovane”. Qui Dorina aveva cercato accoglienza per una notte, essendo venuta – a suo dire – in città per cercare lavoro. Rubò una valigia e parecchio denaro, appartenenti a un’altra ospite22. Un anno dopo, nel settembre 1946, Dorina ricompare, questa volta nella vesti di «maliarda». Nella cronaca locale leggiamo di un suo sfortunato incontro ai Giardini pubblici:

Ieri in Tribunale sono stati celebrati i seguenti processi:
in istato di arresto è comparsa, per rispondere di furto aggravato, Dorina D., di Luigi, di anni 24, da Villa Cadè. Certo Ildebrando A., si imbatté un giorno ai giardini pubblici nella D. [Dorina]. Ben presto i loro cuori batterono all’unisono e l’A. invitò la compagna in casa sua. Dopo i convenevoli d’uso, l’A. si allontanò, non senza avere offerto alla bella Dorina cento lire per il disturbo che essa si era preso tenendogli un po’ di compagnia. E qui casca l’asino. La bella Dorina approfittava della temporanea assenza del suo anfitrione e dal portafogli di questo sottraeva settemila lire. Poi si congeda mentre l’Armani constata amaramente l’ammanco. Come fare per rintracciare la bella sconosciuta della quale non sapeva neppure il nome? La strada c’è. Prima di andare a casa, con la bella sconosciuta era stato da un fotografo presso il quale la D. aveva ritirato alcune sue fotografie. Il fotografo è in grado di fornire le generalità della non più sconosciuta D. e la Questura può quindi arrestarla. All’udienza l’imputata ha negato l’addebito, mentre l’A., che forse ha più buona memoria della compagna, ha insistito che non c’era dubbio, era lei la maliarda. E la povera Dorina si è buscata un anno di reclusione e millecinquecento lire di multa23.

Le cose per Dorina si fecero però ancora più difficili sei mesi dopo, quando fu arrestata per aver cercato, senza riuscirci, di uccidere con un coltello, pare a scopo di rapina, una sua zia vicina di casa, a Villa Cadè. La ragazza, allora venticinquenne, era in casa della parente, quando iniziò a colpirla. Subito dopo, «la Dorina, avvedutasi che stava accorrendo gente, si liberava del coltello che gettava a terra e, abbandonata la zia ferita in più parti del corpo, a terra in una pozza di sangue, usciva in fretta, chiudeva l’uscio e se ne andava asportando la chiave per impedire che il fatto venisse scoperto prima che lei avesse il tempo di nascondersi»24. Dorina tentò una breve fuga, nascondendosi in un fienile vicino alla stazione ferroviaria del paese, ma fu presto catturata. La gravità del gesto sottrasse per molto tempo (e, forse, per sempre) la libertà a Dorina, la quale, però, non fu condannata a una pena detentiva. Anche se non abbiamo potuto recuperare i documenti relativi al processo, sappiamo, grazie a un carteggio sempre contenuto nella cartella clinica, che Dorina venne prosciolta, perché ritenuta incapace di intendere e di volere, e venne internata nel celebre manicomio giudiziario di Aversa. L’ultima traccia della custodia di Dorina là risale al 1952, quando il padre Luigi, analfabeta, tramite la direzione del San Lazzaro, chiese informazioni sullo stato di salute della figlia. La riposta da Aversa ci fa sapere che per Dorina era tuttora attiva una “misura di sicurezza”, che sarebbe scaduta proprio nell’agosto di quell’anno, «salvo riesame della pericolosità sociale da parte del Giudice di Sorveglianza»25. In altri termini, Dorina era capitata nel circuito della psichiatria giudiziaria, dal quale era indubbiamente molto difficile uscire, e ben più difficile che uscire da un manicomio “civile”.

A rileggere la storia di Dorina, sembra davvero di trovarsi di fronte a un piano inclinato. Nessuna istituzione ha potuto o voluto davvero aiutare quella ragazza, limitandosi semplicemente a “custodirla”, rendendola il più possibile inoffensiva. La vita di Dorina, come quella di tanti altri frenastenici, di tanti “deficienti ed anormali del carattere” finiti in una scuola speciale o, peggio, in un manicomio fin da bambini, non fa che ribadire il fallimento dell’istituzione manicomiale come luogo di cura, ma soprattutto il fallimento di una psichiatria interpretata essenzialmente come strumento di profilassi sociale.


