L’intervista è stata realizzata a partire dall’incontro omonimo tenutosi a Marzabotto il 27 gennaio 2023, nel quale sono stati discussi i volumi Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe (Roma, Viella 2020) e Le vittime italiane del nazionalsocialismo. Le memorie dei sopravvissuti tra testimonianza e ricerca storica (Roma, Viella 2021), di cui è rispettivamente autore e curatore Filippo Focardi, Professore ordinario all’Università di Padova e Direttore scientifico dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri. L’intervista è stata realizzata da Eloisa Betti e Federico Chiaricati. Si ringrazia per la collaborazione Elisa Guiotto.
Come si costruisce e come evolve, in particolare nel contesto italiano, la memoria della Shoah? Da quanto ha scritto risulta complesso parlare di memoria della Shoah. È quindi necessario andare al di là dell’immagine stereotipata pubblica, che ritrae gli italiani unicamente come salvatori di ebrei?
La costruzione della memoria della Shoah è una questione complessa. Tutti i processi di costruzione e di elaborazione della memoria sono crocevia fra istanze politiche e culturali e tra diversi livelli come quello individuale e familiare, ma anche quello territoriale, nazionale ed europeo. La memoria della Shoah in Italia inizialmente si inserisce nella narrazione dominante elaborata nel 1944-45: ovvero quella di un paese antifascista, un paese che ha fatto la resistenza. L’idea epica che tutti gli italiani abbiano sostenuto o fatto la resistenza alimenta la visione del “bravo italiano”, in particolare in riferimento agli ebrei.
Secondo la narrazione dell’immediato dopoguerra, l’antisemitismo non ha radici in Italia e gli italiani hanno ripudiato fin da subito le leggi razziste solidarizzando con gli ebrei perseguitati. Un altro elemento di quella narrazione, completamente infondato, è che Mussolini avrebbe introdotto le leggi del 1938 per ubbidire a Hitler. Questa narrazione viene elaborata dall’avvocato ebreo antifascista Eucardio Momigliano, che scrive nel 1946 per Mondadori Storia tragica e grottesca del razzismo fascista. Le recensioni sulla stampa liberale, cattolica, comunista, socialista, azionista sono molto positive; tutti si riconoscono in quella narrazione che sottintende “noi non siamo stati antisemiti, noi abbiamo aiutato gli ebrei, noi ci siamo comportati in maniera diametralmente opposta rispetto ai tedeschi sterminatori”. La Chiesa cattolica fa sua questa interpretazione: non si parla dei silenzi di Pio XII, ma si parla dell’opera – che c’è stata, non è un’invenzione – di salvataggio degli ebrei. È la stessa comunità ebraica italiana che in quel momento fa propria questa narrazione, sottolineando i meriti umanitari degli italiani, perché si sente la necessità di ricucire lo strappo che c’è stato.
Bisogna poi aggiungere che l’Italia ufficialmente è un paese nemico sconfitto, sottoposto a resa incondizionata e posto sul banco degli accusati nonostante la cobelligeranza. Per evitare una pace punitiva è necessario fare tutto il possibile per distinguere le responsabilità italiane da quelle tedesche, attribuendo le colpe solo ai secondi. Il Ministero degli Esteri italiano raccoglie prove sulle azioni di salvataggio condotte dalle autorità militari e diplomatiche italiane a favore degli ebrei: in Jugoslavia, in Grecia e in Francia, per vari motivi non solo umanitari, gli italiani hanno salvato migliaia di ebrei. Tutto questo finisce in dossier diplomatici che vengono tradotti e mandati agli Alleati, ma si riverberano anche nel discorso pubblico dove viene elaborata e diffusa una narrazione secondo la quale la Shoah è un fenomeno estraneo all’Italia. Ci sono stati dei fascisti collaborazionisti, ma sono considerati degli «alieni», come li chiamava Benedetto Croce, che non hanno niente a che vedere con gli italiani, perché sono dei traditori. La narrazione che proietta la responsabilità della Shoah esclusivamente sui tedeschi non è un fenomeno solo italiano, questa tendenza c’è un po’ in tutta Europa; in Polonia avviene la stessa cosa.
