Il Diana è il ristorante bolognese per antonomasia. Chi passi per via Indipendenza all’altezza delle garibaldine via Volturno e via Marsala lo ritrova tale e quale com’era decenni fa: in vetrina una grande mortadella Alcisa e un gagliardetto del Bologna calcio; in un angolo il manifesto con la programmazione settimanale dei cinema, familiare ai bolognesi non più giovanissimi e ormai desueto altrove. L’interno, del resto ben visibile dalle ampie vetrine sulla strada, emana un irresistibile charme d’antan. Alieno tanto a mode minimaliste e postmoderne quanto al vintage ora in voga, il Diana ha mantenuto un vecchio orologio tondo appeso al soffitto, una divisa bianca per i camerieri elegante senz’altro, ma reperibile in passato in qualunque decoroso bar pasticceria di provincia, dignitose sedie in paglia e acciaio di design industriale da boom economico e un gran numero di fotografie con ospiti illustri alle pareti. Pupi Avati, Alberto Sordi, Michael Schumacher con Jean Todt e vari politici del campo moderato: Giulio Andreotti, Giorgio Guazzaloca, Pierferdinando Casini, Oscar Luigi Scalfaro; unica eccezione Sandro Pertini, grande personaggio nazional-popolare, in ogni caso ospite del ristorante in veste istituzionale. Altre celebrità più o meno autoctone viste spesso al Diana sono Luca Cordero di Montezemolo, Stefano Bonaga in compagnia di Alba Parietti e Giuseppe Gazzoni Frascara, ex presidente del Bologna che il 30 maggio del 1999 venne aggredito mentre cenava da un gruppo di tifosi inferociti armati di kiwi, uno dei pochissimi episodi che abbiano turbato la secolare quiete del tempio culinario petroniano.
Tutto ricorda, insomma, che ci si trova nel ristorante di quella buona borghesia benestante sì, ma, almeno un tempo, sobria e soprattutto amante di un’ottima cucina tradizionale di sostanza. Sotto questo aspetto, una visita gastronomica al Diana è ancora un’esperienza di assoluto rilievo. Tutta la cucina bolognese è presentata al livello più alto. Il brodo, molto saporito, ma al punto giusto, si sposa con passatelli, tagliolini, tortellini eccezionali. Per quanto riguarda i secondi, il ristorante è uno dei pochissimi locali in città (ma attenzione allo straordinario Bertino in via Lame) a offrire due sontuosi carrelli di arrosti e bolliti tagliati al momento davanti al cliente. Questi ultimi – lingua, cotechino, pollo e manzo – sono serviti con una deliziosa salsa verde poco liquida che molto ricorda quella raccomandata dall’Artusi al numero 119: composto grezzo “stiacciato colla lama di un coltello”. È possibile abbinare al bollito anche la tradizionale mostarda, frutta candita alla senape, dal sapore tuttavia un po’ stucchevole per chi scrive. I dolci sono tutti grandi classici; ne segnalo due in particolare: una straordinaria torta di riso e un gelato alla crema fait maison dal sapore d’uovo, che il cameriere porta direttamente in un grande cilindro d’acciaio e che può venire condito da una salsa ai frutti di bosco conservata in un vecchio vaso di porcellana bianco e blu dell’amarena Fabbri. Per i vini, vengono proposte in prima istanza le glorie locali trebbiano, sangiovese e lambrusco (i primi due sono della casa) o, in subordine, altre ottime etichette italiane, ma non di impatto mediatico e senza esibizione di scomodi e cafonissimi calici sovradimensionati.
L’ortodossia culinaria bolognese e un contesto tradizionale a tratti quasi gozzaniano sono mitigati dal menù del giorno che si estende a pietanze di altri contesti regionali e dalla presenza di una clientela internazionale: turisti arabi che spaventati dall’onnipresenza del maiale ordinano solo un dolce e businessman cinesi entusiasti del cotechino – efficace strumento di soft power – che concludono affari con la controparte locale. Il conto – 60 euro per un pasto completo – non permette certo a uno stipendio medio italiano delle visite regolari, ma è tutt’altro che esagerato specialmente se confrontato con l’offerta di altri locali. Dispiace a questo proposito dover constatare come un altro indirizzo storico della cucina bolognese, di cui non si farà il nome per carità di patria, abbia rinnegato il proprio glorioso passato e si sia convertito a una cucina ordinaria con l’ostentazione nel menù di una farinettiana tagliata di fassona e di un patetico tentativo di bollito rivisitato la cui sola presentazione fotografica mette i brividi.
L’atmosfera del Diana è stata il quadro perfetto di un episodio che pare scritto apposta e che invece vi si è svolto realmente alcuni anni fa. Nel 2001 “Il Cinema ritrovato” invitò a Bologna Maria Denis, nome d’arte di Maria Esther Beomonte, celeberrima attrice italo-argentina degli anni ’30 e 40’. Graziosissima ed elegante, fu una diva in quella produzione che viene ricordata, con una punta di disprezzo estetico e politico, come cinema “dei telefoni bianchi”. Il suo viso acqua e sapone e i suoi modi garbati le valsero diversi ruoli comico-romantici. “La diva fatta in casa” la definì Steno, “come la marmellata, le mele cotogne, l’album di fotografie, l’odore di lavanda nel cassetto della nonna”.
Fu negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale che le sue vicende personali si intrecciarono con la politica. In quel periodo, la Denis conobbe a Roma Luchino Visconti per cui provò una forte attrazione, ricambiata soltanto da un’amicizia affettuosa. L’impegno del grande regista nella Resistenza lo portò alla cattura da parte della famigerata banda Koch e la Denis, utilizzando il fascino che esercitava sul sadico torturatore, riuscì a metterlo in salvo. I contatti con Pietro Koch, però, le procurarono sospetti che ebbero come effetto una detenzione di due settimane e un processo da cui venne assolta con formula piena, ma che le lasciò addosso lo stigma di collaborazionista. Visconti la difese con reticenza e scarsa convinzione e interruppe ogni rapporto con lei. Amareggiata, la Denis condusse una tranquilla e agiata esistenza in una villa sull’Appia antica fino al 1995 quando pubblicò Il gioco della verità, una diva nella Roma del 1943 edito da Baldini e Castoldi, in cui raccontò quegli eventi drammatici, e riprese a girare l’Italia invitata a ripercorrere il suo lontano successo fino a giungere, appunto, a Bologna nel 2001.
L’ex attrice, ormai ultraottantenne, da qualche anno aveva intrattenuto una corrispondenza epistolare con un suo coetaneo e vecchio ammiratore, fiumano di nascita e bolognese d’adozione che non l’aveva dimenticata. In occasione della manifestazione a Bologna lui, che non l’aveva mai incontrata di persona, le chiese se poteva avere l’onore di pranzare insieme a lei e la invitò proprio al Diana, rimasto immutato negli anni come la stima nei suoi confronti. La Denis accettò, venne dal vicino Hotel Baglioni in cui era ospitata e si intrattenne piacevolmente con l’anziano estimatore e la sua giovane nipote a cui rimasero poi un bellissimo ricordo e una copia autografata del libro.
La sera dello stesso giorno, dopo la proiezione, la cineteca di Bologna le offrì una cena sempre al Diana che l’attrice non poté rifiutare. Sicuramente deve essersi accostata con molta parsimonia una seconda volta alle generose pietanze già provate al mattino: la grassa cucina bolognese, così come alcune pericolose conoscenze, va avvicinata con estrema cautela.