We’re southern rebels, but more than that
we know the difference between right and wrong
(Ronnie Van Zant, 1974)
Come molti bambini nati e cresciuti all’epoca della Tivù dei ragazzi sul secondo – e ultimo – canale RAI e dei soldatini Atlantic (una scatola 100 lire) avevo un’autentica passione per le storie del Far West. Una passione divorante, a dire il vero, che nutrivo sacrificandole la maggior parte del mio tempo libero. C’erano i soldatini, per l’appunto, almeno quando riuscivo a raggranellare le fatidiche 100 lire, e naturalmente i fumetti. Un po’ di Tex, mai amato granché, moltissimo Zagor; poi, da più grande, Ken Parker, che ho scoperto solo molto tempo dopo avere le sembianze di Robert Redford alias Jeremiah Johnson di Corvo rosso non avrai il mio scalpo. Leggevo anche molti libri a tema, meglio se profusamente illustrati, fantasticando sui quadri di Frederic Remington e George Catlin che, bimbo dotato di un certo talento figurativo, mi sforzavo di riprodurre, con esiti talvolta anche dignitosi. Nella lotta senza quartiere tra indiani e visi pallidi parteggiavo s’intende per i pellerossa, ma con una particolare eccezione. Avevo infatti in simpatia il tenente colonnello, per tutti generale, George Armstrong Custer – di cui pure non ignoravo le nefandezze –, massacrato con i suoi del 7° Cavalleggeri nella battaglia del Little Big Horn il 25 giugno 1876.
Tra nordisti e sudisti, invece, tra giacche blu e giacche grigie, nessun dubbio mai: i primi sempre e comunque. Lì c’era in ballo la schiavitù dei “negri” (a quel tempo si diceva così, con la g, senza alcuna pruderie nemmeno da parte della militanza antirazzista e terzomondista), una brutta faccenda. Il confine tra bene e male non poteva essere più netto. Il presidente Abramo Lincoln, un nome che di per sé esprimeva nobiltà d’animo e rettitudine morale, aveva voluto suo malgrado la guerra fratricida per liberare gli afroamericani dai ceppi di un istituto indegno e infamante, che non poteva avere giustificazioni. Ne sono rimasto convinto, più o meno distrattamente, fino a quando, ormai adulto, non ho letto il classico di Raimondo Luraghi sulla storia della guerra civile americana1. Dalle pagine del grande storico naturalizzato torinese, già combattente partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà, ho imparato – o meglio ho finito di imparare – che la lotta per l’abolizione della “peculiare istituzione”, come eufemisticamente era chiamata la schiavitù da politici e giuristi del Sud, era stata solo una delle tante cause (sebbene quella “mobilitante”) del terribile conflitto. Che la Confederazione del presidente Jefferson Davis non era un conglomerato puro e semplice di retrogradi razzisti e ignoranti, ma una società complessa con una sua forte identità culturale. Che la stessa “peculiare istituzione”, per quanto aberrante e lontanissima dalla nostra sensibilità, bisognava sforzarsi di leggerla dentro quel particolare contesto. Per farla breve: che la storia dei nordisti e dei sudisti era molto complicata. Talmente complicata che le ferite di quella guerra, e ancor più di quel lunghissimo dopoguerra, sono aperte ancora oggi, a distanza di un secolo e mezzo, e continuano ad alimentare rancori e divisioni, come ha dimostrato la vicenda emblematica della rimozione dei monumenti confederati a seguito dei drammatici fatti di Charleston del 17 giugno 20152.
Da grande ho sostituito la passione per il Far West con quella per il rock ‘n roll. In fondo, sempre di roba americana si tratta, roba “a stelle e strisce”. Un momento, solo “a stelle e strisce”? Non proprio, perché esiste anche un rock americano che indossa orgogliosamente i colori della bandiera confederata, la cosiddetta Blood-Stained-Banner. È il southern rock, il rock del sud, che ha conosciuto il suo periodo d’oro nel decennio 1970-1980, e che si potrebbe sommariamente descrivere come un grintoso rock ‘n roll senza troppi fronzoli, declinato in chiave più o meno hard, dominato dal suono delle chitarre (minimo due, meglio se tre), con frequenti striature blues, talvolta country3.
