Poco più di quattro anni fa, nel 2016, l’elezione di Donald Trump ha rinnovato la frattura netta che ha caratterizzato l’elettorato statunitense per tutto il Novecento, sottolineando quanto forte fosse ancora, a distanza di secoli dal XIII Emendamento, il legame della Nazione col suo passato schiavista. Il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, simbolo della destra repubblicana xenofoba e razzista, ha così contribuito alla radicalizzazione del clima d’odio razziale mediante un ritorno alla retorica sudista tipica dei primi decenni del Novecento.
Ma cosa ha significato questo per la comunità afroamericana? Non sono state poche le esternazioni razziste di Trump, intrise di termini che rimandano agli anni dei linciaggi negli stati della ex Confederazione, ma anche alla “linea dura” di Nixon, Reagan e Clinton – presidenti che, pur nella diversità delle posizioni politiche, hanno partecipato attivamente alla marginalizzazione e criminalizzazione della black community, rendendo sempre più evidente la contraddizione insita nell’ideale democratico statunitense e – come possiamo affermare col senno di poi – preparando il terreno per l’elezione di Donald Trump. Il popolo americano bianco, desensibilizzato e complice di anni di violenza a danno dei concittadini neri, non si è opposto al clima d’odio ormai legittimato dalle azioni del presidente e, per l’ennesima volta nella storia degli Stati Uniti, la responsabilità di salvare la democrazia americana è ricaduta sulla comunità afroamericana, che si è immediatamente mobilitata, con successo, per scongiurare la rielezione di Donald Trump e combattere la disinformazione promulgata dal Partito Repubblicano.
Così, mentre la loro comunità subiva colpi irreparabili per mano della police brutality e dell’incarcerazione di massa (fenomeni in continua crescita durante la presidenza Trump), un gruppo di intellettuali afroamericani ha deciso che era giunto il momento di fornire un nuovo punto di vista sulla storia degli Stati Uniti, dando finalmente risalto al ruolo fondamentale che la black community ha giocato nello sviluppo della più potente nazione al mondo.
È così che nasce The 1619 Project – uno speciale del “New York Times Magazine”1, divenuto un portale interattivo in continuo aggiornamento – che segna, con la sua pubblicazione nel 2019, il quattrocentesimo anniversario dell’arrivo dei primi schiavi africani a Jamestown, Virginia. Con una serie di saggi, immagini, storie e poemi, una giovane generazione d’intellettuali afroamericani si propone di sfidare il lettore a ribaltare la propria conoscenza della storia degli Stati Uniti.
Proprio come Copernico nel 1543, gli storici e i giornalisti che hanno dato vita a The 1619 Project hanno intenzione di rivoluzionare per sempre la chiave di lettura della realtà, cominciando col restituire agli afroamericani il posto che meritano nella storia del Paese che ha, più di ogni altro, contribuito a dar forma al XX secolo2.
1. Un’operazione di reframing
The goal of The 1619 Project is to reframe American history, making explicit how slavery is the foundation on which this country is built. For generations we have not been adequately taught this history. Our hope is to paint a fuller picture of the institution that shaped our nation3.
Il termine reframe (letteralmente reincorniciare), utilizzato per descrivere l’iniziativa sull’edizione del 18 agosto 2019 del “New York Times”, trova le sue radici nel concetto di frame, introdotto da Gregory Bateson in ambito psicologico, poi adattato alla sociologia da Erving Goffman nel 1988, secondo il quale: «il frame è un processo i cui significati simbolici e cognitivi cambiano nel corso dello spazio e del tempo con il mutare delle posizioni dei diversi attori e del contesto in cui gli attori si muovono»4.
Nel caso di The 1619 Project, il frame da sostituire è quello costruito dall’egemonia culturale della white supremacy lungo i quattrocento anni che ci separano dall’approdo del primo cargo di schiavi a Point Comfort; egemonia che ha cancellato il vero evento fondativo e il contributo degli afroamericani nella costituzione degli Stati Uniti d’America che conosciamo oggi. Mettendo al centro il 1619, l’anno in cui lo sfruttamento della schiavitù ebbe inizio, il momento fino ad oggi considerato più importante per la nascita della nazione americana, la Dichiarazione d’Indipendenza, viene ridimensionato e ripensato.
