Nei piccoli paesi, specie in Appennino, può forse nascondersi ancora la memoria di persone strane, ma non per forza “folli”, memorabili in senso lato, vissute in tempi più o meno recenti; insomma dei “personaggi” (concreti o leggendari poco importa) che hanno fatto a loro modo la storia di un posto.
Qui non si vuole allestire l’ennesimo (e alla fine noioso) Repertorio dei matti della città di… Si tratta invece di cogliere, attraverso alcuni di questi possibili personaggi, attraverso le loro vite minuscole1, da eccentrici2 modesti e involontari, aspetti di una vita che è scomparsa o che è comunque prossima a scomparire. Non si intende coltivare la nostalgia, né fare alcuna lode alla vecchia Italia da Strapaese. Ci si dedicherà spesso a vite infami3, e, in particolare, alle loro biografie scritte da istituzioni assistenziali e/o repressive, e conservate oggi in un archivio.
Cominciamo con una storia molto dolorosa. Come scriveva anni fa Gabriel Le Bras, nulla più di un campanile caratterizza l’immagine stessa di un paese4. E oggi, in paesi svuotati di persone (e di anime), proprio i campanili sono l’ultimo segno visibile di comunità ormai disperse. Le parrocchie e i curati d’anime hanno sempre avuto un ruolo essenziale nella vita di paese. Vere autorità, in molti casi erano gli unici intermediari fra il singolo e poteri troppo forti o sideralmente lontani. Ma cosa accadeva quando il parroco “si perdeva”? Quando, con tutto lo scandalo inevitabile, questi cadeva nel vizio o nel crimine o, soprattutto, nella follia?
Me ne sto occupando da tempo. Esistevano ragioni speciali, particolari perché un sacerdote finisse per ammalarsi di nervi o di mente? Cause legate al suo ministero, al suo ruolo, al suo stile di vita? Dai casi che ho studiato sinora – una quarantina fra sacerdoti e religiosi ricoverati in un ospedale psichiatrico fra gli anni Settanta dell’Ottocento e gli anni Quaranta del secolo successivo e provenienti soprattutto dalle diocesi emiliano-romagnole – emergono due elementi prevalenti: da un lato, l’abuso di alcolici; dall’altro, un profondo senso di abbandono e di isolamento rispetto alla comunità in cui lo stesso sacerdote era chiamato a vivere e agire. Isolamento e abbandono che erano legati molto spesso a una profonda sfiducia verso le proprie capacità come pastori ed erano spesso alimentati da dubbi spietati su come i parrocchiani giudicassero il proprio operato e la propria moralità.
Veniamo al caso che ci interessa da vicino e che è rappresentativo per tanti versi di molti altri di cui qui non possiamo occuparci. La cartella clinica di don Luigi R. è complessa e racconta di una lunga “carriera” di internamenti in manicomio. È conservata presso l’Archivio storico dell’ex ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia5. Questo sacerdote fu ricoverato per ben cinque volte in quell’istituto, fra il 1927 e il 1938. Don Luigi era nato il 22 febbraio 1871 a Villa Minozzo, un comune dell’alto Appennino reggiano. Fu quindi ricoverato per la prima volta quando aveva già 56 anni compiuti. E sempre da internato in quel manicomio, egli morì, il 26 agosto 1946, per «marasma senile».
I documenti riferiti alla prima ammissione in manicomio ci dicono che il nostro sacerdote proveniva allora da Prignano, un paese sulle colline modenesi ma appartenente alla diocesi di Reggio Emilia. Si trattò di un ricovero breve, di pochi mesi (da maggio ad agosto del 1927). Fra i dati anamnestici raccolti dai medici, due elementi spiccano: «È stato forte bevitore sino all’agosto ’26. Dall’ottobre 1916 al maggio 1923 attraversò una fase di depressione. Allora non beveva. Temeva di essere dannato, manifestava idee deliranti di persecuzione, vedeva “fantasmi”, passava notti insonni ed agitate»6. Oltre all’alcoolismo, il timore patologico della dannazione, ed anzi la certezza disperante di aver l’anima irrimediabilmente perduta, è un aspetto che appare di frequente nelle storie cliniche di sacerdoti ricoverati per disturbi psichici. Già a maggio del 1926 don Luigi era stato sospeso a divinis, per la sua condotta irregolare e per lo scandalo che inevitabilmente ne era venuto. L’allora vescovo di Reggio, monsignor Eduardo Brettoni, inviò al direttore del “San Lazzaro” una lettera in cui faceva una richiesta particolare:
La ringrazio di avermi gentilmente comunicato la notizia sull’internamento del sac. R. Luigi in codesto Frenocomio. Egli non era parroco a Pigneto, anzi non aveva alcun ufficio, essendone da tempo incapace per alcoolismo. Il parroco di Pigneto, suo parente, lo aveva ricevuto in casa da qualche tempo per tentare di farlo correggere; ma tutto è stato inutile. Sarò grato alla S.V. Ill.ma se, mentre rimane a San Lazzaro, sarà fatto vestire con abiti secolari7.
