Fumetti e Shoah: una “relazione pericolosa”? Considerazioni a margine di una mostra sul tema

È stata allestita quest’anno al Mémorial de la Shoah di Parigi la mostra Shoah et bande dessinée (Shoah e fumetto), curata dal giornalista ed editore Didier Pasamonik e dallo storico Joël Kotek, autore, fra l’altro, con Pierre Rigoulot, del libro Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: 1900-2000, Milano, Mondadori, 2001.

Anche chi, negli oltre nove mesi della sua apertura (19 gennaio – 30 ottobre 2017), non si è potuto recare nella capitale francese, ha comunque la possibilità di farsene un’idea accurata visitando il bel sito che le è dedicato (http://expo-bd.memorialdelashoah.org/), oppure sfogliando il relativo catalogo (Shoah et bande dessinée. L’image au service de la mémoire, Paris, Mémorial de la Shoah/Éditions Denoël Graphic, 2017).

La mostra si presenta da un lato come un’ottima occasione per ripercorrere il rapporto tra la “nona arte” e la memoria dello sterminio nel corso degli oltre settant’anni che ci separano da esso, ma soprattutto, attraverso tale ricapitolazione, per riflettere sulla problematica relazione tra Shoah e sua rappresentazione finzionale, specie quando ad attuarla è un medium tradizionalmente considerato “pop” o “basso” più di ogni altro.

 

Cominciamo dalla storia

Oggi, quando si accostano i termini “Shoah” e “fumetto”, il pensiero corre inevitabilmente a quel riconosciuto capolavoro che è Maus di Art Spiegelman. Eppure con non poca sorpresa si impara dalla mostra che quello non è stato il primo fumetto ad aver trattato un tema tanto delicato, e neppure il primo a farlo usando dei topi: infatti già nel 1942 Horst Rosenthal, un internato nel campo di concentramento francese di Gurs, durante la sua prigionia disegnò e scrisse un albo intitolato Mickey au camp de Gurs, in cui il celebre personaggio disneyano diventa un internato di quel campo. Il giovane artista elaborava in questo modo la propria tragica prigionia e con le sue storie intratteneva i bambini reclusi. Horst, nato a Breslavia nel 1915, fuggito dalla Germania a causa delle persecuzioni antiebraiche nel 1933, era stato internato dalla polizia francese in quanto straniero al momento della dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. Con l’occupazione tedesca della Francia e l’avvento del regime di Vichy rimase internato, ma in quanto ebreo, fino alla deportazione ad Auschwitz (nel 1942), dove sarebbe morto. La sua opera è stata recuperata e ora è pubblicata in un volume curato dagli stessi Joël Kotek e Didier Pasamonik (Mickey à Gurs. Les carnets de dessins de Horst Rosenthal, Mémorial de la Shoah/Éditions Calmann-Lévy, 2014). Anche qui, dunque, siamo di fronte alla scelta, in anni e contesti diversissimi rispetto a Maus, di utilizzare la figura del topo come metafora del popolo ebraico, ma, come osservano Pasamonik e Kotek «la maschera di Rosenthal non è quella della soggettività nazista (“l’Ebreo come un soggetto altro e nocivo”, propria di Spiegelman), bensì della vittima (“l’Ebreo come uomo libero”)».

Un altro parallelo col celeberrimo Maus è possibile anche per La bête est morte! di Edmond-François Calvo, Victor Dancette e Jacques Zimmermann (fascicolo 1, Quand la bête est déchaînée, Éditions GP, 1944), il primo fumetto a rappresentare la Shoah. Siamo anche qui di fronte ad una raffigurazione che si serve di personaggi dalle sembianze animali (Hitler un lupo, Göring un maiale, Mussolini una iena, ecc.) che forse ha fornito uno spunto ad Art Spiegelman, ma in questo caso il racconto, come esplicita efficacemente il sottotitolo (La Guerre Mondiale chez les animaux), non è incentrato sullo sterminio degli ebrei, e un accenno alla Shoah vi è svolto solo in pochi riquadri.

