Il virus del punk a Milano (1977-1984)

Non sapevo che nel 2016 ci sarebbero stati in Inghilterra i festeggiamenti per il quarantennale del punk, me ne sono accorto a gennaio, come molti altri, per gli articoli comparsi sulla stampa britannica. In realtà di quel quarantennale non m’importava nulla, infatti ho sempre pensato che il punk sia nato qualche anno prima negli Stati Uniti, credo che il primo pezzo fu “I Wanna Be Your Dog” degli Stooges di Iggy Pop, pubblicato nel 1969. Poi sono arrivati i Ramones e nel 1976 è approdato finalmente a Londra. Ma come sappiamo il punk è sempre stato saccheggiato dagli squali dello showbiz e quindi non ci deve sorprendere questo tentativo postumo di sfruttare l’ultima onda trasgressiva, barando sulla data di nascita.

In ogni caso non c’è niente da festeggiare, il punk fu soprattutto un fragile movimento, o forse solo un’attitudine, proveniente dalle periferie delle città industriali dell’Occidente a seguito della ristrutturazione e del cambio del modello produttivo, non è un caso che gli Stooges si siano formati in un sobborgo di Detroit, centro propulsivo del sistema fordista che proprio in quegli anni iniziava a smantellare le grandi fabbriche di automobili nei dintorni. Lo slogan No future significò fondamentalmente il fatto che i figli degli operai non avrebbero potuto percorre le strade dei propri padri, tutelati dal vecchio welfare sindacale e dalla solidarietà diffusa. I punk avevano di fronte un futuro nero di precarietà e individualismo sfrenato, un futuro che oggi si è crudelmente diffuso come un cancro alle ossa. Non ci sarebbe nulla da festeggiare… D’accordo, quello slogan fu inventato a Londra, è vero, anche se la canzone “God save the queen” che contiene il No future, fu pubblicata nel 1977, per l’esattezza.

Certamente c’è da ammirare la scaltra creatività londinese, capace di intervenire con le parole giuste al momento giusto, ma vorrei ricordare che quel pezzo fu scritto da un ragazzino di origine irlandese cresciuto tra i topi di fogna da cui prese la meningite, un teppistello che non aveva voglia di fare il mestiere del padre che era un gruista sottopagato. Da quell’immondizia esistenziale nacquero dei fiori in tutte le altre parti del mondo, ma furono pochissimi, una minuscola avanguardia “smandrappata”, un urlo disperato per dire no! Una forma di negazione assoluta, nichilista a tal punto da fregarsene del consenso persino da parte degli stessi soci emarginati, una provocazione fine a se stessa senza alcuna pretesa di cambiare il mondo.

Durante gli anni Settanta il punk interpretò a suo modo un periodo nel quale avvenne una rottura storica determinante, fu una drammatica rappresentazione della sconfitta e insieme un fragilissimo anello di congiunzione tra generazioni ribelli. Tuttavia il punk nacque non soltanto dalle rovine di ciò che l’aveva preceduto (ciclo di lotte ormai esaurito, repressione dilagante, movimento in crisi), ma anche dal fermento di una trasformazione, di un nuovo processo di opposizione all’esistente, seppur con la propria peculiarità. Fu un disperato tentativo di negazione del presente e del futuro, il solitario grido contro l’omologazione e il conformismo dilagante. Dal rifiuto del ruolo di idolo da palcoscenico all’abolizione delle barriere tra chi suona e chi ascolta, nel punk si sono scatenate le più originali forme di protesta che escludono ogni progettualità riformista, e si sono moltiplicate le proposte esistenziali: dalla critica alla famiglia e a tutte le sue diramazioni borghesi si arrivò, in una selva di tragici passi indietro, a una precisa scelta antimilitarista, antisessista, anticlericale, vegetariana e comunitaria; sono tante le band, i collettivi, i gruppi di affinità che tentano di costituire etichette autogestite o che sperimentano temporanee convivenze in squat e in grandi case collettive. Il carattere insurrezionale, internazionalista ed esplicitamente anarchico ha proiettato il punk al di fuori di ogni schematizzazione artistica e temporale, esattamente come accadde per il movimento beat americano. Negli anni in cui si consumava questa rottura, il punk ha saputo lanciare dei precisi segnali che sono andati a influenzare le forme di lotta del futuro, ma anche la musica, l’editoria, la grafica, l’estetica, la poetica, il look, il concetto di identità giovanile e di tribalità sociale, la relazione fra generi e il senso di appartenenza in relazione a una scena ben definita.

