In apertura: facciata dell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia (Foto dell’Autore).
Da qualche tempo è disponibile per gli studiosi l’importante Archivio dell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) di Reggio Emilia. Nel corso del 2022, infatti, le cartelle cliniche dei pazienti dimessi fra il 1927 e il 2008 sono state depositate presso la Biblioteca scientifica “Carlo “Livi”, che già custodisce l’Archivio dell’ex Ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, diventando così un polo di ricerca di assoluto valore a livello nazionale per la storia delle istituzioni psichiatriche italiane1.
Come è noto, i manicomi criminali (definiti nel tempo come “Manicomi giudiziari” e, infine, come “Ospedali psichiatrici giudiziari”) sono una istituzione creata nella seconda metà dell’Ottocento all’interno del sistema penale e come luoghi di supporto per la gestione della vita nelle carceri2. Essi, nascendo nel contesto ideologico dell’antropologia criminale e del positivismo di tipo lombrosiano, a lungo dominanti in Italia nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento, dovevano servire soprattutto per “custodire” i criminali considerati più pericolosi (pensiamo ai cosiddetti “folli morali” o ai “criminali nati”) e che non potevano essere – così si pensava – recuperati alla vita sociale. In realtà, finirono ben presto per trasformarsi in “valvole di sfogo” del sistema penale, in luoghi dove le prigioni scaricavano i detenuti più indisciplinati e che, soprattutto, accusavano disturbi mentali tali da rendere impossibile la loro permanenza in carcere (i cosiddetti “rei folli”).
I manicomi criminali rappresentavano, almeno in teoria, luoghi di osservazione clinica (ad esempio per i casi di sospetta pazzia o, soprattutto, di sospetta simulazione) e di cura, ma, nella pratica, erano delle dépendances delle prigioni, in cui la vigilanza era affidata alle solite guardie carcerarie e a pochi medici (nemmeno specializzati).
Il manicomio criminale di Reggio Emilia fu aperto nel 1896, terzo in Italia dopo quello di Aversa (1876) e quello di Montelupo Fiorentino (1886) e venne ricavato da un antico convento nel centro cittadino3: la scelta fu dettata dal fatto che la città emiliana già disponesse di un importante ospedale psichiatrico, il “San Lazzaro”, con cui il manicomio criminale ebbe fra l’altro costanti rapporti di collaborazione.
I manicomi criminali hanno attraversato tutto il Novecento fino alla loro chiusura, senza essere investiti, se non marginalmente, dai movimenti di contestazione che si sono invece interessati ai manicomi “civili” a partire dagli anni Sessanta e che hanno visto il loro successo con la legge n. 180 che ha sancito, nel 1978, il superamento di queste istituzioni. Senza dubbio, ha pesato il fatto che gli OPG siano stati sempre pochi (sei in tutto il territorio nazionale) e siano stati sostanzialmente destinati ad ospitare persone considerate “irrecuperabili”. D’altra parte, così come per gli ospedali psichiatrici, le cartelle cliniche compilate negli OPG rappresentano una vera e propria miniera non soltanto per la storia della psichiatria e per quella delle carceri, ma anche per la storia sociale e, più in generale, per la storia culturale4. Da una prima ricognizione delle cartelle cliniche degli ex pazienti dell’OPG di Reggio Emilia, non si può che trovare conferma a questa idea. D’altra parte, non si deve credere che i ricoverati nei manicomi criminali fossero tutti delle “belve umane”, dei mostri capaci di ogni orrore e dei delitti più efferati (come nel caso dei cosiddetti “rei folli”, cioè dei prosciolti per infermità mentale). Tanti finivano in OPG per essere sottoposti a perizia psichiatrica o perché, come nel caso di cui ci occuperemo qui, durante la detenzione accusavano disturbi psichici (i già citati “rei folli”).
Attilio Carrega fu ricoverato a Reggio Emilia per poco meno di sei anni, fra il 1925 e il 1931. Il suo nome all’epoca aveva un notevole risonanza, perché aveva fatto parte della banda di Sante Pollastro (o Pollastri), il “Nemico pubblico numero uno”, ladro in odore di anarchia, su cui tanto si è fantasticato, scritto e cantato5.
