Dal 12 ottobre al 19 novembre 2017 Bologna ha ospitato la terza edizione di “Foto/Industria”, biennale di fotografia contemporanea organizzata dal MAST (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), una fondazione privata presieduta dall’imprenditrice e filantropa Isabella Seragnoli, la cui vocazione principale è quella di favorire lo sviluppo della creatività e dell’imprenditorialità tra le giovani generazioni e, in questo modo, la crescita economica e sociale del territorio.
Inaugurato nel 2013, il MAST si presenta come un centro polifunzionale e spazio espositivo, al cui interno si trovano un auditorium, una academy, un asilo nido, un centro wellness, un ristorante e una caffetteria; all’esterno un parco delle sculture con pezzi monumentali di Olafur Eliasson, Anish Kapoor, Arnaldo Pomodoro, Mark Di Suvero. Proprio in concomitanza con la sua apertura, nell’ottobre 2013, la Fondazione MAST propose la prima edizione di “Foto/Industria”, intitolata Impresa, lavoro e curata da François Hébel (già direttore dei “Rencontres internationales de la photographie” d’Arles e dell’agenzia Magnum). A due anni di distanza, la seconda edizione del 2015 si concentrò sulla filiera della produzione, dalla creazione al riciclo: 12 capitoli che riunivano le 12 mostre in programma nelle sedi del centro storico di Bologna.
Foto/Industria 2017
L’edizione di quest’anno si componeva di 14 mostre di altissimo livello, sparse in altrettanti luoghi della città, dove sono state esposte opere di protagonisti della scena fotografica mondiale: Alexander Rodchenko, Josef Koudelka, Thomas Ruff, Yukichi Watabe, Lee Friedlander, Joan Fontcuberta, Carlo Valsecchi, Michele Borzoni, Mimmo Jodice, The Walther Collection (The making of Lynch, Mitch Epstein), John Myers, Marten Lange, Vincent Fournier, Mathieu Bernard-Reymond.
Il tema è stato Etica ed estetica al lavoro, declinato dal curatore François Hébel in diverse accezioni: da una parte l’aspetto centrale del lavoro che crea, trasforma, distrugge (e che i fotografi documentano ognuno attraverso il proprio stile); dall’altra il suo confronto con la finzione prodotta dall’arte (nel caso di specie la fotografia), che riesce comunque a rappresentare l’aspetto estetico del lavoro, anche quando ne documenta gli elementi problematici se non addirittura drammatici.
Sebbene le 14 esposizioni fossero tutte di grandissima qualità, tale da meritare ciascuna una recensione specifica (bellissima quella di Mimmo Jodice sul lavoro minorile a Napoli negli anni ’70), tuttavia è su quella di Josef Koudelka che soffermerò la mia attenzione, per la singolare forza di questo artista e di questo suo lavoro in particolare, che, pur risalendo ormai ad alcuni anni fa, continua a interpellare con urgenza il tempo presente e in qualche modo anche quello futuro.
Josef Koudelka
Nato a Boskovice (Repubblica Ceca) nel 1938, Koudelka conseguì la laurea presso l’Università tecnica di Praga (1961), e in seguito lavorò come ingegnere aeronautico a Praga e Bratislava. Contemporaneamente, però, coltivava anche la sua passione per la fotografia, tanto che nel 1967 decise di rinunciare alla carriera di ingegnere per dedicarsi completamente alla fotografia.
L’esplosione della sua fama si deve a una coincidenza piuttosto “fortunosa”: Koudelka era rientrato a Praga da un viaggio per un servizio fotografico sugli zingari della Romania, appena due giorni prima dell’invasione sovietica, nell’agosto 1968. Svegliato da una telefonata si precipitò in strada mentre le forze militari del Patto di Varsavia entravano nella capitale ceca per soffocare l’esperienza riformista. I suoi negativi lasciarono Praga attraverso canali clandestini, dell’agenzia Magnum Photos, e finirono per essere pubblicati sul periodico “The Sunday Times” in maniera anonima, contrassegnati unicamente dalle iniziali «P.P.» (Prague Photographer), nel timore di rappresaglie contro di lui e la sua famiglia.