Di questo genere musicale autoctono, che per convenzione si fa iniziare nel 1969 con la stratosferica Allman Brothers Band dei fratelli Duane e Gregg Allman (in realtà più un gruppo rock-blues in senso stretto, seppure con forti peculiarità), i campioni indiscussi rispondono al nome – uno dei più curiosi e dei più ardui da pronunciare dell’intera storia del rock – di Lynyrd Skynyrd4.
Le radici del gruppo sono nella città portuale di Jacksonville, Florida, uno dei centri della Confederazione maggiormente contesi durante la guerra civile, divenuta in seguito fra gli assai poco gloriosi simboli dell’apartheid americano; con una lunga storia di fortissime tensioni razziali culminate nei disordini dell’“Ax Handle Saturday” del 27 agosto 1960, quando una masnada di bianchi, molti dei quali probabilmente facenti parte del Ku Klux Klan, assalì un gruppo di attivisti per i diritti civili impegnati in sit-in di protesta nei locali ove vigeva la segregazione, abbandonandosi a orribili violenze.
Attiva fin dalla metà degli anni Sessanta sotto diversi nomi e con diverse formazioni, la band si stabilizza all’inizio del nuovo decennio intorno a cinque elementi, il cantante Ronnie Van Zant, i chitarristi Allen Collins e Gary Rossington, il tastierista Billy Powell, e la sezione ritmica di Bob Burns, batteria, e Leon Wilkeson, basso. Più tardi si sarebbe aggiunta la terza chitarra del californiano Ed King, già punto di forza degli psichedelici Strawberry Alarm Clock, autori di Incense and Peppermints, uno dei brani più trasmessi dalle radio durante la Summer of Love del ’67. Il nome definitivo è una irriverente storpiatura di quello del loro insegnante di educazione fisica alla “Robert E. Lee – proprio lui, il comandante dell’Armata della Virginia Settentrionale, eroe nazionale della Confederazione – High School”, Leonard Skinner, che a quanto pare non amava affatto gli studenti coi capelli troppo lunghi. Il gruppo si costruisce una solida fama locale grazie a una frenetica attività live in giro per il Sud, finché nel ’72 non viene scoperto in un locale di Atlanta da Al Kooper, musicista, talent scout e produttore fra i più influenti dell’epoca (suo, per dirne una soltanto, il celeberrimo organo Hammond in Like a Rolling Stone di Bob Dylan)5, che li scrittura per la sua nuovissima etichetta, la Sounds of the South, distribuita dalla potente MCA con l’ambizione, evidente sin dal nome, di promuovere il “new sound” del Meridione. Da quel momento è un susseguirsi di successi, finché il 20 ottobre del ’77 il Convair CV-240 che trasporta la band nel corso dell’ennesimo tour non si schianta a nord-est di Gillsburg, Mississipi, uccidendo sul colpo Van Zant, il chitarrista Steve Gaines (subentrato a King da poco più di un anno), sua sorella Cassie, corista, e ferendo più o meno seriamente gli altri membri del gruppo6. La band si riformerà nel 1987, con alterne vicende (esiste tuttora, con il solo Rossington della line up originaria), che però lascio volentieri ad altri raccontare.
