Scendendo dal treno alla stazione di Borgo San Dalmazzo, in Valle Stura, ai piedi delle Alpi Marittime, si è accolti da un memoriale che segna una pagina tragica della storia della città. Un segno deciso, vistoso, “innegabile” e durissimo, di pietra, cemento e ferro. Il ferro di 20 lastre verticali e 335 lamine poste a terra che corrono parallele ai binari: le prime ricordano coloro che, transitati per questo luogo, sopravvissero ai campi di sterminio, mentre quelle a terra riportano nome, età e nazionalità di coloro che non fecero ritorno. Borgo San Dalmazzo, tra il settembre 1943 e il febbraio 1944 ospitò, infatti, il Polizeihaftlager, campo di transito per ebrei italiani e stranieri, collocato nell’ex caserma degli alpini, dapprima gestito dall’occupante tedesco e poi dai fascisti della Repubblica Sociale Italiana.
Nel 2021, a pochi passi dal memoriale, in una chiesetta sconsacrata, è stato inaugurato un museo, MEMO 4345, percorso multimediale storico-didattico curato da Adriana Muncinelli, già autrice con Elena Fallo del volume Oltre il nome. Storia degli ebrei stranieri deportati nel campo di Borgo San Dalmazzo (Aosta, Le Châteaux Edizioni, 2016), ora giunto alla seconda edizione. L’intervista è stata realizzata da Paola E. Boccalatte.
Da quale esigenza nasce la creazione di questo nuovo spazio a quindici anni dalla realizzazione del memoriale?
Già al momento dell’allestimento del Memoriale era ben presente l’esigenza di organizzare uno spazio di approfondimento per offrire risposte alle domande che i visitatori si sarebbero posti. I quindici anni intercorsi sono stati non solo necessari per l’individuazione del sito e la ricerca di fondi da parte delle Amministrazioni comunali che si sono succedute, ma anche indispensabili per allargare gli orizzonti di studio, organizzare il materiale già raccolto e svolgere una nuova ricerca che offrisse sostanza e respiro allo spazio di approfondimento in progetto. Nel corso della ricerca, i cui risultati sono stati strutturati nel libro Oltre il nome, è maturata la percezione che non si trattava soltanto di raccontare nei dettagli più aggiornati un episodio di storia locale. Al termine di un viaggio iniziato molto lontano e molti anni prima, per 19 mesi a Borgo San Dalmazzo e nelle sue valli era confluita sotto forma di persone in carne e ossa la storia europea della persecuzione antiebraica. Quella storia aveva interagito con la storia e le storie degli abitanti dei nostri luoghi. Le risposte alle domande dei visitatori richiedevano dunque strumenti e contenuti comunicativi più articolati e complessi di una semplice esposizione di documenti e immagini, per offrir loro conoscenze e consapevolezze più ampie, aiutare ad aprire i pensieri.
Il Museo è dedicato a un arco temporale molto limitato ma il percorso comincia con la seconda metà dell’Ottocento. Perché?
Il cammino che ha portato a Borgo San Dalmazzo e poi ad Auschwitz gli ebrei stranieri è stato geograficamente un cammino molto lungo. Più breve, naturalmente, da questo punto di vista, quello dei 23 ebrei italiani internati nel secondo campo. Ma per tutti, nel tempo, quel cammino ha compiuto i primi passi da fine Ottocento, con il manifestarsi dei nazionalismi etnici dai quali, come spore di un fungo velenoso sono esplosi: xenofobia, razzismo, colonialismo, antisemitismo, eugenetica che hanno intossicato l’Europa precipitandola in due successive guerre mondiali. In MEMO 4345 una fascia cronologica segue quel percorso dal 1870 al 1945. Per cercare di spiegare ciò che è avvenuto tra il settembre ’43 e l’aprile ’45 abbiamo dovuto arretrare di 75 anni.
All’esterno dell’ex chiesa di Sant’Anna, un cartello descrive la missione del Museo, che «offre risposte a molte delle domande che si pone chi visita il memoriale» ma allo stesso tempo «invita a interagire, cercare, ragionare e a porsi altre domande». Cosa significa questo accento così marcato sulle domande?
Ogni epoca indaga il passato dal punto di vista del proprio presente ponendosi domande diverse. Cercando fonti diverse spesso si trovano conoscenze prima non recuperate, anche sui dati oggettivi, che si affinano e si precisano. Ogni racconto storico è sempre datato e non è mai completamente esaustivo. Nemmeno, dunque, l’approfondimento che proponiamo a MEMO 4345. E questo va comunicato nei fatti (il database aperto, il work in progress nella ricerca dei giusti, nell’integrazione dei percorsi interattivi, nel racconto delle storie, i numeri dei sopravvissuti che a oggi sono accertati ma potrebbero aumentare col prosieguo delle ricerche), e soprattutto attraverso la riflessione e la conversazione con il visitatore, che si sviluppa prevalentemente nella seconda metà del percorso. Gli eventi ci pongono domande: troviamo insieme possibili risposte. Per insegnare pensieri, bisogna prima provare a insegnare a pensare.