Nel 1952 la rivista franco-belga “Spirou” pubblicava Le héros de Budapest (“Spirou”, n. 716, 3 gennaio 1952) e Seul contre la barbarie (“Spirou”, n. 717, 10 gennaio 1952) di Jean Graton e Jean-Michel Charlier, due racconti incentrati sulla deportazione degli ebrei ungheresi ad Auschwitz. Entrambi facevano parte della longeva serie Les belles histoires de l’oncle Paul, racconti da una a sei pagine che illustravano la vita di un uomo famoso (o un’invenzione, un avvenimento storico), dunque dall’evidente finalità pedagogica, ma dall’esito poco convincente: ad esempio il “giusto tra le nazioni” svedese Raoul Wellenberg vi viene presentato come un supereroe della Resistenza.

Ben altro esito è raggiunto nell’aprile 1955 da Bernie Kriegsten e Al Feldstein, che pubblicano negli Stati Uniti Master Race, storia breve che racconta l’incontro fortuito, nella metropolitana di New York, fra Reissman, un tedesco rifugiatosi negli USA dopo la fine della guerra, e un misterioso uomo in nero che si rivelerà una delle vittime di Reissman quando questi dirigeva un lager.

La lettura di questa storia segna fortemente il giovane Art Spiegelmann, ma per arrivare al suo Maus si dovranno attendere venti anni e oltre: se è vero infatti che Spiegelmann inizia a lavorare alle tavole del suo capolavoro nei primi anni Settanta, la vittoria del Premio Pulitzer risale al 1992, ed è piuttosto questo l’evento che costituisce il riconoscimento del fumetto come mezzo di comunicazione (meglio: un vero e proprio linguaggio) al di fuori del suo mondo di riferimento tradizionale.

 

La rivoluzione di Maus

Maus costituisce dunque a tutti gli effetti un punto di svolta epocale nella rappresentazione della Shoah e nella storia della letteratura tout court. Racconta la vicenda di Vladek Spiegelman, un ebreo polacco sopravvissuto, e di suo figlio Art (Stoccolma, 1948), un disegnatore che cerca di trovare un dialogo con suo padre, e con la sua la terribile vicenda.

Tutti i personaggi, come si è già detto, sono interpretati da animali antropomorfi, più precisamente gli ebrei sono topi, i nazisti gatti, i polacchi maiali e gli americani cani. La storia è divisa in due parti, la prima delle quali (Mio padre sanguina storia) inizia con il giovane fumettista Art, o meglio la sua controfigura roditrice, che chiede al padre Vladek, il quale dopo il suicido della moglie Anja ha sposato Mala e vive a New York, di raccontargli l’esperienza da lui vissuta negli anni della Seconda guerra mondiale durante i quali venne catturato e rinchiuso ad Auschwitz.

In un lungo flusso di memoria Vladek svolge il suo racconto da quando giovane e spensierato si godeva la vita a Czestochowa. A Sosnowiec, dove vivevano i suoi parenti, egli incontra Anja, se ne innamora, la sposa e ne ha un figlio. Ma inizia la guerra, la Polonia viene invasa e con le leggi razziali la famiglia perde i beni e inizia a dividersi; i due sposi cominciano una vita fatta di espedienti e di giornate passate in nascondigli precari, alla continua ricerca di cibo che possono però acquistare solo al mercato nero. Dopo avere vagato alla ricerca di rifugi sicuri, decidono di attraversare la frontiera per scampare al pericolo nazista; vengono però intercettati e mandati entrambi ad Auschwitz Birkenau.

Nel secondo libro (E qui cominciarono i miei guai), accanto alla storia del padre che narra al figlio la vita del campo, è descritta anche la difficile relazione tra i due, che non riescono a comunicare, nonostante la scelta coraggiosa di entrambi di affrontare un’esperienza tanto intensa. Vladek continua a “sanguinare storia” e ha eretto un muro di diffidenza e grettezza (ha sviluppato una maniacale ossessione per il denaro), che gli impediscono di mostrare amore per se stesso e per chi gli sta accanto, come Mala.