Il primo ricovero, si diceva, fu breve. Don Luigi uscì perché migliorato e venne consegnato («in prova») all’arciprete di San Maurizio (la chiesa parrocchiale del “San Lazzaro”). Ma ancora più breve fu il periodo di esperimento fuori dal manicomio. Già il 1° settembre di quell’anno egli doveva essere nuovamente ammesso: anche in questo caso la diagnosi stabilita per lui fu di «frenosi maniaco-depressiva ed alcoolismo». Assieme alla dipendenza da vino e liquori, il paziente mostrava dunque i segni di quello che oggi viene definito “disturbo bipolare”, alternando fasi transitorie di eccitazione ad altre di depressione. Questo secondo ricovero fu più lungo: durò circa un anno e tre mesi. La nuova dimissione, ancora per accertato miglioramento, avvenne il 4 dicembre del 1928 con la consegna del malato a uno dei suoi fratelli.
Passarono circa quattro anni prima che don Luigi, nel frattempo stabilitosi in una parrocchia di Rio Saliceto (nella bassa reggiana), dove era curato, avesse una ricaduta tale da portarlo di nuovo in manicomio e nuovamente emergessero chiari i suoi gravi problemi di alcoolismo. Il suo comportamento in pubblico era sicuramente poco adatto alla sua condizione di sacerdote:
È recidivo per la III volta. È un soggetto di robusta costituzione fisica dal visto congesto. L’espressione fisionomica è improntata ad esagerato benessere. Si mostra eccitato, parla in modo concitato magnificando le sue ottime qualità morali di sacerdote ed inveendo con epiteti poco corretti contro gli altri preti. È euforico, ha un esagerato concetto della propria personalità, dice di essere un perfetto creatore, di possedere un’intelligenza non comune e di essere in grado di compiere miracoli8.
Questo nuovo internamento, durato meno di tre anni fino al 6 giugno 1935, non risolse nulla: don Luigi anzi rientrò pochi mesi dopo per un quarto ricovero (dal 17 settembre 1935 al 28 febbraio 1936). Il nostro sacerdote era ormai un uomo anziano, vittima dell’alcoolismo cronico e che, ormai, aveva perso definitivamente la possibilità di esercitare il ministero sacerdotale: «Dice che poco dopo che era stato dimesso, ha cominciato nuovamente a bere, ed è diventato euforico. Presentemente bestemmia, non si occupa affatto di pratiche religiose»9.
Gli psichiatri reggiani insistono in più occasioni sul fatto che don Luigi non fosse certo pericoloso, ma sicuramente «di scandalo». Ad esempio, nella risposta alla lettera del parroco di Rio Saliceto, con cui don Luigi aveva vissuto dal 1928 al 1932 e che si diceva disponibile a prenderlo con sé una volta dimesso, leggiamo:
24 gennaio 1936 – XIII. Reverendo Signore, Le sconsiglio vivamente di riprendere con sé don R. Egli non sta psichicamente bene e presenta fasi durante le quali potrebbe essere di scandalo. Con osservanza, il Direttore10.
L’ultimo internamento di don Luigi fu il più lungo, dal 1938 al 1946, ed è quello sul quale abbiamo a disposizione più informazioni. Negli ultimi tempi prima del ricovero, il sacerdote era divenuto molto agitato e litigioso; era «di pubblico scandalo, con atti osceni ed inconsueti»11 ed era stato nuovamente sospeso dal vescovo. Aveva inoltre iniziato a discutere con i propri parenti a proposito di una eredità, mostrando anche di avere chiare idee di persecuzione. La stessa convivenza in famiglia doveva essersi fatta sempre più difficile:
Il malato parla con facilità e racconta delle sue disavventure famigliari; dice per di essere contento della soluzione avuta, cioè del suo ingresso nell’Istituto perché qui è tranquillo e può riposare, contrariamente a quanto gli permettevano i fratelli coi quali era continuamente in lite. Nell’Istituto si è subito ben ambientato, vive in compagnia, scherza, ride, parla con tutti. Scrive continuamente lettere da cui si può ben vedere l’attuale suo stato mentale12.