Ammettendo, dunque, quanto lo sfruttamento della schiavitù sia stato determinante per il successo delle due industrie che hanno consentito all’America di imporsi economicamente a livello globale – le produzioni di zucchero e cotone – si potrà osservare come tutti i miti della potenza statunitense (la costruzione delle infinite metropoli, la rivoluzione industriale, il sistema bancario, il capitalismo e la globalizzazione) affondino le loro radici nella sistematica oppressione della comunità afroamericana; un’oppressione sempre capace di reinventarsi ed adattarsi ai mutamenti della società.
2. “The idea of America”
I nostri ideali fondativi di libertà ed uguaglianza erano falsi quando sono stati scritti. I Neri d’America hanno lottato per renderli realtà. Senza questa lotta, l’America non avrebbe alcuna democrazia5.
Nikole Hannah-Jones, giornalista investigativa per il “New York Times” e coordinatrice di The 1619 Project (per cui si è meritata il premio Pulitzer)6, in un esteso saggio che mescola la sua esperienza personale alla storia della black community a partire dagli anni precedenti la Guerra Civile, afferma che «gli afroamericani sono i veri padri fondatori di questa nazione, tanto quanto lo sono quegli uomini in statue d’alabastro nella Capitale»7. La sua è una cronaca delle politiche messe in atto per approfittarsi degli afroamericani e privarli dei loro diritti, nonché una celebrazione della lotta che quest’ultimi hanno portato avanti non solo per la loro liberazione, ma anche e soprattutto perché tutti gli americani fossero liberi.
Esemplificando lo zelo del padre nella cura della sua bandiera a stelle e strisce – che l’autrice allora bambina non riusciva a comprendere perché in contraddizione coi naturali sentimenti di repulsione verso quel Paese che era il loro, ma dimostrava di non volerli –, Nikole Hannah-Jones ripercorre due viaggi paralleli: il suo personale percorso di giovane afroamericana che l’ha portata a comprendere, finalmente, le ragioni dell’irriducibile senso d’appartenenza agli Stati Uniti giustamente dimostrato dal padre senza alcun pudore; e quello della comunità afroamericana, che ha spezzato le sue catene passando per la Guerra Civile e la Ricostruzione, creando l’America che conosciamo oggi, abbattendo i muri eretti da secoli di razzismo.
Nella seconda parte del suo saggio, Nikole Hannah-Jones analizza la vera motivazione che si cela dietro la Dichiarazione d’Indipendenza dalla Gran Bretagna, significativamente cancellata dalla narrazione egemone promulgata dagli Stati Uniti: i coloni volevano proteggere l’istituto della schiavitù. Le colonie non potevano permettere che l’indignazione e i primi vagiti dell’abolizionismo che albergavano Londra alla fine del diciottesimo secolo raggiungessero le coste del Nuovo Continente, mettendo fine a quello che sarebbe divenuto il primo big business americano.
E fu proprio la Costituzione Federale del 1787, pur senza mai menzionare i termini “schiavi” e “schiavitù”, a offrire agli Stati schiavisti i margini legali per mantenere in vita quest’istituzione. Secondo lo storico David Waldstreicher8, la Costituzione si occupa direttamente della schiavitù in sei punti, mentre in altri cinque ne parla indirettamente; il testo proteggeva le “proprietà” degli schiavisti e vietava al governo federale d’intervenire per mettere fine all’importazione degli schiavi, poiché la tratta degli schiavi era stata dichiarata illegale ma il loro commercio intra-statale e il loro impiego nei campi di lavoro, no. La legittimità della schiavitù fu costruita sull’idea che gli afroamericani non erano parte della società americana, e venne ufficialmente legalizzata con la sentenza Dred Scott v. Sandford del 1857, in cui la Corte Suprema sancì che la democrazia apparteneva ai cittadini americani, dunque non agli schiavi, in quanto privi di cittadinanza. Con le parole di Nikole Hannah-Jones: «I giudici del massimo organo della giustizia statunitense decretarono che i neri, sia gli schiavi sia le persone libere, discendevano da una razza “schiava”. Questo li rendeva inferiori ai bianchi e, di conseguenza, incompatibili con la democrazia statunitense. Questa teoria giustificò il razzismo endemico che gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a estirpare»9.