Note

1 Sulla storia di Cadè, cfr. Idro Artioli, Villa Cadè nella storia e nei ricordi: con piantine e disegni dell’autore, Parrocchia di Cadè, Reggio Emilia, 1999; Federica Artioli, Storia dell’istruzione elementare a Villa Cadè di Reggio Emilia (1948-1958). Conoscere la scuola attraverso la voce dei suoi protagonisti, Cleup, Padova, 2016.

2 Cfr. Francesco Paolella, Storia di Luigi R., sacerdote di montagna, in “Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi”, 1, 2017.

3 Cfr. Una psichiatra fra scienza, storia, arte e solidarietà: Maria Bertolani Del Rio. Casina, 11 luglio 1998: atti del convegno, CISO, Reggio Emilia, 2000; Giovanna Caroli, Maria Bertolani Del Rio. Caritas et scientia, elevata dottrina e nobilissimo cuore, La Nuova Tipolito, Felina, 2018.

4 Archivio storico dell’ex ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, Cartella clinica di Dorina D., dimissione del 17 maggio 1938, Anamnesi.

5 Anche ai suoi fratelli fu attribuita una diagnosi di frenastenia, mentre la sorella Luisa fu considerata affetta da «gracilità intellettuale e grave instabilità del carattere» (Archivio storico dell’ex ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, Cartella clinica di Luisa D., dimissione del 18 luglio 1942, Tabella nosografica). Sempre nella cartella di quest’ultima, la loro famiglia viene definita da uno psichiatra come una «famiglia di oligofrenici».

6 Per una storia della frenastenia, cfr. in particolare, Valeria Paola Babini, La questione dei frenastenici. Alle origini della psicologia scientifica in Italia (1870-1910), Franco Angeli, Milano, 1996.

7 Sulla storia del “Marro”, cfr. Francesco Paolella, Judtih Kasper, Verusca Fornaciari, La storia della Colonia-Scuola “Antonio Marro” dell’O.P. “San Lazzaro” di Reggio Emilia, in “Servizi sociali oggi”, 1, 2009, pp. 29-30; Francesco Paolella, Un esperimento di profilassi sociale. La colonia-scuola “Antonio Marro” di Reggio Emilia, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, vol. CXXXIV, n. 3, 2010, pp. 23-34. La Colonia-Scuola rimase aperta, pur con diversi cambiamenti, per circa cinquanta anni: fu nei primi anni Settanta, infatti, che – sulla spinta dei movimenti di lotta ai manicomi (e anche ai “manicomi per bambini”) – si arrivò alla chiusura dell’istituto, nel frattempo ribattezzato Scuola-Convitto “De Sanctis” (cfr. Deistituzionalizzazione: l’esperienza del “De Sanctis” di Reggio Emilia, La Nuova Italia, Firenze, 1977).

8 «Si deve preparare i preadolescenti a imparare un mestiere utile, in una economia in trasformazione, che sempre più si viene allontanando dalla produzione agricola, per scoprire una vocazione industriale o meglio artigianale e di piccola e media azienda. Sono ormai evidenti le linee sulla quale si verrà sviluppando l’economia reggiana, e più genericamente medio-padana, durante questo secolo. I giovani della “Marro” dunque dovranno essere preparati ad inserirsi in questo processo economico in trasformazione. Si deve dunque dare loro la possibilità di acquistare, seppure a livello manuale minimo, una specializzazione. La prima uscita pubblica della “Marro” è la partecipazione, nel 1922 alla “Esposizione agricola industriale e del lavoro” tenuta a Reggio Emilia. Accanto a lavori esemplificativi della produzione tradizionale di cucito e di lavorazione della paglia o del legno vengono esposti oggetti realizzati con nozioni di “stagnoplastica, cartonaggio… impiego della macchina da cucire, e di quella per i lavori a maglia”. Gli allievi apprendono anche nozioni di dattilografia» (Il cerchio del contagio. Il S. Lazzaro tra lebbra, povertà e follia 1178-1980, Istituti Neuropsichiatrici San Lazzaro, Reggio Emilia, 1980, pp. 52-53).

9 Non può essere certo un caso che questa idea di educazione (o di rieducazione, per meglio dire) trovasse corrispondenza in diversi aspetti dell’ideologia fascista. La stessa Del Rio sottolineò spesso l’affinità profonda fra le sue idee e e i suoi progetti di “medicina sociale” e quanto voluto dal regime, ad esempio a proposito di difesa dell’infanzia (si pensi alla creazione dell’ONMI nel 1925). La Del Rio pubblicò pubblicò nel 1927 su “Maternità e Infanzia” un resoconto dettagliato sulle attività svolte al “Marro” (cfr. Maria Del Rio, Colonia Scuola “Antonio Marro” (Reggio Emilia), in “Maternità e Infanzia”, II, 5, 1927, pp. 39-48).