Questa narrazione comincia a modificarsi già negli anni Sessanta-Settanta, ma soprattutto alla fine degli anni Ottanta c’è una vera svolta in Italia. Nel 1988, cinquantesimo anniversario dell’introduzione delle leggi razziste, ci sono due convegni molto importanti organizzati dalla Camera e dal Senato. Per la prima volta si comincia a dire che c’è un antisemitismo italiano e che le leggi razziste non spuntano a caso, ma che sono una cosa molto seria e che non è vero che non sono state applicate. Si inizia a dire che gli italiani hanno sì solidarizzato con gli ebrei perseguitati, ma sono stati anche delatori e carnefici, anche per interessi economici.
Un film della metà degli anni Novanta come La vita è bella di Benigni, che è noto per una nuova lettura sulla Shoah e su Auschwitz, in realtà per oltre metà è dedicato all’Italia, al periodo della cosiddetta persecuzione dei diritti degli ebrei in Italia. C’è un’attenzione generale della storiografia, del cinema, della letteratura sulle responsabilità degli italiani. Si sottolinea il fatto che la persecuzione dal 1938 al 1943 prelude a quella, mortale, del 1943-1945, dove gli italiani hanno avuto un ruolo tutt’altro che secondario. In questo sono importanti le ricerche del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e il Libro della memoria di Liliana Picciotto, nel quale emerge che quasi la metà degli ebrei arrestati in Italia e che finiscono ad Auschwitz sono arrestati da forze di polizia italiane e non tedesche.
Negli anni Novanta, poi, la memoria della Shoah diventa una memoria internazionale: c’è Hollywood, c’è Schindler’s List. Si avvia un meccanismo che, e questo è un altro punto interessante, comincia a portare alla ribalta la Shoah nella memoria pubblica italiana, europea e internazionale, prendendo il posto dell’antifascismo e della Resistenza. Su questo punto in Italia esiste un dibattito. C’è chi sostiene, come Sergio Luzzatto e Giovanni De Luna, che la memoria della Shoah abbia “rubato spazio” a quella dell’antifascismo e alla Resistenza. C’è chi, come Robert Gordon, sostiene che siano cambiati i rapporti di forza tra la memoria della Shoah e quella della Resistenza. Prima la Shoah era dentro la memoria della Resistenza, mentre adesso i piani si sono ribaltati. La nostra Giornata della Memoria ne è una prova. La legge che ha istituito la Giornata della Memoria individua tre categorie di vittime: gli ebrei, gli internati militari italiani, i deportati politici. Queste due ultime categorie rappresentavano tasselli tradizionali della memoria della Resistenza, e adesso stanno all’interno di una legge pensata per ricordare la Shoah. C’è poi chi sostiene, come lo storico Guri Schwarz, che non dobbiamo pensare che una memoria scacci l’altra, ma che ci sono delle interazioni tra le due memorie.
Dal 2000 a oggi, da quando cioè è stata approvata la legge sulla memoria, i suoi effetti sono stati positivi perché hanno riportato attenzione su questo fenomeno e hanno dato voce a tante esperienze (non solo ebraiche) ma hanno avuto anche – su questo gli storici sono abbastanza concordi – degli effetti collaterali negativi. La prassi commemorativa predominante in Italia ha infatti riportato l’attenzione sui bravi italiani salvatori di ebrei. La figura centrale è Giorgio Perlasca: coraggioso italiano, ex fascista, che nel 1944 salva, veramente onore al merito, migliaia di ebrei, e a cui viene anche dedicata una serie televisiva dalla Rai. E insieme a lui i vari Giovanni Palatucci, Gino Bartali e così via. Quel percorso di presa di coscienza delle nostre responsabilità avviato dopo il 1988, negli ultimi vent’anni, secondo me, si è interrotto, a vantaggio della consueta e autoassolutoria raffigurazione dei bravi italiani salvatori di ebrei.
Che ruolo ha avuto la stagione processuale che si apre dopo il ritrovamento dei numerosi fascicoli nel cosiddetto “armadio della vergogna”? Come cambiano i rapporti con la Germania? Viene enfatizzata la visione del “cattivo tedesco” e del “bravo italiano”?