3. Questioni di profitto. Il capitale umano
In order to understand the brutality of American capitalism, you have to start on the plantation10.
Matthew Desmond, sociologo americano e docente all’Università di Princeton, non ha alcun dubbio: per comprendere l’aggressività del sistema economico capitalista, dobbiamo volgere il nostro sguardo agli albori della gloria americana, nelle piantagioni della Georgia e dell’Alabama.
Il cotone coltivato e raccolto dagli schiavi, afferma Desmond nel suo saggio per The 1619 Project, era il prodotto d’esportazione di maggior valore commerciale, e, combinato a quello degli schiavi stessi, superava il valore di tutte le ferrovie e le fabbriche del Paese. Quello che ha permesso il boom dell’economia del cotone negli Stati Uniti, e la cui mancanza ha invece pregiudicato lo sviluppo della stessa pratica nelle molte altre zone del globo dove essa era climaticamente possibile, è stata l’irriducibile volontà di usare violenza sui non-bianchi ed esercitare potere sulle risorse apparentemente infinite di terra e mano d’opera11.
«La schiavitù americana è necessariamente impressa nel DNA del capitalismo americano», scrivono gli storici Sven Beckert e Seth Rockman12, e gli effetti di questa impronta sono certamente da attribuire alla forza straordinaria con la quale lo sfruttamento della manodopera ridotta in catene è riuscito a trasformare una nazione povera e in fuga dalla madrepatria in un vero e proprio colosso finanziario. Il cotone era per il XIX secolo quello che il petrolio è stato per il XX13, e i signori delle piantagioni necessitavano di un numero sempre crescente di lavoratori per la coltivazione e la raccolta, anche grazie alla continua espansione territoriale ad Ovest. Così, nonostante il 1° gennaio 1808 fosse stata decretata l’illegalità dell’importazione degli schiavi dall’estero, il loro commercio continuò tra gli Stati dell’Unione, come la loro introduzione clandestina dalle isole dei Caraibi.
Gli speculatori delle proprietà terriere furono i primi a ottenere guadagni spropositati dalla compravendita di terre pronte per essere trasformate in nuove piantagioni. «Gli schiavi radevano al suolo gli alberi con l’ascia, bruciavano il sottobosco e livellavano la terra per piantare»14; stava nascendo un fenomeno che non si sarebbe mai più fermato: quello dell’imposizione sconsiderata del dollaro sull’ambiente. Inoltre, la coltivazione del cotone accelerò lo sviluppo della fabbrica moderna, un’istituzione che diede il via alla Rivoluzione industriale e cambiò il corso della storia.
Le fabbriche tessili che lavoravano il cotone raccolto dagli schiavi si trovavano, in maggioranza, negli Stati del Nord, e permisero alle élite bianche settentrionali di arricchirsi tanto quanto quelle del Sud, formate dai plant owners. In questi rapporti commerciali stava nascendo un nuovo modello di economia globale che necessitava del movimento di capitale, manodopera e prodotti in tutto il globo: il capitalismo15.