Nell’arco di quattro anni memorabili, 1973-1977, la band di Jacksonville realizzò sei dischi in studio e un poderoso doppio live, tutti di alto livello (magari con l’eccezione del quarto Gimme Back My Bullets) e con almeno due capolavori, non solo del genere. L’esordio, appropriatamente intitolato Pronounced ‘Lĕh-‘nérd ‘Skin-‘nérd (MCA-363, agosto 1973), con gli oltre nove minuti di Free Bird, forse il loro brano più rappresentativo; e soprattutto il suo seguito, dal titolo non granché fantasioso ma altrettanto appropriato di Second Helping (MCA-413, aprile 1974)7, da molti – me compreso, per quel poco che conta – considerato la massima espressione artistica di tutto il movimento southern.
Il disco si apre con Sweet Home Alabama, una delle rock songs più famose e canticchiate di sempre, introdotta dall’inconfondibile riff di Fender Stratocaster suonato da Ed King (autore della musica con Rossington, su testo di Van Zant). Un pezzo irresistibile, ma anche parecchio controverso, che ai tempi parve inaugurare quasi una nuova guerra tra Nord e Sud – fortunatamente solo a colpi di chitarre elettriche – e che ancor oggi crea qualche imbarazzo negli ascoltatori d’idee “progressiste”.
Van Zant scrisse le liriche in risposta a due canzoni di Neil Young: Southern Man e Alabama (rispettivamente dagli album After The Gold Rush del 1970 e Harvest del 1972), durissimi atti d’accusa contro la chiusura mentale e il razzismo delle genti del Sud. Il songwriter di Toronto viene direttamente tirato in ballo da Van Zant, che senza troppi giri di parole lo invita a farsi gli affari propri e a girare alla larga:
Well, I heard Mister Young sing about her
Well, I heard ol’ Neil put her down
Well, I hope Neil Young will remember
A Southern man don’t need him around anyhow.
In verità, Van Zant era un grande fan di Neil Young (in diverse foto, compresa quella della funesta copertina di Street Survivors, lo si può vedere sfoggiare la t-shirt di Tonight’s The Nigh) e questi lo era dei Lynyrd Skynyrd; se è vero che scrisse Powderfinger con in mente di girarla proprio al gruppo di Jacksonville. Chiamato a dar conto di quei versi minacciosi, il vocalist spiegò in più di una circostanza8 che a dargli fastidio era il tono saccente delle liriche di Young, un canadese che nulla o quasi sapeva del Sud ma che si permetteva di giudicarlo in blocco. Cosa che, onestamente, avrebbe riconosciuto lo stesso diretto interessato, ammettendo che le parole di Alabama erano «accusatory and condescending, not fully thought out» (accusatorie, accondiscendenti, non del tutto ponderate)9. Più problematica, all’apparenza, la seconda strofa.
In Birmingham they love the Gov’nor, boo-boo-boo
Now we all did what we could do
Now Watergate does not bother me
Does your conscience bother you, tell the truth.
Qui il riferimento diretto è al più volte governatore dello stato dell’Alabama, il democratico George Wallace10, convinto sostenitore del più bieco segregazionismo. Amato, secondo Van Zant, dai cittadini di Birmingham. Non proprio un posto qualsiasi, Birmingham era la “città della segregazione” per antonomasia, segnata in modo indelebile11 dalla domenica di sangue del 15 settembre 1963, quando un ordigno artigianale esplose nella chiesa battista della 16 Strada, fulcro della campagna per i diritti civili (la cosiddetta “Campagna di Birmingham”, guidata dal reverendo Martin Luther King), dilaniando quattro ragazzine afroamericane di età compresa fra gli 11 e i 14 anni e ferendo altre 22 persone. Un crimine orrendo firmato Ku Klux Klan che peraltro, sull’onda dell’indignazione suscitata in ampi strati del Paese, doveva accelerare l’iter di approvazione del Civil Rights Act, firmato il 2 luglio 1964 dal presidente Lyndon Johnson12.
Detta così, la strofa in questione parrebbe un deplorevole endorsement a sostegno di Wallace; se non fosse che il riferimento al governatore razzista è seguito da un inequivocabile «boo-boo-boo» denigratorio. Tanto che Wallace, che in un primo momento aveva addirittura preso in considerazione la possibilità di adottare la canzone come “official state song of Alabama”, cambiò rapidamente idea.