Carrega era nato nel 1898 a Novi Ligure, e dunque nella stessa cittadina di Pollastro. Aveva studiato solo per pochi anni alle scuole elementari prima di iniziare a lavorare come panettiere, mestiere che avrebbe continuato a fare fino al momento della chiamata sotto le armi. Ancora molto giovane era entrato in contatto con il gruppo di criminali (specializzati in furti) guidato da Pollastro, finendo per essere arrestato per aver partecipato a una rapina, degenerata in omicidio, realizzata da quella stessa banda a Tortona nel luglio del 1922. Cosa era accaduto?
Il 14 luglio il cassiere della Banca Agricola di Tortona, Achille Casalegno, era stato avvicinato da un gruppo di uomini armati e in bicicletta poco dopo essere uscito di casa, verso le 14. Per sottrargli una borsa che conteneva 27.000 lire in denaro contante e 10.000 lire in titoli, i rapinatori avevano – forse in modo accidentale – ucciso il cassiere con un colpo di rivoltella6. Già la sera dopo il furto, Carrega fu arrestato, assieme a Pasquale Leggero (un altro componente della banda), riconosciuto da diversi testimoni. Da subito e ancora per anni – come vedremo – Carrega non smise mai di rivendicare la propria innocenza. Per il delitto di Tortona, Carrega, Leggero e il latitante Pollastro furono giudicati e condannati dalla Corte d’Assise di Alessandria nel 1924. Carrega fu condannato a 30 anni di reclusione per omicidio e rapina e, dunque, circa un anno dopo la sentenza, fu trasferito nel manicomio giudiziario di Reggio Emilia, proveniente dallo Stabilimento penale di San Giminiano. La sua cartella clinica conserva tutta una serie di informazioni mediche, frutto di una minuta osservazione somatica e di una lunga serie di esami clinici. Veniamo così a sapere che Carrega non presentava particolari alterazioni, se non per alcune cicatrici che aveva in diverse parti del corpo – una, in particolare, al ginocchio destro era frutto di una ferita contratta durante la Prima guerra mondiale.
Anche dal punto di vista psichico, Carrega non presentava alterazioni significative. Né, tanto meno, erano emersi dati anamnestici di rilievo, né fra gli ascendenti né fra i collaterali. Non era alcolista né sifilitico e non era mai stato ricoverato in manicomio. Anche i rapporti, inviati a Reggio Emilia dal podestà e dai carabinieri di Novi Ligure, confermavano l’immagine di un uomo senza particolari problemi e che non aveva, fino al delitto del 1922, avuto a che fare con la giustizia. Era insomma un giovane uomo robusto, sano, che stava però attraversando allora una grave crisi depressiva dovuta a quella che egli stesso giudicava una grande ingiustizia: «Assicura di essere entrato in Manicomio – leggiamo nei Diari clinici della cartella – avendo perduto la ragione mentre si trovava in carcere sapendosi innocente»7.
I Diari clinici contenuti nella cartella non presentano molte annotazioni se non per sottolineare come il paziente si fosse sempre mantenuto lucido e disciplinato, anche se era dominato dall’“idea fissa” dell’ingiusta condanna subita e sperava continuamente in una revisione del processo.
A gennaio del 1931, il diretto dell’OPG, Giulio Cremona, scrisse al Ministero della Giustizia per far riconsegnare Carrega al sistema carcerario:
Il condannato Carrega Attilio, qui degente dal novembre 1925, all’infuori di una fase depressiva presentata all’inizio del ricovero, per la condanna riportata, secondo lui ingiustamente, a 30 anni di reclusione, si è mantenuto sempre tranquillo, lucido, cosciente e ben adattato all’ambiente. È stato per lungo tempo adibito al lavoro con piena soddisfazione dei Superiori. Allo stato attuale, quindi, egli non è un malato di mente e, pertanto, non abbisognevole di cura e custodia manicomiale8.
Carrega fu trasferito nella Casa penale di Castelfranco Emilia il 6 febbraio successivo.
Durante il ricovero nel manicomio criminale, Carrega ebbe effettivamente l’opportunità di ottenere una revisione del processo che aveva portato alla sua condanna. L’elemento nuovo sarebbe stato rappresentato dall’arresto di Sante Pollastro, avvenuto a Parigi nell’agosto del 1927. All’indomani del ritorno di Pollastro in Italia, in occasione di un processo a Milano, ci fu anche un confronto fra Pollastro e il celebre ciclista Costante Girardengo (il “campione” della canzone di De Gregori), anche lui originario di Novi Ligure e amico d’infanzia del bandito. Argomento del confronto erano appunto i reali esecutori dell’agguato di Tortona a Casalegno9. A Parigi, durante un incontro avvenuto nel settembre del 1925 – quando Girardengo era impegnato in una serie di gare – Pollastro avrebbe confidato all’amico di essere il vero assassino del cassiere e che Leggero e Carrega fossero estranei ai fatti10.