C’è una contrapposizione tra lo stereotipo del “bravo italiano” che non vuole la guerra, che ha sempre voluto aiutare gli oppressi e lo stereotipo del “cattivo tedesco”, la belva nazista. Questa contrapposizione è stata, e forse è tutt’ora, il punto di riferimento principale della memoria italiana sulla Seconda guerra mondiale, in cui ci siamo riconosciuti tutti, da destra a sinistra. La stagione che si apre in Italia dopo il processo Priebke e il ritrovamento dell’“armadio della vergogna”, è una stagione giudiziaria importante che ha riportato all’attenzione il volto criminale dell’occupazione tedesca. Quasi contemporaneamente è emersa anche la questione dei crimini di guerra italiani e della mancata Norimberga italiana. Fino al 2001 non c’era nessuno studio sulla questione dei crimini di guerra italiani: su quegli oltre mille militari e civili iscritti nelle liste delle Nazioni Unite per crimini di guerra, commessi soprattutto in Jugoslavia e Grecia. A me capita di imbattermi, abbastanza casualmente, nella documentazione che si trova presso l’archivio del Ministero degli Esteri. Era stato pubblicato un libro di uno storico tedesco, Christian Vordemann, sui rapporti italo-tedeschi dal 1945 agli anni Sessanta. In una delle note citava delle carte del Ministero degli Esteri sui crimini di guerra italiani. Quei documenti non si erano mai trovati perché erano collocati nel fondo Direzione generale affari politici Germania, nelle carte tedesche. Vado a vedere e si apre un mondo. Il governo italiano dopo il 1943 è il governo di un paese che ha commesso crimini di guerra, combattendo per tre anni a fianco dei tedeschi, ma dopo il 1943 diventa vittima dei tedeschi. È una condizione molto difficile e ambigua: da un lato l’Italia ha i suoi criminali di guerra che dovrebbe estradare in Jugoslavia, in Grecia, piuttosto che in Francia, perché vengano processati, però allo stesso tempo ha subìto crimini di guerra da parte della Germania e rivendica il diritto di giudicare i criminali di guerra tedeschi. Come ci si muove? Il governo italiano, fin dall’inizio, si muove in questa doppia direzione pretendendo di non consegnare i suoi criminali di guerra e di giudicare i criminali di guerra tedeschi, su cui si raccoglie moltissimo materiale. Dopo la fine della guerra c’era la possibilità di processare circa 500 tedeschi per crimini di guerra in Italia, ma ne vengono portati in giudizio solo 23 di cui la metà assolti. Perché processiamo così pochi criminali di guerra tedeschi? Qui subentra la questione dei criminali di guerra italiani. È uno dei principali diplomatici italiani, Pietro Quaroni, ambasciatore in Unione Sovietica, ad avvertire il Ministero del rischio che processando tanti criminali tedeschi si verifichi un effetto boomerang sui criminali di guerra italiani: se chiediamo agli Alleati la consegna dei tedeschi non possiamo opporci alla consegna degli italiani richiesti agli Alleati da Belgrado o da Atene. Ecco perché alla fine i criminali tedeschi processati sono pochi. C’è addirittura un momento in cui le autorità inglesi e americane, nel 1946, sollecitano le autorità italiane a chiedere i criminali tedeschi, ma l’Italia frena. Alcuni per fortuna, come Kappler, vengono processati.
Dopo il processo Priebke e il ritrovamento dell’“armadio della vergogna” ripartono i processi contro i tedeschi. Io pubblico nel 2001 un articolo sulla rivista dell’Istituto storico germanico di Roma e la questione esplode. Perché esplode? Prima di tutto perché nessuno ha mai parlato, sul piano scientifico, della mancata Norimberga italiana, ma soprattutto perché si è appena insediato il secondo governo Berlusconi, la cui maggioranza comprende partiti di estrema destra, e la stampa internazionale è particolarmente attenta e si mostra interessata alla questione dei crimini di guerra italiani, della mancata resa dei conti con il fascismo. Esce ad esempio un articolo di Rory Carrol sul “Guardian”, intitolato Italy’s Bloody Secret, con interviste a me e ad altri sul perché l’Italia non abbia processato i suoi criminali di guerra. Escono articoli su giornali olandesi, inglesi, francesi e pure tedeschi. Addirittura la Germania si preoccupa dell’Italia: “Dove sta andando l’Italia? Che rapporto ha con il fascismo questo paese?”. C’è anche un incidente diplomatico perché, alla vigilia delle elezioni politiche del 2001, l’allora cancelliere tedesco Schröder affermò che l’Europa avrebbe dovuto intervenire qualora in Italia fossero andate al governo forze di destra di dubbia affidabilità democratica. Il riferimento era ad An e a Gianfranco Fini, che pochi anni prima aveva definito Mussolini il più grande statista del secolo. Intervennero piccati contro Schröder sia il presidente Ciampi sia D’Alema a garantire la piena affidabilità democratica di Fini.