Segue poi l’invito ai liberal progressisti del Nord a farsi un esame di coscienza, loro che sparavano a zero sul Sud ma vivevano in un Paese travolto dallo scandalo del Watergate. Del quale, afferma Van Zant perentoriamente (e con una buona dose di qualunquismo), a lui non importa nulla. Una netta affermazione di orgoglio nazionalista southern. Che è poi, in ultima analisi, il significato di Sweet Home Alabama.
Perché non v’è dubbio che i Lynyrd fossero degli accesi “patrioti” del Sud, persuasi – con più di una ragione, va detto – che gli yankee avessero vessato oltremisura la “loro” nazione. Un patriottismo simbolicamente esibito a ogni concerto dall’esposizione dietro il palco della bandiera confederata, come si può vedere in diversi video facilmente reperibili su YouTube (segnalo in particolare l’esibizione dell’11 novembre 1975 all’Old Grey Whistle Test, il celebre programma musicale televisivo della BBC).
Da qui a dire che i ragazzi di Jacksonville fossero razzisti fatti e finiti ce ne corre. A parte tutte le considerazioni di cui sopra, trovo improbabile che le due coriste che si sentono in Sweet Home Alabama, le nere Merry Clayton e Clydie King, avrebbero accettato di prestare le loro voci a un inno segregazionista. Del resto, i nostri erano cresciuti anche con la musica nera, come racconta, sempre in Second Helping, la bellissima The Ballad of Curtis Loew, storia di un anziano bluesman nero di strada che il giovanissimo Van Zant andava a sentire tutti i giorni di nascosto dalla madre.
In definitiva penso si possa dire in assoluta tranquillità che ascoltando con gusto e partecipazione i classici anni Settanta dei Lynyrd Skynyrd non si corre il rischio di diventare dei redneck affiliati al KKK; almeno non più di quanto se ne corra di scoprirsi adepti del mago e satanista Aleister Crowley suonando al contrario i dischi dei Led Zeppelin del mistico luciferino Jimmy Page.
Mi auguro pertanto che la furia iconoclasta e censoria che si sta abbattendo contro le vestigia e i simboli della Confederazione risparmi la discografia di Ronnie Van Zant e soci, e, per converso, che questa non sia brandita come arma identitaria dal vergognoso sedicente suprematismo bianco. Anche se in “era Trump”, che ha portato a una pericolosa radicalizzazione dello scontro ideologico e politico, c’è da aspettarsi di tutto. Anche per il rock ‘n roll.
Note
1 Raimondo Luraghi, Storia della guerra civile americana, Torino, Einaudi, 1966. Chi non se la sentisse di affrontare le quasi 1400 pagine di quel classico, tenuto in grande considerazione anche dalla storiografia statunitense, può ripiegare sul postumo La Guerra civile americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, Milano, BUR, 2013, che ne è un efficace compendio.
2 A tale proposito, si veda la dettagliata voce di Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Rimozione_dei_memoriali_e_monumenti_confederati; ultimo accesso 4/3/2019.
3 La panoramica più completa sul genere è costituita da Scott B. Bomar, Southbound. An illustrated history of southern rock, Milwaukee, Backbeat Books, 2014. In italiano, l’unico contributo esistente, in sostanza una discografia commentata, è quello di Mauro Zambellini, Southern rock, Firenze, Giunti, 2001. Per una prospettiva più ampia, che consideri la musica southern come parte integrante e costitutiva dell’identità culturale del Sud, cfr. il saggio di Zachary J. Lechner, The South of the Mind. American imaginings of white Southnness, 1960-1980, Athens, University of Georgia Press, 2018.