Il flashback si conclude con la descrizione del viaggio di ritorno, che fu lungo, faticoso e quasi mortale, perché Vladek contrasse il tifo, e infine la ricerca di Anja e il felice ricongiungimento dei due sposi. Invece la storia “presente” del padre si chiude con il ritorno a casa di Mala, che se n’era andata in Florida per i continui litigi, e la malattia che porterà Vladek alla morte nel 1982.

 

Tendenze recenti

Maus, come si è detto, ha cambiato totalmente la ricezione del fumetto, dal momento che è stato il primo grafic novel insignito del Premio Pulitzer: con uno stile grafico semplice ma efficacemente costruito, cupo, con vignette ben composte e sature (che nel raffigurare il lager trasmettono sensazioni claustrofobiche), è un racconto solido e maturo, che ha conferito straordinaria dignità al medium. Ma, ai fini specifici del nostro discorso, la sua importanza sta anche nel fatto che il racconto mette in parallelo la storia del padre e quella del rapporto con il figlio, cioè da un lato la memoria di Auschwitz, dall’altro il suo passaggio alla seconda generazione; d’altronde, a rigore, con la sola eccezione di Miriam Katin, classe 1942, autrice di We are on our own (Montreal, Drawn and Quarterly, 2006), i fumettisti che hanno raccontato la Shoah non hanno vissuto la catastrofe.

Un simile approccio è proprio alla base dell’opera di Michel Kichka, La seconda generazione, quello che non ho detto a mio padre (traduzione di Giovanni Zucca, Milano, Rizzoli-Lizard, 2014), in cui l’autore racconta la storia del padre Henri, che, di tutta la famiglia Kichka, di origine ebrea polacca emigrata in Belgio, è stato l’unico sopravvissuto. Questi, però, non parlava mai di ciò che gli era accaduto «laggiù», lasciando appena trapelare quanto bastava perché il piccolo Michel e suo fratello potessero intuire. Tuttavia quel pesante non detto paterno provoca una catena di conseguenze che culminano con il suicidio del figlio Charly, il fratello dell’autore, trauma, quest’ultimo, che sblocca il silenzio del vecchio sopravvissuto.

Anche Bernice Eisenstein, nel suo Sono figlia dell’olocausto (Parma, Guanda, 2007, titolo originale: I was a child of holocaust survivors), presenta, attraverso un racconto che mescola testo e fumetto, una storia di formazione, quella dell’autrice stessa, che, nata nel 1949 da due ebrei immigrati negli States, fin da bambina vive portandosi dentro l’ombra dei campi di sterminio nazisti: i suoi genitori, infatti, si sono conosciuti proprio ad Auschwitz, pochi giorni prima della liberazione. Bernice continua a rivolgere loro domande, per conoscere il dolore e la sofferenza, ma i genitori non riescono o non vogliono raccontarle, e quello di Bernice diventa così un percorso nella fallibilità della memoria e nella perdita del passato.

A suo modo anche Noi non andremo a vedere Auschwitz di Jérémie Dres (Coconino press-Fandango, 2012, traduzione di Donatella Pennisi Guibert) si colloca su questa linea, ma spostando l’obiettivo sulla terza generazione: qui infatti il trentenne Jérémie Dres parte da Parigi con suo fratello Martin per la Polonia, sulle tracce della nonna scomparsa che era vissuta a Varsavia; ma attraverso i tanti incontri il viaggio si trasforma e la prospettiva si allarga da una ricerca personale e famigliare a un’indagine più ampia sulle radici, la memoria, la cultura e le prospettive della comunità ebraica polacca di oggi, con le sue aspirazioni, il desiderio di rinnovamento, il confronto tra vecchie e nuove generazioni.

Da questi racconti, insomma, emerge che, a cominciare da coloro che le sopravvissero, la Shoah non termina con la dismissione dei campi di sterminio, ma prolunga i propri effetti nel tempo e sulle persone e le comunità che entrano in contatto con essi.