Dal 2008, dopo un grande dibattito fra storici, la questione della mancata Norimberga italiana emerge anche a livello giudiziario. Franco Giustolisi – giornalista dell’“Unità” e dell’“Espresso” che aveva coniato l’espressione “armadio della vergogna” – scrive un articolo sull’“Espresso” nel quale afferma che esiste un secondo armadio della vergogna, quello che riguarda i crimini di guerra italiani. Lo segue il “Corriere della sera”, nell’estate del 2008, con un articolo di Dino Messina che affermava nuovamente che l’Italia aveva un problema con i crimini di guerra e si chiedeva come mai nessuno avesse processato i criminali italiani. Il 2008 è l’anno di svolta: ci sono anche le sentenze della Cassazione per gli indennizzi agli Imi e ai familiari delle vittime delle stragi naziste e viene mandato in onda il documentario televisivo La guerra sporca di Mussolini sulla strage di Domenikon in Grecia che mette in evidenza le colpe degli italiani.
Proprio in occasione della presentazione di questo documentario a Roma, Sergio Dini – ex giudice militare a Padova – scrisse una lettera al Consiglio della Magistratura Militare italiano in cui chiedeva come mai non si fosse proceduto a processare i criminali di guerra italiani, come giustamente si era fatto con quelli tedeschi dopo il ritrovamento dell’“armadio della vergogna”. Sottolineò che tutto era stato insabbiato nel 1951 grazie ad un articolo del Codice penale militare di guerra italiano, l’articolo 165, il quale prevedeva il vincolo della reciprocità: l’Italia processava i suoi criminali di guerra solo se anche gli altri Stati erano pronti a processare i loro cittadini per crimini commessi contro gli italiani. Ricordo che l’Italia aveva deciso di non consegnare i suoi criminali di guerra, com’era tenuta a fare dagli accordi internazionali, rivendicando il diritto di processarli “in casa”. Il problema vero era la Jugoslavia, il suo principale accusatore. La Jugoslavia nel giugno del 1948 rompe con l’Unione Sovietica, unica grande potenza che appoggiava le sue rivendicazioni nei confronti dei criminali di guerra italiani. A quel punto politicamente la questione è risolta, l’Italia non consegna i criminali di guerra perché la Jugoslavia non glieli chiede più. Però c’è un problema: l’Italia si era impegnata a processare i suoi criminali di guerra presso tribunali italiani e aveva anche istituito un’apposita commissione d’inchiesta, che aveva individuato una quarantina di italiani, tra i quali il Generale Roatta, che dovevano essere processati indifferentemente dalle richieste della Jugoslavia. Era tutto pronto ma i processi non si fanno grazie a un escamotage suggerito dagli avvocati difensori, che appunto si appellano all’articolo 165 del Codice penale militare di guerra italiano, nel quale si afferma che l’Italia processa i propri militari che hanno commesso i crimini di guerra in un paese, cioè la Jugoslavia, se anche l’altro paese processa i suoi criminali di guerra che hanno commesso crimini contro cittadini italiani. Di che si parla? Delle foibe. L’Italia, a partire dal 1946, aveva preparato delle contro-liste di criminali di guerra jugoslavi, con in cima Tito. Nel contesto della Guerra Fredda, Tito e la Jugoslavia, dopo il giugno 1948, diventano per l’occidente elemento fondamentale del contenimento dell’Unione Sovietica e non c’è nessuna intenzione di processare i criminali jugoslavi. Si innesca un patto di reciproca omertà far Roma e Belgrado. Crimini italiani e crimini delle foibe sono strettamente legati. Dato che l’articolo 165 si basa sulla reciprocità, poiché Tito non processa sé stesso e i suoi per le foibe, noi italiani non processiamo i nostri per i crimini commessi in Jugoslavia. Sulla base di questo c’è un atto formale nel giugno del 1951 che afferma la chiusura delle indagini italiane facendo appello all’articolo 165. Nel 2008, Dini fa notare che nel Codice penale riformato nel 2002 l’articolo 165 non c’è più e che quindi è possibile processare i nostri criminali. In quel momento al vertice della Magistratura militare italiana che deve decidere cosa fare c’è Antonino Intellisano, il giudice che ha istruito il processo contro Priebke. Intellisano apre un’inchiesta contro ignoti usando come capi di imputazione reati molto blandi, per esempio, eccesso di rappresaglia che prevede pene di pochi anni, e non l’articolo 185 (quello usato contro i criminali tedeschi) che consente di comminare l’ergastolo. Egli inoltre si limita a riprendere la lista dei criminali di guerra italiani dalla Commissione italiana, quella dove c’era il Generale Roatta, e vedendo che erano tutti morti decide di chiudere l’inchiesta. È ovvio che fossero tutti deceduti, trattandosi di persone già in età avanzata nel 1945.