Quelle immagini divennero drammatici simboli internazionali, e nel 1969 l’«anonimo fotografo ceco» fu premiato con la Robert Capa Gold Medal dell’Overseas Press Club, per la realizzazione di fotografie che richiedevano un eccezionale coraggio. Grazie all’interessamento della Magnum presso le autorità britanniche, poté così ottenere un visto per lavoro di tre mesi con cui volò nel 1970 in Inghilterra, dove fece richiesta di asilo politico e dove nel 1971 entrò nell’agenzia fotografica Magnum Photos.
Nel 1987 è diventato cittadino francese ed è tornato in patria solo nel 1991. Oggi vive vicino Parigi, ma passa parte dell’anno nella sua casa nel centro di Praga.
Koudelka, Paesaggi industriali
Per “Foto/Industria” 2017 Koudelka ha presentato, al Museo Civico Archeologico di Bologna, per la prima volta dopo 15 anni, le magnifiche stampe delle sue panoramiche (m 3×1) di paesaggi industriali di tutta Europa (principalmente ma non solo), in una serie di immagini coinvolgenti e così profonde da sembrare tridimensionali, in cui il volto della Terra segnato (ferito?) dall’uomo si mostra con dolente evidenza.
Le foto sono visibili anche da chi ha mancato l’appuntamento bolognese attraverso il catalogo, Koudelka Industries, Éditions Xavier Barral, Paris 2017, che ha un formato grande e insolito, anche nella rilegatura, per raccogliere le 40 foto panoramiche selezionate dall’artista insieme a François Hébel, che ne cura l’introduzione (solo in francese e in inglese).
Quelli esposti sono principalmente scatti su paesaggi industriali, realizzati da Koudelka tra il 1986 e il 2010, per la DATAR (Délégation interministérielle à l’Aménagement du Territoire et à l’Attractivité Régionale), alla Transmanche, e per l’acciaieria Usinor/Sollac.
La Mission photographique Transmanche era nata per documentare, attraverso l’opera di numerosi fotografi, «il paesaggio francese degli anni ’80» e in particolare le trasformazioni provocate dal «cantiere del secolo», quello del tunnel sotto la Manica, e delle ripercussioni di quel progetto sul territorio. A partire dagli anni Settanta, infatti, quando l’euforia dello sviluppo industriale e sociale andava lasciando il posto a una nuova preoccupazione per l’ambiente, in Europa si sviluppò una ricca riflessione interdisciplinare intorno alla nozione di paesaggio e alla identità dei territori, che è stata in qualche modo recepita da quel progetto francese. È proprio nel paesaggio che si rende visibile la stratificata complessità dei cambiamenti in atto, ed è lì che si manifestano con grande evidenza i segni delle trasformazioni, tanto spaziali quanto temporali, del rapporto dell’uomo col suo ambiente («vera figura della storia» lo ha definito Jules Michelet). Nasceva, allora, un’idea di paesaggio come sintomo, come pratica dello spazio e costruzione culturale insieme.
La sua osservazione è diventata, così, appannaggio di discipline diverse tra loro (storia, filosofia, etnologia, ecologia, estetica), che hanno contribuito ad arricchirne la definizione e la nozione stessa, secondo direzioni distinte ma complementari. Il paesaggio, da allora, viene inteso anche come una rappresentazione culturale, un territorio prodotto da una società in un tempo e uno spazio dati; un sistema biofisico e sociale insieme. E il lavoro di Koudelka, Paesaggi industriali, si inscrive in questa linea di riflessione: l’artista, infatti, si incarica di rendere meglio intellegibile la percezione del territorio, delle sue trasformazioni ambientali, storiche e culturali, attraverso le immagini realizzate, che, sganciandosi dalla loro immediata referenzialità, diventano una metafora o un’epitome dell’intera modernità occidentale.