Il luogo più importante per capire cosa avvenne in questa spaccatura che fece emergere un movimento di ribellione così legato all’ambiente della musica pop, è senz’altro Detroit alla fine degli anni Sessanta, la città delle grandi fabbriche automobilistiche, Ford, GM e Chrysler, la patria del vecchio modello produttivo sulla via del tramonto chiamato appunto fordista. Le due band musicali che si strinsero le mani passandosi il testimone del dissenso all’industria discografica sono originarie proprio di Detroit, anche se lo stile e l’attitudine risultarono molto diverse. Queste due band si chiamavano MC5 e Stooges. Gli MC5 lanciarono l’ultimo urlo della hippie generation radicale: “Kick out the jams, motherfuckers!!”, mentre gli Stooges, che abitavano in una casa-comune del tutto simile a quella vicina degli stessi MC5, composero una canzone intitolata “I Wanna Be Your Dog”. Non c’era più traccia di una possibile rivoluzione che avrebbe migliorato le condizioni di vita dei diseredati, era annullata completamente l’utopia di una società più egualitaria, le parole di Iggy Pop erano chiare, chiarissime. Piuttosto di vivere in maniera inconsapevole come uno schiavo preferisco dichiararmi un cane, un randagio, un reietto senza via d’uscita. Ma la differenza non consisteva solamente nelle opposte visioni prospettiche, con il cambio dello scenario produttivo veniva messo in crisi l’intero ciclo delle lotte precedenti, il sistema non funzionava e i padroni ne stavano instaurando un altro a scapito dei lavoratori. Gli Stooges furono i primi a inventarsi forme e linguaggi capaci di perforare la rete del nuovo ordine globale. “I Wanna Be Your Dog” fu inoltre uno straordinario mezzo di diffusione del concetto forte del punk, il do it yourself che semplificò per sempre l’accesso alla musica suonata dal vivo. Una canzone realizzata interamente con quattro semplici accordi di chitarra provata e riprovata in qualsiasi cantina nei più scalcagnati tentativi di formare una band.

In seguito la macchina della ristrutturazione approdò in breve a New York, lì nel quartiere Queens, quattro ragazzini di strada si misero un giubbotto di pelle, si strapparono i jeans all’altezza del ginocchio, presero in mano tre rudimentali strumenti e… Uanciutriifor! “Se m’incazzavo con qualcuno puntavo dritto alla gola. Pensavo fosse normale così. Perché credete sia finito nei Ramones?” dirà poi il bassista Dee Dee ricordando la sua gioventù. Era il 16 agosto del 1974 quando i Ramones salirono sul palco più zozzo dell’East Village, il CBGB’s. Suonarono sette pezzi a dir poco elementari ripetendoli tre volte di seguito mentre sotto di loro si scatenò una bolgia i cui echi non tardarono ad approdare oltreoceano.

A quei tempi l’Inghilterra era in uno stato di caos totale. Disoccupazione, tumulti per le strade, conflitto sociale e odio razziale, nei sobborghi di Londra non girava nemmeno una canzone in grado di scaldare gli animi. “Emerson Lake Palmer, Uriah Heep, Gong… Tutta musica di merda”, afferma Steve Jones, il futuro chitarrista dei Pistols. “Ascoltavo Roxy Music e David Bowie, ma a quel tempo pensavo che i musicisti calavano dal cielo, non credevo che chiunque potesse diventarlo”.

Dopo aver scoperto Stooges e Ramones, Steve mise a frutto la sua carriera extralegale rubando strumenti e amplificatori per formare una band. Il suo amico d’infanzia Paul Cook si faceva meno problemi, lui in controtendenza all’intolleranza razziale circostante, si stava appassionando ai ritmi da sballo delle famiglie afrocaraibiche che abitavano nella porta accanto. Decise perciò di dedicarsi alla batteria. I due amici andavano spesso in Kings Road nella bottega di vestiti per eroi dell’effervescente coppia Westwood-McLaren, quest’ultimo ebbe l’idea. “Ci chiameremo giovani assassini sexy, armati di pistola. Sex Pistols. Ma prima dobbiamo cercare un cantante!”.

E lo trovò in un ragazzino disadattato che sembrava non valere nemmeno mezza sterlina. Per bassista scelsero Matlock, un anonimo ragazzo del ghetto che però con la musica ci sapeva fare, fu lui a inventare alcune azzeccate sonorità nel frastuono della band in formazione. All’inizio McLaren non pensava di aver in mano una bomba, probabilmente lo capì quando vide salire sul palco Johnny Rotten. Capelli rossi sparati in aria, occhi spiritati e vestiti della Westwood modificati dall’intuito di strada. Strappi alla Ramones ricuciti da spille da balia, giacche da straccione raccattate nella spazzatura e il cravattino come un cappio al collo. Un cut-up di segnali indossato con stile.