Il Museo non presenta oggetti o materiali documentari in originale ma espone un patrimonio di memorie e biografie. In un’impegnativa operazione di Public History, l’allestimento prevede la possibilità di consultare sul posto ampie banche dati sulla deportazione. Di quale lavoro sono il frutto?
Di un lavoro di mezza vita, che si è progressivamente allargato e approfondito. Da un lato una raccolta ininterrotta negli anni di frammenti e di letture di ogni genere per ricostruire un mosaico (in questo l’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo è stato un supporto indispensabile). Poi, la ricerca sistematica Oltre il nome che ha permesso di ricostruire in modo documentato storie e percorsi, raccogliere immagini di volti e ha regalato l’evidenza entusiasmante che si poteva riallacciare con i familiari dei deportati il filo di vita che qui si era spezzato. Nel museo, l’installazione artistica di Enrico Tealdi sintetizza con efficace intuizione questo aspetto.
L’ultima parte del percorso, compresa fra le sezioni Come è potuto accadere? e La storia siamo noi? mi pare quella più coraggiosa e potente in cui è chiamata in causa la responsabilità individuale. Qui si propone al pubblico di attardarsi in una riflessione che attraversa la storia e interroga la contemporaneità, passando per i discorsi d’odio, i pregiudizi, il fanatismo, la manipolazione dell’informazione. Quali motivazioni hanno guidato questa scelta interpretativa?
Il racconto della vicenda degli ebrei giunti a Borgo termina, con la fascia cronologica che la sormonta, nel 1945 e trova la propria conclusione nel video-racconto delle prime otto storie. Usciti di lì, dopo aver appreso che cosa è avvenuto, e colti dall’emozione che le storie comunicano, la domanda che accoglie è: Come è potuto accadere? In alto prosegue anche la fascia cronologica, con 75 anni (fino al 2020). Per quegli anni sono messi in evidenza gli avanzamenti e gli arretramenti sul piano dei diritti, il riemergere di nazionalismi, razzismi, xenofobie, guerre e violenza, altri genocidi talora ancora in corso, inducendoci a riflettere su somiglianze e differenze. Tutti, oggi come allora, abbiamo semplicemente spostato altrove i conflitti, rimosso le responsabilità, chiuso gli occhi di fronte ai segnali d’allarme. Ecco dunque che, ripercorrendo gli avvenimenti dal secondo dopoguerra a oggi, passare dalla memoria al ragionamento sul presente diventa naturale e necessario.
Verificare le radici da cui è germogliato il male che ha condotto all’estremo della Shoah e mostrare come alcune di esse siano connaturate nell’essere umano, ragionare su violenza, paura, pregiudizi, linguaggio d’odio, consente di ripensare alla storia appena percorsa, ragionando contemporaneamente sul riaffiorare frequente di quegli elementi. Si fissa così una consapevolezza a mio parere fondamentale: la Shoah non è stato il prodotto improvviso di un pugno di folli, ma l’esito graduale di un percorso imboccato da sempre più numerose persone come noi, che avrebbe potuto essere fermato e non lo fu. Conoscere, conoscerci in quanto esseri umani, comporta automaticamente la coscienza della propria responsabilità nell’oggi e della necessità di essere consapevoli di ciò che accade intorno a noi. Una volta capito cosa è avvenuto e come, e una volta compreso, attraverso l’esistenza dei giusti, che ogni essere umano è libero di scegliere, anche nelle condizioni più estreme, ognuno è invitato a trarre liberamente, da questa storia, i propri modelli. Qualunque cosa scelga, non potrà dire a se stesso di non esserne responsabile.
La museologia internazionale non esiterebbe a individuare in questa proposta una volontà da parte dell’istituzione di farsi “agente di cambiamento” e di manifestare una presa di posizione forte in una sorta di “attivismo”. È una cornice che sente scomoda?
Ho accettato questo incarico perché la mission che le Amministrazioni comunali che si sono succedute avevano in mente per l’allestimento collimava perfettamente con il mio modo di vedere. La mia proposta di progetto è di conseguenza stata approvata senza riserve e realizzata in piena condivisione. Non si tratta quindi assolutamente di una cornice scomoda, ma semmai di una cornice che impegna alla coerenza me prima di tutto, poi l’amministrazione committente e, mi auguro, anche le amministrazioni future…
Realizzare un nuovo museo è sempre una scommessa con il futuro. Quale o quali saranno gli indicatori grazie ai quali potrete valutare l’impatto di questa operazione, al di là dei dati sulla bigliettazione?
L’indicatore di successo per me è dato dai visitatori che chiedono di restare oltre la conclusione della visita guidata (che di per sé già dura circa un’ora e mezza) per rivedere autonomamente alcuni punti, che pongono domande, chiedono di capire di più. Dai gruppi di studenti che hanno rischiato di perdere il treno perché si sono attardati a conversare con la guida, e dall’aprirsi alla conversazione su questi temi. Dai visitatori che ammutoliscono mentre ascoltano le storie e fanno fatica, dopo, a riprendere il percorso e ritrovar la voce, o quelli che si emozionano a leggere i ritratti dei Giusti, o davanti ai volti dei deportati e poi, inghiottita la commozione, cercano, prima di tornare alla quotidianità, di dar voce al proprio coinvolgimento.