La questione però ha ancora un seguito. Nel 2011, Stathis Psomiadis, professore di matematica greco e voce narrante del documentario La guerra sporca di Mussolini, è stato a Marzabotto e Monte Sole per un incontro commovente con i superstiti della strage di Marzabotto. Lui, nipote di una delle vittime della strage di Domenikon, leggeva il testo di un poeta greco che raccontava la strage fatta dagli italiani e via via che dal greco si traduceva in italiano piangevano tutti, perché rivivevano le stesse atrocità subite per mano tedesca. Il giorno dopo essere stato a Marzabotto Stathis Psomiadis è andato alla Procura militare a Roma da Marco da Paolis che ha aperto un’inchiesta sulla strage. Ormai era tardi però. E tutto si è chiuso nel 2018 senza poter individuare nessuno dei responsabili.
È molto importante ricordare che l’Italia è l’unico paese in Europa che non ha fatto i conti sul piano giudiziario con questi crimini di guerra. I processi sono momenti in cui la società si confronta, si mobilita. In Italia questa resa dei conti giudiziaria non l’abbiamo avuta e non l’avremo più per motivi cronologici.
Nel volume “Le vittime italiane del nazionalsocialismo” si espande il concetto di vittima, includendo gli internati militati italiani (Imi), anche se non tutti si definiscono vittime tout court ma anche resistenti. Come si è costruita questa memoria dell’internamento militare?
È una questione complessa e che mi sta a cuore perché avevo anch’io degli zii internati militari, Ernesto e Severino. Uno dei due ha avuto l’apparato digestivo rovinato, perché appena uscito dalla prigionia trovò un albero di mele e si mangiò non so quante mele. In tutta Europa, come ci insegna il grande storico inglese Tony Judt, tra il 1945 e il 1948 si forma una memoria che ha tratti comuni, in Italia, Francia, Polonia, Ungheria, in tutti i paesi che hanno fatto esperienza dell’occupazione tedesca. Il primo pilastro di questa memoria europea è l’esaltazione della Resistenza, il mito della Resistenza. Inevitabilmente quello che conta di più è lo sforzo di chi ha combattuto mettendo a rischio la propria vita. L’altro pilastro era la colpevolizzazione esclusiva dei tedeschi “loro l’hanno fatto, sono stati loro, solo loro hanno commesso dei crimini”. Come si inserisce in questa narrazione la vicenda degli Imi? Il deportato politico, dipingendosi come resistente che è stato catturato, si è inserito nel mainstream resistenziale. Anche gli ebrei fanno la stessa cosa. Primo Levi, ad esempio, si descrive innanzitutto come un antifascista partigiano, certo ebreo, ma antifascista e partigiano e diviene un attivo militante dell’Aned. L’evento più importante nella memoria ebraica della Seconda guerra mondiale, fino al processo Eichmann, è la rivolta del Ghetto di Varsavia e non Auschwitz.