“È l’abbigliamento che ti fa sentire dalla parte dei tuoi simili”. Rotten strillava e provocava. Impossessato da una danza robotica prendeva per il culo il pubblico e insultava i giornalisti. Nelle sue rare dichiarazioni smontava e ribaltava il significato originale di ogni mito: “Mi sono sempre piaciute le persone grottesche, tragiche e profondamente ferite nel corpo. Riccardo III, il gobbo di Notre Dame, personaggi che hanno ottenuto qualcosa attraverso le proprie deformità”.

Dopo che furono scritte parole come “I am an antichrist – I am an anarchist”, MacLaren deve aver sospettato che quel tipo gli avrebbe rovinato la vita. Furono due anni incredibili, sempre più giovani irrequieti si convertivano al movimento: Clash, Damned, Buzzcocks, Stranglers, il pubblico si tramutò in una massa di individui calamitati da un’attitudine ipercreativa, decine e decine di pischelli che s’acconciavano da sé nei modi più assurdi.

“Persone che non avevano rispetto di se stessi all’improvviso si vedevano belli anche se non lo erano affatto”. La donna che per assomigliare a un gatto ci aveva messo un sacco di abilità e di coraggio, poi la tipa completamente nuda sotto un impermeabile trasparente e un paio di anfibi ai piedi. “Le donne non si sentivano più cittadini di seconda classe, il punk lo rese evidente…”. Il 1977 poteva iniziare con tutta la sua carica feroce. Via Matlock dentro l’incontenibile Vicious. “God save the queen – The fascist regime…” Finalmente il segnale che buca gli schermi televisivi e che noi italiani aspettavamo da tempo.

Il ’77 è un anno carico di significato per le culture giovanili di tutto l’Occidente, i punk stavano dilagando ma le barriere geografiche e quelle generate dall’influenza vaticana mantenevano il nostro paese nell’ignoranza provinciale. Eppure se oggi si guarda l’interminabile film di Alberto Grifi sul festival del Parco Lambro del 1976, si può notare che, nonostante il look diverso, le parole d’ordine dei partecipanti al raduno si avvicinavano sorprendentemente a quelle dei punk: il rifiuto del lavoro, il soggetto desiderante e lo sdegno per la forma partito. Le componenti autonome e quelle punk condivisero la stessa preoccupazione per il futuro che senz’altro sarebbe stato diverso, non solo da quello dei padri, ma anche da quello dei fratelli maggiori.

“Se ci avessero impiccato in piazza ci avrebbero applaudito 56 milioni di persone”, dice ancora un ispirato Steve Jones. Noi giovanissimi punk italiani ci accorgemmo troppo tardi che i Sex Pistols non erano un prodotto preconfezionato dall’industria musicale. Ci colpivano le loro gesta in tv, le proteste degli integralisti cattolici, le parole di un cravattato: “I peggiori sono i Sex Pistols, l’antitesi della razza umana, il mondo migliorerebbe di certo se non ci fossero…”.

Nel frattempo Vicious era già finito nella tomba e Julien Temple aveva appena terminato il suo primo film sui Sex Pistols. La grande truffa del rock’n’roll. In quel periodo ricordo un fatto significativo che accade a Milano, quando dei tizi, non so come, riuscirono a organizzare una rassegna pomeridiana di film punk dentro una lussuosa sala del centro cittadino dove abitualmente proiettavano film per bambini. Jubilee, Rude Boy, The Punk Rock Movie e come inaugurazione La grande truffa del rock’n’roll. Entrammo in gruppo già stonati dalla tensione, dall’alcol e da svariate sostanze stupefacenti, ci sistemammo sotto lo schermo aspettando l’inizio del film. Ci sembrò di assistere al nostro stesso funerale. Fu una delusione cocente, manovrato da uno scomposto MacLaren quel film ci fece incazzare. Perciò quando partì il riff di “Pretty Vacant” sfogammo la rabbia repressa distruggendo gli schienali di legno delle poltrone in platea e qualcuno ne lanciò un pezzo contro lo schermo provocando un bel taglio a forma di sette. Credo fosse l’inverno 1980 e il ’77 era finito da un pezzo. Però il punk per noi non era certo una truffa su cui riderci sopra, anzi rappresentava una difficile ma necessaria scelta di campo, uno stile di vita in grado di salvarci dal riflusso imperante e dalla famosa Milano “da pere” perché quella “da bere” era riservata ai coetanei altolocati. Tuttavia l’urgenza e la precarietà con cui fu girato e le patetiche pretese del produttore non rovinarono il film, riveduto anni dopo La grande truffa del rock’n’roll appare ancora un prodotto decente. Forse l’unico davvero insoddisfatto fu il regista Julien Temple che infatti ritornò sull’argomento vent’anni dopo con più calma ed esperienza: Oscenità e furore. Il nuovo lungometraggio finisce come il suo antecedente con l’ultimo concerto dei Pistols a San Francisco nel gennaio del 1978.