Oggi possiamo leggere almeno alcune di quelle lettere, perché esse (come era normale in un ospedale psichiatrico) non erano sempre spedite ai destinatari, ma spesso venivano conservate in cartella come materiale clinico. Don Luigi scriveva ai familiari anzitutto, come è logico, ma anche al parroco con cui aveva collaborato un tempo a Rio Saliceto. Scrisse anche al suo vescovo: proprio la lettera del 16 agosto 1938 indirizzata a monsignor Brettoni ci interessa particolarmente e crediamo che meriti, nonostante la non facile lettura, una lunga citazione:
Mi dispiace inoltre di ripetere all’Eccellenza Vostra Rev.ma che fu un grave errore quello di togliermi la facoltà di celebrare e di ascoltare le confessioni dei fedeli; prime armi del vero sacerdote, quale io credo di essere anche se qualche volta avessi dato nell’occhio a qualche individuo compiacente dei piccoli disordini da me commessi e dolente invece per non potermi accusare di delitti maggiori quali di sovente ne succedono perfino non solo a chi si trova nelle mie condizioni di prete semplice, ma invece pur troppo di frequente l’Eccellenza Vostra Rev.ma deve lamentare in individui consacrati e perfino in Parroci, Rettori, Priori, Prevosti, Arcipreti e Canonici e quel che è peggio Missionari Diocesani che si vantano perfetti, mentre invece sono addirittura lupi rapaci che predicano loro stessi senza punto cercare il bene delle anime alle loro cure affidate. I vizi capitali di noi disgraziati sacerdoti si riducono a tre e sono come Ella meglio di me sa: 1° il vizio o meglio l’attitudine al bere vino e vino molto alcoolico. 2° la sessualità e quel che è peggio il commercio con persone di sesso diverso e persino con spose e cognate. 3° la poca carità che moltissimi dei parroci anno coi loro sudditi e l’egoismo al denaro13.
Queste sono parole con cui don Luigi chiede di essere inviato nuovamente in una parrocchia, cercando al contempo di giustificare la propria condotta indicando i vizi a suo dire diffusi pressoché ovunque nel clero. Questa lettera non ebbe ovviamente risposta. Invece rispose al nostro prete un parrocchiano di Rio Saliceto, che doveva avere un buon ricordo di quel curato. Don Luigi aveva anche degli estimatori, che si ricordavano di lui e lo aiutavano:
A riguardo poi del denaro ch’ella raccomanda nella sua lettera ne feci consapevole il Signor Prevosto senza però fargli vedere la lettera per ragione del contenuto e mi disse d’averle spedito una ventina di lire che spero le abbia ricevute dopo d’avermi spedita la sua lettera, sabato poi mi à detto d’essere stato a trovarlo e che ella si lagnava di me per non aver ricevuto nessuna risposta ma io non le do torto speravo anzi di poter venire invece di scrivere. Per ora termino queste misere parole inviandole di cuore i più leali auguri per tutto l’avvenire tanti saluti dai miei fratelli e tante altre persone di Rio che mi domandano continuamente di lei. Quando vado in chiesa guardando il confessionale mi par di vederlo uscire da un momento all’altro, ma invece ora ce [sic] un curatino piccolo magrino e giovanetto14.
L’ultimo ricovero fu così lungo perché i familiari di don Luigi si rifiutarono sostanzialmente di riaccoglierlo in casa a Cerré Sologno, una frazione di Villa Minozzo. Da una loro lettera del 20 settembre 1939 al direttore del “San Lazzaro” leggiamo:
Noi sottoscritti R. Domenico e Carlo vi siamo molto riconoscenti per le buone notizie riguardanti il nostro caro fratello ricoverato don Luigi R. Riguardo al dimettere almeno provvisoriamente don Luigi R. noi dichiariamo che saremo ben felici di vedere nostro fratello libero e sano ma ci dispiace dover dichiarare che nessuno di noi è in grado di mantenere o vigilare don Luigi perché Tommaso [un altro fratello del prete] è morto lasciando ai figli il compito di pagare i debiti e sistemare la propria posizione, l’altro fratello Domenico da un anno si trova a letto impotente forse anche in conseguenza dei dispiaceri provati per la disgrazia di don Luigi, Carlo abbandona molto la casa perché pastore e non ha in famiglia persone abili a sostituirlo nella cura di don Luigi. Inoltre don Luigi, in causa delle ripetute cadute, non potrà essere riabilitato a celebrare la S. Messa ed esercitare il Ministero, le entrate nette della terra che spetterebbe a don Luigi sono inferiori circa della metà alle lire quattro giornaliere che noi paghiamo e quindi non si potrebbe nemmeno sistemare don Luigi in una casa sua propria giacché non potrebbe lavorare la propria terra e industriarsi fuori di casa come facciamo noi15.