10 Un esempio: «Dorina frequenta scuola e laboratorio con incostante regolarità. È fatua, chiacchierina, poco volonterosa d’apprendere. Fisicamente sta bene» (Archivio storico dell’ex ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, Cartella clinica di Dorina D., dimissione del 17 maggio 1938, Diari clinici, luglio 1934).

11 Ivi, Diari clinici, 2 giugno 1937.

12 Archivio storico dell’ex ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, Cartella clinica di Adriana M., dimissione del 6 settembre 1940, Diari clinici, 3 giugno 1937.

13 «Signora anche l’A. e la D. domandano perdono e dicono che se sono state poco buone nella settimana ora faranno il possibile perché domenica vogliono fare la S. Comunione come tutte le altre e farsi vedere che se lo sono meritate» (Ivi, Autografo, senza data).

14 Archivio storico dell’ex ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, Cartella clinica di Dorina D., dimissione del 9 luglio 1944, Esame della malata, 8 settembre 1940. Via Francotetto, oggi non più esistente, era uno dei luoghi reggiani deputati alla prostituzione, in zona Santa Croce, un quartiere popolare dove c’erano vere e proprie case di tolleranza, ma dove si esercitava il “mestiere” in appartamenti privati (cfr. Angela Pietranera, Quelle donnine: storia, testimonianze, immagini, La Nuova Tipolito, Felina, 2008).

15 Ivi, Rapporto dei Carabinieri di Villa Cadè, 5 settembre 1940.

16 «È stato denunciato il furto di un sacchetto contenente un centinaio di lire, patito il 27 corr. da Virginia M., casalinga, abitante in via Dalmazia. Da alcuni connotati raccolti da persone che avevano visto sostare con fare sospetto nei pressi della casa della M. una ragazza di circa 18 anni, la derubata identificava la responsabile in certa D. Dorina, […] la quale, fermata dagli agenti della Questura, ha confessato il furto limitandosi ad asserire che anziché cento il sacchetto di tela conteneva una trentina di lire, che la ragazza avrebbe speso fra una bancarella e l’altra e fra l’uno e l’altro padiglione dei baracconi» (L’attrazione dei baracconi conduce anche al furto, in “Il Solco fascista”, 31 luglio 1940, p. 2).

17 «Ora è uscita di minorità e potrebbe venir dimessa a norma dell’articolo 69 del Regolamento alla legge sui manicomi. Si prevede che si darà di nuovo alla prostituzione» (Archivio storico dell’ex ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, Cartella clinica di Dorina D., dimissione del 9 luglio 1944, Lettera della Direzione del San Lazzaro al Tribunale dei minorenni di Bologna, 24 novembre 1943). Il riferimento è al Regolamento del 1909 alla legge sui manicomi, la cosiddetta “legge Giolitti” promulgata nel 1904.

18 Ivi, Autografo della malata, senza data.

19 Cfr. Amos Conti, Michele Becchi, 22.000 bombe su Reggio Emilia. Bombardamenti alleati e vita (e morte) quotidiana 1940-1945, Diabasis, Reggio Emilia, 2009.

20 Dorina fu una dei pochi a scappare: «Poche fughe di malati contrassegnarono la vita dell’Istituto fuori della sua residenza» (Aldo Bertolani, Cronistoria dell’Istituto Psichiatrico di San Lazzaro durante la guerra, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, LXIX, 1945, pp. 237-249, p. 248).

21 Archivio storico dell’ex ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, Cartella clinica di Dorina D., dimissione del 9 luglio 1944, Lettera al direttore del San Lazzaro, 10 luglio 1944.

22 Cfr. L’avvenente Dorina arrestata per furto alla Casa della Giovane, in “Reggio Democratica”, sabato 1° settembre 1945, p. 2.

23 In Tribunale. 7 mila lire per un attimo d’oblio sono un po’ troppe, in “Reggio democratica”, sabato 7 settembre 1946, p. 2.

24 L’ultima di “Dorina”, in “Reggio democratica”, domenica 23 febbraio 1947, p. 2.

25 Archivio storico dell’ex ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, Cartella clinica di Dorina D., dimissione del 9 luglio 1944, Lettera al direttore del San Lazzaro, 5 agosto 1952.