4 Pur essendo senza ombra di dubbio uno dei gruppi più celebri e celebrati della storia del rock i Lynyrd Skynyrd sono stati sistematicamente ignorati dall’editoria specializzata italiana. Tra le biografie in lingua inglese consiglio Marley Brant, Freebirds. The Lynyrd Skynyrd story, New York, Billboard Books, 2002. Un’ottima fonte di citazioni è costituita da Lee Ballinger, Lynyrd Skynyrd. An Oral History, New York, Avon Books, 1999. Nella foto di apertura di questo articolo, i Lynyrd Skynyrd all’epoca del primo LP, 1973. Da sinistra a destra: Allen Collins, Billy Powell, Gary Rossington, Bob Burns, Ronnie Van Zant, Leon Wilkeson, Ed King.
5 Di lui, fondamentale l’autobiografia Backstage Passes and Backstabbing Bastards: Memoirs of a Rock ‘N’ Roll Survivor, New York, Backbeat Books, 2008 (1ª ed. New York, Billboard Books,1998), con molto spazio dedicato alla collaborazione con i Lynyrd Skynyrd, pp. 175 ss.
6 In seguito all’incidente la copertina del loro ultimo Lp, Street Survivors, pubblicato da appena tre giorni, che raffigurava i componenti della band avvolti dalle fiamme, fu ritirata dal mercato seduta stante e sostituita con una dallo sfondo completamente nero.
7 Numeri di catalogo e data di uscita si riferiscono alle prime edizioni statunitensi.
8 A titolo di esempio, Tom Dupree, Lynyrd Skynyrd in Sweet Home Atlanta, in «Rolling Stone», n. 172, 24 ottobre 1974.
9 Così Neil Young nella sua erratica autobiografia: Waging Heavy Peace. A Hippie Dream, New York, Penguin Group, Blue Rider Press, 2012, p. 417 (in traduzione italiana Il sogno di un hippie, Milano, Feltrinelli, 2013).
10 Sulla più che controversa figura di Wallace (1919-1998), cfr. Dan T. Carter, The Politics of Rage: George Wallace, the Origins of the New Conservatism, and the Transformation of American Politics, New York, Simon & Schuster, 1995.
11 Non a caso, Birmingham è uno dei luoghi dove lo scontro intorno alle memorie confederate è più acceso. Nell’agosto del 2017 il sindaco afroamericano Bell, in carica dal 2010, ha fatto ricoprire un obelisco del Link Park dedicato ai caduti della Confederazione, recintandolo con una struttura di compensato recante la scritta: «This country should in no way tolerate the hatred that the KKK, neo-Nazis, fascists and other hate groups spew» («Questo Paese non dovrebbe in alcun modo tollerare l’odio che il Ku Klux Klan, i neo-nazisti, i fascisti e altri gruppi seminatori di odio hanno vomitato»). La cosa è valsa a lui e alla città un’azione legale da parte del procuratore generale dell’Alabama, Steve Marshall, per violazione di una legge statale di fresca approvazione, l’Alabama Memorial Preservaction Act (maggio 2017), che vieta espressamente agli amministratori locali, salvo previa autorizzazione dello Stato, «the relocation, removal, alteration, renaming, or other disturbance of monuments located on public property which have been in place for 20 or more years» («il trasferimento, la rimozione, l’alterazione, la ridenominazione o una qualsiasi altra forma di danneggiamento rivolta contro monumenti esistenti sulla proprietà pubblica che siano in loco da 20 anni o più»).
12 Sulla vicenda specifica: Birmingham, Alabama, 1956-1963. The Black Struggle for Civil Rights, Martin Luther King, Jr. and the Civil Rights Movement, Vol 8, a cura di David J. Garrow, Brooklyn NY, Carlson Publishing, 1989. In generale, sulle lotte della comunità afroamericana si vedano gli studi di Nadia Venturini, soprattutto Con gli occhi fissi alla meta. Il movimento afroamericano per i diritti civili, 1940-1965, Milano, Angeli, 2010.