Per la stampa, comunque, le prove contro Carrega erano schiaccianti:
Le testimonianze ed i riconoscimenti si susseguirono con sicurezza impressionante. Vittorio Ravera riconobbe nel Carrega l’individuo veduto, fra le 11.00 e le 11.30, il giorno del delitto, in località prossima a quella dove cadde il cassiere. Giuseppe Fossati riconobbe pure nel Carrega l’individuo visto fuggire in bicicletta con una borsa nera, verso le 14-14.30 in località Groppo, immediatamente dopo il delitto. Fortunato Bocchio, che fu anche seguito da uno degli aggressori perché aveva assistito alla scena, racconta che vide gli assassini verso le ore 14, e uno di essi colla bicicletta per mano lo seguì, guardandolo minaccioso, fino a casa e vide anche un altro che teneva una mano sul manubrio della bicicletta e l’altra sul sellino della macchina. Messo a confronto cogli arrestati ne riconobbe due: e cioè il Leggero ed il Carrega. Il Carrega era l’individuo che lo aveva seguito11.
Per parte sua, Pollastro ripeté sempre la stessa versione: era stato lui stesso ad uccidere, per un colpo casuale, Casaleggio, e alla rapina avevano preso parte altri tre uomini (fra cui uno «zingaro», l’unico nel frattempo ancora vivo, di cui non volle rivelare l’identità), ma non Leggero e Carrega:
Ecco come lo stesso Pollastro raccontò a un conoscente a Parigi [cioè Girardengo] il fattaccio: A Tortona, quando fu ucciso il cassiere della Banca Agricola, Casalegno, non vi erano il Carega [sic] ed il Leggero, che vennero condannati a trenta anni di reclusione. Lo so che è un male che si sono cercati, poiché fu il Leggero che, suggestionato dagli interrogatori, finì per ammettere la sua partecipazione al fatto, ma al delitto non hanno partecipato12.
Nel maggio del 1929 la Corte di Cassazione respinse però la richiesta di revisione del processo – richiesta avanza fra l’altro anche dal procuratore generale di Torino. Si trattava di una domanda inammissibile in quanto era già noto che Pollastro avesse preso parte al delitto di Tortona e non erano emerse nuove prove concrete, a parte le parole dello stesso bandito13.
Nel 1931 – quindi proprio nell’anno in cui Carrega fu dimesso dall’OPG reggiano – Pollastro andò a processo ad Alessandria per l’omicidio di Casalegno (essendo latitante all’epoca del processo del 1924)14. E si aggiunse una nuova condanna all’ergastolo per il bandito di Novi Ligure. Il tribunale stabilì che Pollastro (con ormai parecchi ergastoli all’attivo) volesse con la sua autoaccusa soltanto permettere la liberazione degli ex compagni di delitti.
Al di là della curiosità legata ad alcune celebrità di un secolo fa, questa parte indubbiamente significativa nella vita di Attilio Carrega – il ricovero in un manicomio criminale per una depressione sviluppata in carcere – ci permette di illuminare un po’ meglio la vita in questa istituzione rimasta per decenni ai margini della vita sociale italiana.
Note
1 Cfr. https://www.ausl.re.it/archivio-ex-ospedale-psichiatrico-giudiziario-di-reggio-emilia, ultima consultazione: 14 aprile 2023.
2 Cfr. Stefano D’Auria, L’evoluzione dell’istituzione manicomiale giudiziaria in Italia fra paradigmi psichiatrici e giuspenalistici. Luci ed ombre all’esito dell’importante riforma del 2012, in “Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza”, 2018, n. 2, pp. 12-26; Mary Gibson, Forensic psychiatry and the birth of the criminal insaneasylum in modern Italy, in “International Journal of Law and Psychiatry”, 2014, n. 1, pp. 117-126; Gaddomaria Grassi, Chiara Bombardieri, Il policlinico della delinquenza. Storia degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani, Milano, Franco Angeli, 2016; Francesco Paolella, Alle origini dei manicomi criminali, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 2011, n. 1, pp. 43-52; Renzo Villa, “Pazzi e criminali”: strutture istituzionali e pratica psichiatrica nei manicomi criminali italiani (1876-1915), in “Movimento operaio e socialista”, 1980, n. 3, pp. 369-393.