Altro aspetto significativo di questo passaggio d’epoca è che la Shoah entra nell’universo delle strisce anche in ambiti irriverenti e blasfemi, tanto da rafforzare gli interrogativi sulla liceità e i confini del discorso fumettistico riguardo allo sterminio. “Charlie Hebdo”, per dire del caso più rappresentativo, non ha dovuto aspettato di pubblicare le vignette su Maometto per scioccare il pubblico né per suscitare un vivace dibattito: Georges Wolinski ne ha firmato una copertina il cui titolo era Hitler super-sympa (n. 416, 2 novembre 1978); Uri Fink e Gabriel Etinzon hanno invece parodiato Maus di Spiegelman in un racconto intitolato Hummaus (in Histoires d’une région engagé, gennaio 2006); Noël Gérard, alias Jo le Corbeau, nel 2014 ha realizzato una parodia negazionista di “Charlie”, il cui titolo è tutto un programma: “Shoah Hebdo”.

Dalla lettura di questi e di altri fumetti se ne esce con tanti interrogativi: la satira è compatibile con il rispetto che meritano le vittime? C’è un limite all’ironia e al sarcasmo? Qual è il confine tra satira e negazionismo o antisemitismo? Il dibattito, come si suol dire, rimane aperto.

 

I supereroi alla prova di Auschwitz

Evidentemente questa rapida rassegna non ha la pretesa di rendere conto di tutti i titoli e autori presenti nell’esposizione parigina, né tantomeno di affrontare in maniera esaustiva il rapporto tra fumetti e Shoah; ma, pur essendo costretti a tralasciare alcuni episodi anche molto significativi di questa relazione, non si potrà qui tacere almeno il nome di due giganti del grafic novel, le cui tavole sono state esposte a Parigi: Will Eisner e Osamu Tezuka. Il primo con Il complotto: la storia segreta dei Savi di Sion (Torino, Einaudi, 2005) e il secondo con La storia dei tre Adolf (Milano, Hazard, 2010) hanno dato il loro diverso ma ineludibile contributo.

Varrà invece la pena soffermarsi su una sezione particolare della mostra, dedicata all’osservazione dell’universo supereroico, dal titolo Perché i supereroi non hanno liberato Auschwitz?, dove scopriamo che esso viene mobilitato sin dal febbraio 1940, subito dopo, cioè, che Hitler e Stalin si erano spartiti la Polonia: è allora infatti che Joe Shuster e Jerry Siegel, i padri di Superman, fanno catturare i due dittatori dal loro supereroe, che rinuncia a sferrare loro «un pugno 100% non ariano nella mascella», per consegnarli alla Società delle Nazioni da cui saranno giudicati. La Shoah, come si vede, rimane decisamente sullo sfondo.

Ma questo di Superman è solo il primo intervento: pochi mesi dopo sono Jack Kirby, Joe Simon e Martin Goodman (tutti e tre di ascendenza ebraica) a lanciare un nuovo supereroe patriottico, Capitan America, all’assalto del nazismo. Siamo nel marzo del 1941 e sulla copertina del primo numero dell’albo l’eroe a stelle e strisce sferra ad Adolf Hitler quel poderoso pugno che il suo precursore aveva trattenuto. Si badi alle date: marzo 1941, gli Stati Uniti non sono ancora entrati in guerra contro la Germania, e l’integrazione degli ebrei negli USA non è ancora un fatto scontato, come mostra la limitata quota di immigrazione riservata agli ebrei d’Europa (emblematico il caso della nave “St. Louis”). E quella copertina, o forse l’origine ebraica dei suoi autori, in un altissimo numero di lettori d’oltreoceano suscitò reazioni tanto violentemente ostili che le autorità decisero di mettere la sede del giornale sotto protezione di polizia.

Nell’ottobre 1941 nasce un supereroe antinazista, The Destroyer, «il nemico dei dittatori», che sulla copertina del numero 9 di “Mystic comics” (maggio 1942) liberava dei prigionieri vittime di esperimenti medici effettuati dallo stesso Hitler e da un suo complice giapponese. Infatti, se fino al 7 dicembre 1941 in questo albo, come in “USA comics”, le trame e i personaggi erano ancora totalmente “fantastici”, dopo Pearl Harbor lo sfondo si fa nettamente più realistico e patriottico e il nuovo nemico assume sempre più spesso i tratti orientali.