“Faremo solo un pezzo stasera” disse al microfono un Rotten esausto, “No Fun”. Non c’era più spazio per il divertimento, il nuovo anno sancì il definitivo rovesciamento dello scenario, la percezione del No future si diffuse come un antidoto al veleno del mercato libero, della pervasività catodica, della schiavitù globalizzata.

Come abbiamo visto in Italia, più che in altri paesi, si assistette a un connubio tra il punk e le aree di movimento non convenzionali (anarchici e creativi). Diverse sono le ragioni: a partire dalla seconda metà degli anni Settanta nel nostro paese si registra la grande marea che darà vita al movimento del ’77, il quale attraverserà orizzontalmente il mondo lasciando tracce indelebili, domande inevase, pratiche incompatibili, processi di trasformazione che il tempo non potrà seppellire. È il mondo nella sua interezza che viene accerchiato, coinvolto, assalito proprio quando il punk si affaccia all’orizzonte. Niente viene risparmiato, e niente il punk risparmierà dopo.

Il ’77 irrompe con forza lacerante senza perdere i suoi colori, le sue mille sfumature, i suoi propositi creativi. Vero è che la repressione incalza e lo Stato opera un salto in avanti nella politica repressiva, il territorio conosce nuove forme di militarizzazione, ma è altrettanto vero che il movimento si rafforza, estendendosi sempre più nel sociale. Le sue crescenti articolazioni consentono di raggiungere uno spettro ampio di soggetti e nuove fasce sociali. Nelle componenti più creative, il movimento del ’77 è anche influenzato dalle vicissitudini delle controculture ancora esistenti.

Il punk si addentrava in un mondo lacerato che aveva conosciuto l’incredibile forza dell’utopia, in un coacervo di situazioni che parlavano ancora il linguaggio di lotte ormai arretrate, in un periodo in cui non si era ancora persa la memoria della liberazione integrale. Il punk italiano si colloca in una zona d’ombra che confina con quest’area e in qualche modo si politicizza, o meglio assume connotazioni antagoniste molto presto e in molti luoghi. I punk respirano la stessa aria pesante della repressione e alcuni di loro partecipano a diversi momenti conflittuali come quello contro le carceri speciali a Voghera o contro gli F-16 a Capo Rizzuto. In qualche caso diventano i promotori di altre iniziative, come la protesta contro l’installazione dei missili americani a Comiso, dove tra l’altro verranno centinaia di punk da tutta Europa chiamati a raduno dal circuito italiano autogestito di “PUNKamINazione”.

In quel periodo dentro i posti di lavoro, nelle università e in città gli spazi agibili erano praticamente inesistenti e pertanto nasceva l’esigenza di luoghi nuovi, ripensati e autogestiti. Spazi che solo con l’azione diretta sarebbe stato possibile conquistare e difendere. Agire in uno spazio occupato era già allora una tendenza in atto, risalente al tempo del riprendiamoci la città, ma se le cose erano cambiate dappertutto, qualche luogo aveva resistito. Fu il caso del Virus di Milano che nacque all’interno della ex fabbrica occupata nel 1976 dalle componenti creative del movimento, in via Correggio 18 (la foto che apre questo articolo è proprio un’immagine del sottopalco del Virus). Il punk agì a modo suo, in un territorio dove già erano passati coloro che contestavano la mercificazione della creatività, dei desideri, della vita stessa. Perciò si adoperò per praticare l’autogestione e viverla in ogni istante, utilizzando il concetto del do it yourself come uno strumento primario. Assunse anche l’idea, mai tramontata, di riutilizzare, riciclare, detournare materiali abbandonati, impiegandoli creativamente. 