4. I criminali di oggi sono gli schiavi di ieri
Al termine della Guerra Civile, con l’entrata in vigore del XIII Emendamento (1865) furono liberate 4 milioni di persone che, fino ad allora, avevano vissuto da “proprietà”; proprietà su cui era stato costruito l’intero sistema economico capitalista americano e la cui emancipazione rappresentava un problema per l’élite bianca. Da dove ripartire adesso? Bryan Stevenson, avvocato e fondatore della Equal Justice Initiative, nel suo saggio per The 1619 Project afferma:
Al XIII Emendamento viene dato il merito di aver messo fine alla schiavitù, ma la realtà è che lo ha quasi fatto: ha fatto un’eccezione per coloro che vengono giudicati colpevoli di un crimine. E così, dopo l’emancipazione, gli afroamericani, fino ad allora visti come “schiavi” non completamente umani, iniziarono ad essere visti come «criminali» completamente umani. […] Le leggi che governavano la schiavitù furono rimpiazzate dai Black Codes che governavano i neri liberi – rendendo il sistema della giustizia fondamentale per le nuove strategie di controllo razziale16.
Infatti, la popolazione bianca del Sud non era assolutamente disposta a concedere ai neri la parità dei diritti e cercò di confinare gli afroamericani in una posizione subordinata. Già al momento della cessazione delle ostilità, nel 1865 e durante l’anno successivo, gli stati del Sud vararono una serie di disposizioni – note come Black Codes (codici neri) – che cercarono di relegare le persone di colore ai margini della società, di soffocare sul nascere un loro possibile ruolo pubblico e di confinare la loro funzione alla fornitura di manodopera a costo particolarmente contenuto nella coltivazione dei campi e nei lavori domestici.
Durante la Ricostruzione, continua Stevenson, l’emergere di figure politicamente rilevanti appartenenti alla comunità afroamericana venne contrastato anche attraverso la pratica del convict leasing, letteralmente “affitto dei detenuti”. Grazie a dei nuovi provvedimenti che introdussero il reato di vagabondaggio ed estesero i comportamenti degli ex schiavi sanzionabili penalmente (per i neri divenne illegale anche aggirarsi in gruppo al calar del sole), si mise in atto un sistema di repressione e coercizione che consentiva alle autorità locali l’affitto dei detenuti neri a imprenditori bianchi per il loro impiego in attività agricole, nelle miniere e nell’edilizia. Di conseguenza, gli afroamericani affrancati si ritrovarono spesso a lavorare gratuitamente e in peggiori condizioni per i loro ex padroni. Quest’ultima disposizione era stata ideata non solo per limitare la libertà di spostamento della popolazione di colore, ma anche per venire incontro alle necessità dei proprietari terrieri del Sud che, salvo pochi casi di confisca per tradimento, avevano conservato le loro piantagioni, senza però disporre più della forza lavoro per coltivarle dal momento che gli schiavi erano stati affrancati e l’ingaggio dei braccianti con retribuzioni a prezzo di mercato risultava particolarmente oneroso.
Grazie ai Black Codes, l’America conobbe il suo primo boom delle prigioni: gli afroamericani furono arrestati in massa, per reati creati appositamente per colpirli, e questo grazie alla clausola inserita nel XIII Emendamento. Una clausola che permetteva agli Stati di privare della libertà chiunque si macchiasse di qualsiasi crimine, reale o presunto; in particolare, quello di nascere con la pelle nera.
5. Giustizia criminale
Una volta raggiunta l’emancipazione, gli afroamericani si trovarono vittima di un nuovo sistema oppressivo: la mitologia della criminalità nera.
La retorica adottata all’epoca dalla cultura egemone dipingeva la comunità afroamericana come una massa di vagabondi e stupratori, una vera e propria minaccia per le donne bianche. La figura di Uncle Remus, personaggio immaginario protagonista di una raccolta di storie per bambini, venne sostituita da quella dello stupratore bestiale e malvagio punito dai «cavalieri senza macchia», ovviamente bianchi e in tutto e per tutto somiglianti a quelli del Ku Klux Klan, in Birth of a Nation. Lo stesso successo senza precedenti del film razzista Birth of a Nation (1915), diretto da D.W. Griffith, è emblematico di una società completamente pervasa dall’odio razziale. La nascita, coincidente con l’Emancipazione, di organizzazioni terroristiche come il Ku Klux Klan (KKK) e la Southern Cross, o i Kings of the White Camellia, dimostrava la volontà di mantenere gli afroamericani in una condizione di soggezione sociale e psicologica attraverso il ricorso sistematico a intimidazioni, violenze e linciaggi.