Sebbene Capitan America entrasse in un campo di sterminio poche settimane dopo che l’armata rossa abbatté i cancelli di Auschwitz (“Captain America Comics”, n. 46, febbraio 1945), in questo passaggio cronologico la Shoah restò però interdetta all’intervento dei supereroi, e tale interdizione durerà fino agli anni Settanta, quando nel n.1 di “Wired world tales” (novembre 1972) un Golem gigante si anima e si vendica dei nazisti venuti per deportare gli ebrei di un villaggio dell’est Europa.

Ma sarà solo con Days of future past di Chris Claremont e John Byrne, pubblicata in “Uncanny X-men”, nn. 141-142 (gennaio-febbraio 1981) che la questione della “soluzione finale” si troverà per la prima volta al cuore del racconto supereroico. Lo stesso Magneto (un mutante in grado di generare e controllare campi magnetici, che inizialmente è un supercriminale combattuto dagli X-Men, ma successivamente diventa un loro membro ed un supereroe) accennerà di sfuggita (“Uncanny X-men”, n. 150, ottobre 1981) di essere egli stesso un sopravvissuto della Shoah, da cui fa derivare il suo odio per gli umani.

 

Quale la situazione in Italia?

La produzione fumettistica nazionale collegata alla Shoah conta un numero limitato di titoli. Ciò è probabilmente la manifestazione di una ambiguità che in Italia si registra ancora oggi nei confronti della memoria del periodo fascista, della Seconda guerra mondiale e di tante vicende ad essi collegate: il genocidio perpetrato nelle colonie africane, la pulizia etnica operata in Slovenia e Croazia (su cui, ad esempio, Davide Toffolo ha scritto L’inverno d’Italia, Bologna, Coconino Press, 2010), per non parlare della dittatura interna e delle violenze che essa perpetrò negli anni del suo dominio, né dell’appoggio di cui godette presso vasti e importanti settori (economia, casa Savoia, Chiesa).

Eppure in tutti questi casi, ed in particolare in quello della partecipazione attiva allo sterminio degli ebrei, il caso Italia si presenta particolarmente fertile, essendo essa stata dapprima nazione alleata della Germania nazista, quindi spaccata in due da una feroce guerra che fu anche civile. Ma tutta questa potenziale ricchezza di spunti è stata finora raccolta, come si diceva, da un esiguo numero autori.

In una pur rapidissima disamina quale è la nostra è inevitabile partire dal celeberrimo indagatore dell’incubo uscito dalla penna di Tiziano Sclavi, Dylan Dog, che nel n. 83 del 1° agosto 1993, Doktor Terror (Milano, Bonelli), se la vede con «il dottor Tod, la morte in persona, armato di un bisturi e di una croce uncinata tagliente come il ricordo dei campi di sterminio».

Tuttavia altri sono gli esempi più riusciti, perché provano a fare i conti con la grande complessità del tema: innanzitutto bisogna citare Walter Chendi, che nel suo La porta di Sion (Milano, Edizioni BD, 2010) mette in scena gli effetti dell’entrata in vigore delle leggi razziali, mostrando come proprio con esse fu ripristinata quella “diversità” ebraica, che il Risorgimento aveva azzerato.

Eugenio Belgrado ambienta invece il suo Torri di fumo. Una storia di Trieste (Lavieri edizioni, 2012) sullo sfondo dell’attività di sterminio nella Risiera di San Sabba e vi sottolinea come certi poteri abbiano attraversato la guerra e le sue tragedie, mantenendo sempre il proprio ruolo a prescindere dal regime vigente.

Nel racconto di Carlo Lucarelli È notte e sembra che faccia sempre più freddo, che Mauro Smocovich e Paola Camoriano hanno trasposto in fumetto all’interno della collana “Nuvole Nere” (n. 5, giugno 2012, Edizioni Star Comics), sul palcoscenico di una Venezia grigia e martoriata da violenze e ingiustizie, un commissario di polizia è chiamato a scegliere tra la vita della moglie malata e quella di una famiglia ebrea.