3 Cfr. Chiara Bombardieri, Gaddomaria Grassi, Francesco Paolella, L’OPG di Reggio Emilia 1896-2015: storia di un’istituzione, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 2022, n. 3, pp. 159-180.
4 Cfr. Lessico della storia culturale, a cura di Alberto Maria Banti, Vinzia Fiorino, Carlotta Sorba, Roma-Bari, Laterza, 2023; Vinzia Fiorino, La cartella clinica: un’utile fonte storiografica?, in Identità e rappresentazioni di genere in Italia tra Otto e Novecento, a cura di Francesca Alberico, Giuliana Franchini, Eleonora Landini et al., Genova, Dismec, 2010, pp. 51-69; Paolo Sorcinelli, Il quotidiano e i sentimenti. Viaggio nella storia sociale, Milano, Bruno Mondadori, 2002.
5 Ci riferiamo, ovviamente, alla canzone di Luigi Grechi, Il bandito e il campione, fatta conoscere al grande pubblico dal fratello Francesco De Gregori nel 1993. Per la storia di Sante Pollastro, cfr. Federico Cartesegna, L’ultimo bandito: storia di Sante Pollastro, Novi Ligure, Edizioni Joker, 2019; Maria Angela Damilano, Sante Pollastro e le storie del borgo, Novi Ligure, La Torretta, 2017; Massimo Novelli, La furibonda anarchia. Renzo Novatore, poeta e Sante Pollastro, bandito, Boves, Araba Fenice, 2007; Marco Ventura, Il campione e il bandito. La vera storia di Costante Girardengo e Sante Pollastro, Milano, Il Saggiatore, 2006; Gian Domenico Zucca, Sante Pollastro: il bandito in bicicletta, Alessandria, Boccassi, 2003.
6 Cfr. Il delitto di Tortona, in “La Stampa”, 17 luglio 1930, p. 4.
7 Archivio clinico dell’ex Ospedale psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia, Cartella clinica di Attilio Carrega, Diari clinici, 24 ottobre 1928.
8 Ivi, Lettera del Direttore Giulio Cremona al Ministero della Giustizia, 22 gennaio 1931.
9 Cfr. Il confronto Girardengo-Pollastro dinanzi al Giudice Istruttore di Milano, in “La Stampa”, 5 ottobre 1929, p. 4.
10 «Ed ecco su quale fatto nuovo […]. Si tratta delle dichiarazioni rese da Sante Pollastro, a Parigi, al suo conterraneo Costante Girardengo, l’asso del ciclismo che domani sentiremo come testimone. Il 24 settembre 1925 – Pollastro allora era ancora in libertà e viveva a Parigi – Girardengo era impegnato in una competizione ciclistica al Velodromo di Buffalo. Ad un tratto il suo masseur, Giuseppe Cavanna, intese un fischio: il fischio caratteristico che i novesi usano per riconoscersi tra di loro. Il Cavanna accorse e trovò il Pollastro, il quale, finita la corsa, si recò a salutare Girardengo, per quanto non fosse da questi riconosciuto. Il giorno successivo, Girardengo trovò seduto ad un tavolo, nel ristorante dove pigliava solitamente i pasti, il Pollastri. Allorché uscì, costui lo seguì. “Fu allora che mi venne l’idea – raccontò Girardengo – di chiedergli quanto vi fosse di vero sulle voci che correvano sulla innocenza di Carrega e Leggero”. Pollastro dichiarò che realmente costoro erano estranei al delitto ed erano stati condannati ingiustamente» (Il bandito Pollastro in Assise per l’uccisione del cassiere Casalegno a Tortona, in “La Stampa”, 29 aprile 1931, p. 4).
11 Su quali prove furono condannati gli accusati dell’assassinio del cassiere, in “La Stampa”, 1° settembre 1927, p. 4.
12 Sei anni di delitti e di sangue della banda Pollastro, in “La Stampa”, 14 agosto 1927, p. 2.
13 Cfr. L’assassinio del cassiere di Tortona. La Cassazione respinge la revisione del processo, in “La Stampa”, 21 maggio 1929, p. 4.
14 Cfr. Sante Pollastro di nuovo condannato all’ergastolo, in “La Stampa”, 1° maggio 1931, p. 4.