Dello stesso tenore sono le (poche) lettere che i nipoti fecero pervenire allo zio prete: non era possibile per loro venirlo a prendere, né venirlo a trovare e nemmeno fargli avere del denaro; i problemi familiari (di salute ed economici) non lo permettevano.
Don Luigi, però, non demordeva. Continuava a chiedere aiuto, affermando di essere ormai ridotto alla fame e del tutto abbandonato a se stesso: «Carissima e dilettissima nipote, di salute io sto benissimo ma non altro che quella perché il cibo che danno qui è molto scarso e mi tocca patire una fame da lupo non riuscendo mai e poi mai a sfamarmi […]. Sono 5 anni quando arriveremo al 5 agosto prossimo venturo che mi trovo qui rinchiuso e nessuno delle nostre tre famiglie mi viene mai e poi mai a vedere»16. Pur essendo sempre descritto nei documenti come di condizione «benestante» o «possidente», in effetti don Luigi era sempre stato ricoverato in quarta classe, ossia fra i degenti più poveri, per i quali la qualità dell’assistenza (e del vitto in primo luogo) era la più modesta. Ancora nel 1942, quando la guerra stava peggiorando ulteriormente le condizioni di vita negli ospedali psichiatrici, don Luigi chiedeva aiuto, ma sempre invano, scrivendo a tutti i suoi conoscenti, come dimostra questa lettera: «Illustrissimo Signor Direttore, il ricoverato al manicomio don Luigi R. non fa altro che scrivere e tormentare tanto il sottoscritto come la sua famiglia perché vuole uscire da quel luogo. […] So però che nessuno dei suoi parenti ne vuol sapere perciò presso chi andrà? Io l’ho avuto sei anni e ne ho avuto abbastanza»17.
Note
1 Cfr. Pierre Michon, Vite minuscole, Milano, Adelphi, 2016.
2 Cfr. Geminello Alvi, Eccentrici, Milano, Adelphi, 2015.
3 Cfr. Michel Foucault, La vita degli uomini infami, Bologna, Il Mulino, 2009.
4 Cfr. Gabriel Le Bras, La chiesa e il villaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1979.
5 Sulla storia del “San Lazzaro”, cfr. in particolare Il cerchio del contagio. Il S. Lazzaro tra lebbra, povertà e follia 1178-1980, Reggio Emilia, Istituti Neuropsichiatrici S. Lazzaro, 1980; Riccardo Panattoni (a cura di), Lo sguardo psichiatrico. Studi e materiali dalle cartelle cliniche tra Otto e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 2009; Valeria Pezzi, Il San Lazzaro negli anni del regime (1920-1945), in Regime e società civile a Reggio Emilia 1920-1946, Reggio Emilia, Biblioteca A. Panizzi, 1987. Nella foto che apre questo articolo, l’ingresso del Frenocomio in uno scatto del 1899-1900 (Foto Fantuzzi, Archivio dell’ex ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia).
6 Archivio storico dell’ex ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, Cartella clinica di don Luigi R., dimissione del 20 agosto 1927, Anamnesi.
7 Ivi, Lettera di monsignor Eduardo Brettoni al Direttore del “San Lazzaro”, 19 maggio 1927, corsivo nostro.
8 Ivi, dimissione del 6 giugno 1935, Esame psichico, 5 ottobre 1935.
9 Ivi, dimissione del 28 febbraio 1936, Esame psichico, 21 novembre 1935, corsivo nostro.
10 Ivi, Lettera del Direttore del “San Lazzaro” a don Marino Roccatagliati, 24 gennaio 1936.
11 Ivi, dimissione del 26 agosto 1946, Modula informativa.
12 Ivi, Esame psichico, 18 agosto 1938.
13 Ivi, Lettera di don Luigi R. a monsignor Eduardo Brettoni, 16 agosto 1938.
14 Ivi, Lettera dell’avvocato Catellani a don Luigi R., 22 agosto 1938.
15 Ivi, Lettera di Domenico e Carlo R. al Direttore del “San Lazzaro”, 20 settembre 1939.
16 Ivi, Lettera di don Luigi R. a una nipote, senza data.
17 Ivi, Lettera di Marino Roccatagliati al Direttore del “San Lazzaro”, 6 agosto 1942.