Si dovrà, infine, aggiungere anche questo: come per i fumetti, sebbene molto lentamente, anche dal punto di vista della sistemazione teorica della materia in Italia si stanno facendo piccoli passi avanti, come ci mostra il volume Le strisce dei lager: la shoà e i fumetti, di Raffaele Mantegazza e Brunetto Salvarani (Milano, Unicopli, 2000) o il ricco sito Lo spazio bianco, che al tema ha dedicato alcuni pregevoli speciali (www.lospaziobianco.it/memoria-fumetto-tragedia-shoah/).

Per capire appieno la novità di questi contributi, andrà rimarcato il deficit di attenzione di cui ha goduto il tema negli studi specifici: si pensi, per fare solo un esempio ma assolutamente illuminante, che il secondo dei due voluminosi tomi di Storia della Shoah (La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, a cura di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso, Torino, UTET, 2006), che pure presenta documentati saggi dedicati a come le varie arti (il cinema, la fotografia, la pittura, la scultura) abbiano affrontato il tema dello sterminio degli ebrei in Europa, in tutto il suo apparato storiografico e critico contempla il fumetto solo in un breve passaggio: quando Marianne Hirsch (Immagini che sopravvivono: le fotografie dell’Olocausto e la post-memoria, in Storia della Shoah, cit., III. Riflessioni, luoghi e politiche della memoria, pp. 384-421) alle pp. 389-394 cita Maus quale ispiratore del concetto di «post-memoria».

 

Relazioni pericolose?

Dunque, come si diceva all’inizio, la mostra parigina oltre che ricostruire la storia di una relazione, costituisce anche un’utile occasione per ripensare al tema più generale della rappresentabilità della Shoah in un’epoca in cui la trasmissione della sua memoria è fagocitata dalla totalizzante società mediatica, assumendone alcuni dei caratteri principali quali la banalizzazione dei contenuti e la tendenza alla spettacolarizzazione; tanto che alcuni studiosi che di questo si sono occupati hanno coniato l’espressione di «pop Shoah» (Pop shoah? Immaginari del genocidio ebraico, a cura di Francesca R. Recchia Luciani e Claudio Vercelli, Genova, Il melangolo, 2016. Ma sul tema si veda anche G. Vitiello, Il testimone immaginario. Auschwitz, il cinema e la cultura pop, Santa Maria Capua Vetere, Ipermedium, 2011).

Tale “spettacolarizzazione” cozza però con l’idea dell’unicità di Auschwitz, che ha condotto in alcuni casi ad una sua “sacralizzazione”, il cui corollario è la tendenza a vedere in ogni rappresentazione “finzionale” del tema il rischio di un suo inevitabile svuotamento (celebre ed efficace, al riguardo, l’affermazione di Elie Wiesel: «Un romanzo su Auschwitz o non è un romanzo, o non è su Auschwitz»). E il fumetto, per la sua natura e la sua storia, è stato la vittima più facile di questa impostazione.

Disposta tra questi due divergenti corni del problema, la situazione del fumetto, pur tra maggiori lentezze e fatica, sta cambiando, e, come è avvenuto per le altre arti, anche a questo medium comincia ad essere riconosciuta la capacità di raccontare la Shoah con efficacia e sensibilità rappresentative. Esso anzi, proprio per la sua natura e la sua storia, ha le potenzialità per arrivare ad un pubblico nuovo, che, in un’epoca che sta vedendo la scomparsa degli ultimi testimoni, deve trovare strategie comunicative differenti da quelle tradizionalmente usate.

Certamente il cammino è ancora lungo, ma si profila una nuova generazione di autori, che, potendo appoggiarsi sulle spalle di giganti del grafic novel e fondandosi su una più matura conoscenza storica (almeno nel senso dell’acquisizione della sua problematica complessità), può affrontare questo snodo con le carte in regola per sfidare quell’estetica “pop” (o peggio revisionista e negazionista) che rischia sempre di trascinare la rappresentazione artistica della Shoah verso la sua banalizzazione e il suo svuotamento, e, viceversa, sfruttare tutte le potenzialità del medium per trasmettere la complessità del tema soprattutto a nuove generazioni che hanno maggiore familiarità con le immagini che con la saggistica.