L’Imi è una categoria diversa che ha difficoltà ad inserirsi in questo mainstream. Ovviamente qui c’è un ruolo fondamentale delle associazioni come l’Anei. Va ricordata la figura di Vittorio Emanuele Giuntella, docente di storia moderna a Roma, ex internato e curatore dei “Quaderni sull’internamento”, per il quale è forte il legame tra internamento militare e resistenza. Il pieno riconoscimento risale agli anni Ottanta e poi è importante anche il ruolo di legittimazione definitiva svolto dal Presidente Ciampi. Con lui si afferma una lettura istituzionale della Resistenza, che allarga il perimetro ad altri soggetti oltre al partigiano: le vittime della guerra nazista così come gli attori della resistenza senz’armi, ovvero quanti hanno aiutato gli ebrei, i militari italiani allo sbando e i prigionieri alleati in fuga. Allargandosi la gamma di figure che hanno fatto la Resistenza si inseriscono a pieno titolo gli internati militari. Ciampi stesso rilancia la componente militare della Resistenza. È una questione anche autobiografica, lui era un ufficiale dell’esercito che dopo l’8 settembre scelse di stare col re e Badoglio contro i tedeschi. Quando va a Cefalonia, il 1° marzo del 2001 comincia il discorso dicendo: «Noi che ci rifiutammo di obbedire ai tedeschi», usa cioè il «Noi». Ciampi dunque rilancia la Resistenza come unione di popolo e forze armate e ovviamente gli internati militari hanno un ruolo importante. Nicola Labanca in un volume recente sottolinea molto il nesso tra internamento militare e Resistenza, contro una tendenza degli ultimi anni a dipingere l’internamento militare non come un’esperienza di Resistenza, ma come un’esperienza di sofferenza che dipinge gli Imi come semplici vittime.
Il volume che ho curato, Le vittime italiane del nazionalsocialismo, nasce da un progetto di ricerca finanziato dalla Germania, dal Fondo italo-tedesco per il futuro (https://memoriavittimenazismofascismo.it). A Padova abbiamo ricevuto questo finanziamento dalla Germania e abbiamo realizzato oltre 100 video-interviste a sopravvissuti italiani e italiane alla violenza nazista appartenenti a tutte le categorie: ebrei, deportati politici, Imi, partigiani, lavoratori coatti. Molte sono le interviste realizzate a Imi, 23 su 100, ed è interessante notare le differenze tra queste memorie. Ad esempio, è stato rilevato nell’articolo di Federico Goddi che gli internati militari che provengono dal corpo alpino non si descrivono mai come vittime. In loro c’è un forte spirito di corpo, orgoglio di appartenenza agli alpini, e si descrivono come combattenti, soprattutto se erano stati sul fronte russo. Invece, nei soldati appartenenti a corpi di fanteria, prevale la raffigurazione di sé stessi come vittime. In queste interviste che abbiamo fatto agli Imi abbiamo raccolto due o tre casi di soldati italiani che finiscono come internati militari nei campi tedeschi ma che prima combattevano in Jugoslavia e che ci hanno raccontato di crimini di guerra italiani. C’è una testimonianza di un militare, Stefano Grieco, che era di stanza a Zara e che poi è stato internato. Questo soldato racconta di un’esperienza avuta durante un pattugliamento quando, arrivato a un crocevia dove c’era stato uno scontro armato e dove c’erano altri reparti italiani, vede in fondo a una stradina di campagna una bambina tra i sei e i dieci anni vestita di rosso. Mentre racconta comincia a piangere e dice: «E poi quello gli ha sparato ed è caduta giù». Allora l’intervistatore chiede: «Ma quello chi? Un tedesco?» e l’altro risponde: «Ma quale tedesco, quel disgraziato…», era uno di noi, era un italiano. Grieco racconta poi di essere tornato il giorno dopo e di aver visto la bambina ancora stesa senza vita.
Abbiamo raccolto un’altra testimonianza su una rappresaglia fatta dagli italiani in un paesino che ora non ricordo, dove viene ucciso un carabiniere italiano e per ritorsione vengono fucilati otto sloveni e bruciato tutto. Questa seconda testimonianza è stata utilizzata dall’Istituto della Resistenza di Trieste in una mostra digitale dal titolo: A ferro e fuoco. L’occupazione italiana della Jugoslavia 1941-1943 (https://www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it) realizzata nel 2021.
C’è un capitolo del volume Nel cantiere della memoria dedicato alla ricerca di una memoria europea. L’Ottantanove è un momento cruciale per definire la memoria e le varie sfaccettature di cui stiamo parlando. Come pensare, oggi, a quelli che sono stati momenti divisivi della storia europea come una memoria europea? Possono le testimonianze diventare uno strumento anche per l’educazione civica?