I linciaggi in particolare furono uno strumento molto popolare. Rappresentavano una forma di giustizia sommaria ed extralegale che venne adottata in modo sistematico nel Sud. Il pretesto ufficiale era quello di scoraggiare i crimini commessi dagli afroamericani – spesso, presunti stupri di donne bianche, dipinte dalla retorica sudista come vittime della selvaggia brutalità dell’uomo nero. In queste sanguinarie punizioni pubbliche, i “colpevoli” venivano picchiati, frustati e bruciati vivi in piazza, sotto agli occhi di una folla composta da uomini, donne e bambini – ovviamente, bianchi – che incitavano gli aguzzini a torturare ed uccidere le vittime.
«La schiavitù ha lasciato all’America la paura dei neri e il gusto per le punizioni violente» scrive Bryan Stevenson, «ed entrambi definiscono tuttora il nostro sistema giudiziario […] Non è solo che la storia ha favorito un’immagine della comunità nera come presumibilmente formata da criminali. Ha anche coltivato una tolleranza per l’utilizzo conseguente di qualsiasi forma di brutalità». Un appetito più che una tolleranza per la brutalità, suggerisce Stevenson, che non ha mai abbandonato la società americana, e una presunzione di colpevolezza che non ha mai abbandonato, invece, la comunità afroamericana.
Nella seconda metà del XX secolo si sarebbe verificata una nuova ondata di «politiche della paura», inaugurata dalla «guerra alle droghe» di Nixon (1971), che portò alla creazione di nuove leggi che colpiscono con particolare efficacia la comunità afroamericana. Queste politiche non hanno connotazioni razziali esplicite come i Black Codes o le leggi Jim Crow, ma il loro utilizzo serve lo stesso scopo: «sono ancora i neri e i mulatti ad essere sproporzionatamente colpiti, fermati, sospettati, incarcerati e uccisi dalla polizia»17.
Il successo del movimento sociale Black Lives Matter, nato a luglio del 2013 in seguito alle uccisioni di Michael Brown e Eric Ferguson (entrambi afroamericani uccisi ingiustamente da poliziotti bianchi), testimonia quanto ancora forte sia il senso d’ingiustizia nella comunità afroamericana a 155 anni dal XIII Emendamento, e quanto importante sia il contributo di The 1619 Project nella costruzione del futuro che ci separerà, finalmente, dalle atrocità del nostro passato.
Note
1 Il portale del progetto è consultabile a questo indirizzo: https://www.nytimes.com/interactive/2019/08/14/magazine/1619-america-slavery.html.
2 Arnaldo Testi, Il secolo degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 2017.
3 Trad. «Lo scopo di “The 1619 Project” è quello di riformulare la storia americana, esplicitando che è proprio sulla base della schiavitù che questo paese è stato costruito. Per generazioni questa storia non ci è stata adeguatamente insegnata. La nostra speranza è quella di dipingere un quadro più completo della istituzione che ha plasmato la nostra nazione».
4 Carlo Sorrentino, Enrico Bianda, Studiare il giornalismo, Roma, Carocci, 2013, p. 21.
5 Nikole Hannah-Jones, The 1619 Project, “New York Times Magazine”, agosto 2019.
6 https://pulitzercenter.org/blog/nikole-hannah-jones-wins-pulitzer-prize-1619-project.
7 Ibid.
8 David Walstreicher, Slavery’s Constitution: From Revolution to Ratification, New York, Hill & Wang Pub, 2011.
9 Hannah-Jones, The 1619 Project, cit.
10 Matthew Desmond, The 1619 Project, “New York Times Magazine”, agosto 2019.
11 Ibid.
12 Sven Beckert, Seth Rockman, Slavery’s Capitalism. A New History of American Economic Development, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2018.
13 Desmond, The 1619 Project, cit.
14 Ibid.
15 Ibid.
16 Bryan Stevenson, The 1619 Project, “New York Times Magazine”, agosto 2019.
17 Stevenson, The 1619 Project, cit.