Il punk italiano degli anni Ottanta appare oggi come l’unica presenza antagonista del periodo e riuscì a sollevare contraddizioni nella narrazione nefasta di una società all’alba della globalizzazione. Una società che si stava riempiendo di stereotipi modaioli che tentavano di banalizzarne il vissuto, di recuperarne l’immagine, assumendone, sempre e soltanto, gli aspetti esteriori o alcune sue caratterizzazioni musicali. Simili propositi da recuperatori professionali non riguardavano il punk ma erano opera dell’industria che voleva disinnescarlo a ogni costo. Come era già successo con il primo underground, il punk si ribellò a tale grottesco sfruttamento e lo fece soprattutto con le autoproduzioni, che sono la pratica di ogni sua elaborazione, il sigillo di ogni ricerca creativa, capaci di incidere sul futuro, come vediamo oggi con il diffondersi attraverso il web quell’attitudine do it yourself.

Per un approfondimento sulla storia del Virus vi rimando alla lettura di Costretti a sanguinare (ShaKe 1998, Einaudi 2006, Agenzia X 2016), mentre qui sotto allego una parte del prologo del mio nuovo libro I pirati dei navigli (Bompiani 2017) che parla di quel periodo.

Mi salvai grazie a un viaggio a Londra in autostop nell’estate 1978. Lassù i punk urlavano disperati come me, ma lo facevano sui palchi o in mezzo alla strada e non tra i contatori del gas. Mi ci volle poco a diventare come loro. Tornai dopo qualche mese con i capelli corti e colorati di verde. A Milano i punk di periferia erano una decina e si trovavano davanti al New Kary, in via Torino, l’unico negozio di dischi d’importazione dove si potevano ascoltare Sex Pistols e Ramones. Lo spropositato apparato di polizia politica di quegli anni colpiva a manganellate la nostra piccola congregazione. Per sfuggire alle retate correvamo via attraversando un vicolo storico dietro al negozio di dischi, la stretta Bagnera, un luogo di delitti e crimini secondo la leggenda meneghina. Poi, svoltando a sinistra, ci rifugiavamo nel centro sociale Santa Marta. Era un bellissimo edificio del Settecento dentro al quale fummo investiti da una tempesta artistica. C’erano gruppi teatrali, laboratori di scenografia, sale prove, manifesti di Demetrio Stratos e le band del rock demenziale: i Kaos Rock e le Kandeggina Gang. La pacchia durò poco più di un anno, poi la Milano craxiana s’ingoiò il Santa Marta come un aperitivo, senza nemmeno l’olivetta di una piccola contestazione. Noi tornammo tristi e depressi davanti al New Kary. Stufi di essere trattati come bestie dai celerini, decidemmo di fare un volantino di protesta. Non sapendo dove trovare un ciclostile ci aggrappammo a un ritornello dei Sex Pistols e ci rivolgemmo agli anarchici di viale Monza. Furono loro a portarci in zona Fiera, esattamente in via Correggio 18, dove c’era una casa occupata che accolse noi punk senza famiglia. Nel frattempo giravamo l’Europa in autostop. Per noi era facile, in qualsiasi città bastava incontrare un altro punk per rimediare all’istante vitto, alloggio e concerti. A Londra ci fu l’incontro con gli anarcopunk e a Berlino entrammo in grandi capannoni abbandonati riutilizzati come gallerie d’arte. A quel punto, tornati a Milano, avevamo le idee più chiare. L’area dell’occupazione di via Correggio era una ex fabbrica di prodotti per neonati e comprendeva, oltre agli uffici dove abitavamo con i compagni più adulti, due capannoni industriali. Dentro uno di quegli spazi organizzammo il primo concerto autogestito contro l’eroina, creando un dissidio interno con i punk ancora affascinati dal nichilismo no future di Sid Vicious & C. Quel posto diventò il Virus, autogestito da una trentina di noi dell’età media di diciotto anni, eppure nel giro di tre anni ospitò migliaia di persone di ogni età, attratte dalle molte band che venivano da tutto il mondo a suonare gratis per vedere l’antiScala del punk. Il nostro collettivo era anarchico, pacifista, vegetariano e antisessista… Per qualche anno ci sembrò di viaggiare su un’astronave attrezzata per l’attacco, un equipaggio unito che cominciava a stringere alleanze con altre sacche di resistenza in città, a partire dalla libreria Calusca e dagli studenti universitari. Il sogno svanì alle sei e trenta del 15 maggio 1984, quando la polizia decise di sgomberare il Virus. La storia dei pirati dei Navigli inizia poco più avanti, nel settembre del 1984.