David Bidussa, già nel 2009, quattrodici anni fa, scrisse un libro interrogandosi su cosa sarebbe avvenuto dopo la scomparsa dei testimoni. Si poneva cioè il problema della memoria dopo la perdita dei testimoni, sostenendo che abbiamo comunque un patrimonio di testimonianze con le quali e sulle quali lo storico potrà lavorare per fare memoria, anche una storia della memoria. La grande sfida per gli storici e per gli insegnanti è quella di elaborare insieme dei progetti. Il progetto da me coordinato all’Università di Padova sulle vittime del nazionalsocialismo non è finito, il secondo step è quello adesso di realizzare, sulla base delle testimonianze raccolte, dei progetti didattici.
Sulla memoria europea si è aperto un campo di battaglia fondamentale in Europa. Sto parlando dell’Europa in generale e poi dell’Unione europea, perché l’Unione è sempre più un attore fondamentale che incide sulle nostre memorie. È stata elaborata una memoria europea che è basata su due pilastri: la Shoah, questo già dagli anni Novanta, e poi, dopo l’allargamento ai paesi dell’Europa centrale e orientale, si è aggiunto il cosiddetto paradigma antitotalitario, la tendenza cioè a equiparare i crimini del comunismo ai crimini del nazismo. Del tutto comprensibilmente, per certi aspetti, vista l’esperienza di molti paesi che hanno avuto regimi comunisti per quarant’anni. Questi paesi rivendicano l’esigenza di colmare un gap memoriale fra Europa dell’Ovest e dell’Est: tutti a ovest conoscono i crimini del nazismo ma non quelli del comunismo. Sulla base di questa comprensibile rivendicazione, hanno però avanzato con successo l’idea dell’equiparazione dei crimini dei due totalitarismi, proponendo un paradigma vittimario in cui si dice che tutte le vittime hanno uguale dignità. Tra il 2004 e il 2007 l’Unione europea si allarga a est e già nel 2008 il Parlamento europeo approva una risoluzione che stabilisce che il 23 agosto, in ricordo del 23 agosto 1939 giorno della firma del patto Molotov-Ribbentrop, è la giornata del ricordo delle vittime dello stalinismo e del nazismo. Pochi mesi dopo, nel 2009, si ha la risoluzione Coscienza europea e totalitarismo, in cui si accoglie l’equiparazione fra crimini del comunismo e crimini del nazismo e si pone il ricordo dei due totalitarismi come pietra di riferimento della memoria europea. Su questa strada si arriva fino alla risoluzione del 19 settembre del 2019 del Parlamento europeo sull’«importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa» che ribadisce l’importanza del pilastro antitotalitario e afferma anche l’esigenza di punire i responsabili dei crimini del comunismo, la necessità di una sorta di “Norimberga rossa”. Inoltre, si sostiene che il 23 agosto rappresenta la vera origine della Seconda guerra mondiale. In questo modo si va quasi a spartire le responsabilità della guerra tra Germania nazista e Unione Sovietica. Chiaramente il patto Molotov-Ribbentrop incide a fondo sulla suddivisione futura dell’Europa in zone d’influenza, prelude all’attacco sovietico della Polonia solo pochi giorni dopo l’aggressione tedesca, però l’origine della Seconda guerra mondiale non sta in quel patto. Come affermano i principali storici tedeschi e lo stesso ministro degli Esteri tedesco, la Germania la guerra l’avrebbe scatenata comunque.