Le immagini di Koudelka, “spettacolari” in senso etimologico, offrono una testimonianza dei più grandi cantieri umani (industrie, cave, miniere), portando lo sguardo dello spettatore in aree sconosciute o inaccessibili, sospese tra l’armonia e il disordine, il sublime e l’orribile; in bilico tra l’attimo che precede e quello che segue una catastrofe. Le didascalie ci dicono di volta in volta dove siamo (Belgio, Francia, Cecoslovacchia, Italia, USA, Germania, Azerbaigian, Brasile), ma il loro rapporto con le immagini continuerebbe a funzionare anche se le scambiassimo. Nulla, infatti, in ciò che vediamo, certifica di essere di fronte a un panorama francese, tedesco, ceco o altro, come a ricordarci che un effetto specifico dell’industrializzazione è anche una globalizzazione del paesaggio, la produzione di un assoluto (letteralmente) spaesamento, la riduzione di ogni luogo a un unico universale non-luogo.
Colpisce in esse la quasi totale assenza della figura umana, la prevalenza del campo lungo o lunghissimo, l’uso esclusivo di un bianco e nero elegante ed espressionista, a volte definito con una pienezza raggelante, altre sgranato in una pasta grossa, quasi sfuocata e calda. A guardarle vengono in mente molti dystopian movies che hanno immaginato società post apocalittiche, primo tra tutti The road, tratto dal capolavoro di Cormac McCarthy.
Le immagini mettono lo spettatore di fronte all’ambivalenza dello sviluppo e del lavoro umano: da un lato la reverente meraviglia per l’arditezza ingegneristica di certe costruzioni, colte in una loro bellezza astratta e surreale; dall’altro l’angoscia per quello svuotamento prodotto nello spazio, per il lascito catastrofico conseguente allo sfruttamento sconsiderato di suolo e risorse. L’attenzione dell’Autore a questa ambiguità riporta inoltre lo spettatore ad aspetti dello sviluppo, che, oggi più che un tempo, tendiamo a occultare: nascosti dietro la luminosa lucentezza dei moderni oggetti elettronici, dietro la loro immaterialità e virtualità – sembra dirci l’Autore – ci sono pur sempre questa terra, questo fango, questo sforzo e questa violenza.
Ma l’obiettivo di Koudelka sembra produrre i suoi scatti da un punto prospettico che si trova al di là del bene o del male: i suoi non sono reportages di denuncia in senso esplicito. Le sue immagini ci dicono: «è così»; ma quello che mostrano non ci lascia tranquilli sul nostro futuro; ci schiaccia di fronte alla paralizzante constatazione di come lo sviluppo umano sia capace di imprese titaniche, e al tempo stesso di quanto poco abbia fatto i conti con le conseguenze innescate, con il lascito di squilibri e ferite che consegna irrisolte alle generazioni future.
In questo contesto espressivo e tematico l’immagine del muro costruito da Israele in Cisgiordania costituisce, nella sua apparente “eccentricità”, la sintesi più efficace della riflessione prodotta dal fotografo praghese nell’esposizione: oltre al suo valore storico-politico specifico, infatti, quel muro rappresenta la cancellazione di ogni paesaggio, ne costituisce il più completo accecamento, esattamente come l’omologazione storica e visiva che l’industrializzazione ha prodotto ovunque su paesaggi che prima caratterizzavano un luogo e un tempo ben precisi. Non per niente Koudelka ha definito quel muro (ma potremmo dire lo stesso di ogni altro muro che si va erigendo o si ha intenzione di erigere) «un crimine contro il paesaggio».
La fotografia del maestro ceco, assolve così al compito proprio di ogni grande opera d’arte: raccontare con una forma compiuta e per così dire “pacificata”, le grandi questioni del suo tempo, riuscendo però a trasformarle in questioni di ogni tempo (in questo caso la relazione tra uomo e territorio, società e paesaggio, sviluppo e rispetto per l’ambiente), rivelandosi, in questo, davvero capace di raccogliere il testimone dei momenti più alti della riflessione sull’ambiente e sul paesaggio, come ad esempio il Rapporto del 1972 del Club di Roma e delle questioni lì messe per la prima volta in agenda pubblica, ma alle quali la politica (lato sensu) sembra ancor oggi lontana dal saper dare risposte, che invece si fanno sempre più urgenti e ci chiamano sempre più da vicino.