Due mesi prima dell’allargamento dell’Europa nel maggio 2004, al Congresso a Bruxelles del Partito popolare europeo, principale gruppo politico in Europa, viene votata una risoluzione, Condemning totalitarian communism, nella quale si chiede la condanna del comunismo e del nazismo come «regimi totalitari ugualmente inumani» e l’istituzione di un museo per le vittime del comunismo. Va sottolineato che la Germania ha appoggiato fin dall’inizio il paradigma totalitario promosso dai paesi dell’est Europa sia per motivi politici (riannodare rapporti politici con Polonia, Ungheria, ecc.) sia per affinità culturale. Infatti la Germania occidentale, poi Germania unita, ha un background antitotalitario, non è mai stata antifascista perché l’antifascismo era la dottrina ufficiale della Germania comunista. La Germania di Bonn è sempre stata antitotalitaria. La Corte costituzionale tedesca negli anni Cinquanta ha messo fuori legge prima il partito neonazista (Srp) e tre anni dopo il Partito comunista tedesco. Ultimamente c’è stata però una frattura principalmente tra tedeschi e polacchi, in relazione alla realizzazione della Casa della storia europea, il museo inaugurato a Bruxelles nel maggio del 2017, frutto di una proposta tedesca del Presidente del parlamento europeo Hans-Gert Pöttering, della Cdu, afferente al Partito popolare europeo. Si tratta di un museo della storia europea che è connotato da un’impostazione antitotalitaria: si inizia con la Rivoluzione francese, si prosegue con l’Ottocento, la Prima guerra mondiale, il Colonialismo e poi si arriva alla sala principale. Qui ci sono le gigantografie di Hitler e di Stalin, rappresentazione dell’idea dei due totalitarismi gemelli. Due mesi dopo l’inaugurazione di questo museo, una delegazione della Piattaforma della memoria e della coscienza europea, un network di associazioni memoriali creato nel 2011 a Praga dai paesi del patto di Visegrad, va a visitare questo museo e scrive un rapporto ferocemente critico. A questo segue anche una lettera di protesta da parte del ministro della Cultura polacco. Non gli piace il fatto che in questo museo la nazione e i nazionalismi sono raffigurati solamente come qualcosa di negativo, come l’origine di tutti i mali (guerra, xenofobia, razzismo). È quello che pensa la cultura della memoria tedesca. Per i polacchi questa è un’aberrazione, perché per loro la storia è fatta dalla nazione, loro sono la nazione martire dei due totalitarismi, nazismo e comunismo. Non a caso tutte le politiche della memoria in Polonia sono finalizzate a esaltare la gloria nazionale, il martirio polacco, la gloria polacca. Come vedete siamo ad un bivio in Europa: dietro queste memorie ci sono opzioni politiche diametralmente opposte: da un lato, secondo l’impostazione tedesca, una memoria cosmopolita che sostiene i diritti umani come fondamento di democrazie aperte, solidali e multiculturali; dall’altro lato memorie ultrapatriottiche che esaltano la nazione, al di sopra dei diritti dei diritti universali di cittadinanza.
La partita che si sta giocando in Europa si sta giocando anche in Italia. La memoria delle foibe è esattamente su questo crinale: partecipando a diversi eventi mi è capitato di avere a che fare con persone che hanno una visione ultranazionalista della memoria delle foibe, per la quale gli italiani sono vittime di una pulizia etnica, di un genocidio, le foibe come la Shoah italiana. Nel promuovere questa visione si richiamano esplicitamente alla risoluzione del 2019 del Parlamento europeo. Ovviamente fanno un’opera selettiva, richiamandosi solo a quei passaggi della risoluzione nei quali si mettono assieme crimini del comunismo e crimini del nazismo: se è giusto riconoscere la strage di Monte Sole, allora va riconosciuta anche la strage delle foibe compiuta dai comunisti. Omettono, invece, il riferimento a quei passaggi della risoluzione che accanto al nazismo e al comunismo parlano della dittatura fascista. Tra i proponenti di quella risoluzione c’era un solo italiano, Antonio Tajani, attuale ministro degli Esteri. C’è un’altra declinazione di quella memoria, inaugurata dai Presidenti della Repubblica italiana a partire dal 2010 con Napolitano, ovvero la creazione di una memoria europea riconciliata. Il suo emblema è il gesto del presidente Sergio Mattarella che si tiene per mano con il presidente sloveno Borut Pahor a Basovizza, in occasione della visita nel luglio 2020 alle due Basovizza: quella italiana del monumento nazionale per le foibe e quella slovena del monumento che ricorda la fucilazione di quattro giovani sloveni antifascisti. Si guarda al passato riconoscendo ciascuno le proprie responsabilità per guardare al futuro e costruire un’Europa comune. Da qui si apre uno spazio enorme per progetti tra scuole italiane slovene croate e progetti culturali per conoscere la storia di quei territori. Sono delle opzioni diverse: si può insistere sulle nazioni, sul nazionalismo e su una visione vittimistica e aggressiva, oppure si può costruire qualcosa che – secondo me – guarda a un futuro migliore. Sta a tutti noi scegliere come porsi di fronte a queste sfide.