Villa Tugendhat, insieme al Padiglione tedesco per l’esposizione internazionale di Barcellona e al progetto per il quartiere Weissenhof di Stoccarda, è uno dei principali capolavori di Mies van der Rohe, un manifesto della sua raffinata architettura. Così la descrivono i manuali di storia dell’architettura contemporanea, riportandone il disegno della pianta libera e la fotografia in bianco e nero del fronte digradante sulla collina di Brno, con la grande vetrata centrale. Disegnata su commissione nel 1928, la villa venne costruita l’anno successivo, lo stesso dell’esposizione di Barcellona: per questo motivo i due progetti hanno caratteristiche comuni, come la sorprendente parete in onice e la struttura portante in sottili pilastri in acciaio a sezione cruciforme.
Le informazioni su questo edificio di solito si fermano qui, lasciandolo sospeso nel tempo, fermo al momento in cui venne concluso, e il suo progetto pubblicato, dibattuto e celebrato sulle riviste d’epoca. È questo, forse, il destino abituale dei progetti raccontati dalla storia dell’architettura e dalla storia dell’arte: si predilige l’analisi formale e stilistica, collocata nello sviluppo diacronico della disciplina, solo a volte nello sviluppo storico del periodo, quasi mai seguita nello sviluppo sociale, culturale e politico successivo.
Dopo l’ascesa del nazismo, Mies lascia la Germania e si trasferisce negli Stati Uniti. Le sue idee progettuali – sorvolando su quelle politiche – non erano più conformi al nuovo regime. Granito e mattoni, non più metallo e vetro, dovevano essere i materiali giusti per celebrare il Terzo Reich. L’architettura del Movimento moderno venne bandita dalla Germania di Hitler e dai territori su cui estese il proprio dominio. Dopo l’Anschluss dell’Austria nel marzo 1938, il 15 marzo 1939 venne formalmente creato anche il Protettorato di Boemia e Moravia: l’interesse tedesco era quello di “tutelare” la popolazione tedesca del Sudetenland, un’ampia porzione di territorio posta ai margini settentrionali, meridionali e orientali della Cecoslovacchia, comprendente una porzione di Boemia, una di Moravia e una di Slesia. Dopo la conferenza di Monaco del settembre 1938, Francia, Inghilterra e Italia accondiscesero alle richieste naziste, portando alla resa della Cecoslovacchia. Il suo territorio venne diviso in una parte direttamente amministrata dai tedeschi (il protettorato, di cui venne designato governatore prima Konstantin von Neurath, poi il più duro Reinhard Heydrich) e la Repubblica Slovacca, stato alleato del Reich.
Brno divenne la seconda città del protettorato: di conseguenza, tutto quello che era già accaduto nella Germania nazista e nell’Austria annessa, accadde anche qui. Vennero sciolti i partiti politici e applicate le leggi di Norimberga. La popolazione ebraica venne discriminata e perseguitata, i loro beni vennero espropriati, qualche anno dopo venne aperto il ghetto e il campo di concentramento di Terezín.
Che cosa successe allora a Villa Tugendhat e ai Tugendhat, la famiglia ebraico-tedesca di industriali che aveva commissionato il progetto a Mies van der Rohe, viene raccontato nel documentario Villa Tugendhat (Germania, 2013, 112’) di Dieter Reifarth. Il regista ha ripercorso la storia di quell’edificio attraverso le parole dei figli di Fritz e Grete Tugendhat e degli abitanti che negli anni successivi sono passati attraverso quelle mura (o meglio, quelle pareti di onice, le immense vetrate, i pannelli in ebano). Nel 1938, infatti, la villa venne espropriata ai Tugendhat, che decisero di fuggire prima che i fatti precipitassero ulteriormente. La villa venne allora messa a disposizione di famiglie tedesche fedeli al regime: vi andò ad abitare Walter Messerschmidt, direttore di un’azienda tedesca, con la sua famiglia. Colpisce la descrizione che sua figlia, allora bambina, rende oggi di quello spazio: il salone era eccessivamente ampio, libero, luminoso, e la sua famiglia preferì innalzare delle partizioni per creare dei vani più piccoli, dei “salottini” più tradizionali. Per la cultura piccolo-borghese e conservatrice che supportava il nazismo, lo spazio, la libertà e la luce erano disorientanti.
L’occupazione tedesca prima e l’arrivo dell’Armata rossa poi contribuirono alla dispersione degli arredi originali. Alla fine della guerra la villa era ridotta in pessime condizioni e venne fatto un primo intervento di ripristino degli spazi per permetterne l’utilizzo che fu, sorprendentemente, quello di palestra per una scuola di danza. Mantenne questa funzione fino al 1950, quando la proprietà venne nazionalizzata dallo Stato cecoslovacco che la destinò a essere sede di un istituto per ragazzi scoliotici: nelle sue stanze venivano praticati esercizi per il miglioramento posturale, lunghe pose correttive con gli adolescenti coricati nei letti e allo stesso tempo impegnati in lezioni scolastiche. Venne utilizzata in questo modo fino alla fine degli anni Sessanta: fu questa la stagione più longeva della sua vita.
Le testimonianze dei ragazzi della scuola di danza e dei giovani pazienti dell’istituto terapeutico raccontano lo stupore per quello spazio e le sensazioni positive generate dalla luce, dalla percezione della natura tutto attorno alla casa.
I Tugendhat, intanto, si erano rifugiati prima in Svizzera, poi in Venezuela. È proprio in quell’esilio che nascono le ultime due figlie, Ruth e Daniela. Il documentario tratteggia anche le diverse vite dei cinque figli dei Tugendhat, che si trovano ad avere lingue materne diverse: il tedesco, lo spagnolo, lo svizzero tedesco. Nei loro diversi accenti, nelle lingue scelte per parlarsi in codice da bambini per non essere capiti dagli adulti, si riflette quella fetta di storia del Novecento, fatta di fughe e di spostamenti di popoli.
Ma non ci sono solo le minute storie delle persone ad attraversare i muri di Villa Tugendhat: il 1° gennaio 1993 proprio qui venne firmato il trattato che sancisce la divisione politico amministrativa fra Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca. Una scelta che mostra l’assunzione della villa tra i luoghi fondamentali della nazione. Nel corso degli anni Novanta vennero anche effettuati alcuni interventi di restauro dell’edificio (tuttavia né risolutivi, né ottimali), che nel 2002 è stato inserito nel Patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
Ripercorsa la storia dell’edificio e delle sue diverse vite, il documentario intreccia le narrazioni delle due vicende più recenti imperniate su Villa Tugendhat: il tentativo della famiglia di ottenerne la restituzione tramite azioni legali e pronunciamenti delle rappresentanze locali e governative, e i lavori relativi all’ultimo restauro, concluso nel 2012. Se la vicenda della restituzione è un susseguirsi di illusioni e frustrazioni, i lavori questa volta ottengono dei risultati molto migliori. Tra questi, l’incredibile ritrovamento dei pannelli in ebano originali, che formavano la parete a semicerchio posta attorno alla tavola da pranzo. La loro sparizione datava ai primi anni dell’occupazione tedesca e il precedente restauro aveva inserito al loro posto dei pannelli in legno, dal disegno di superficie molto diverso rispetto agli originali. Uno storico dell’arte ebbe allora un’intuizione: durante l’occupazione nazista erano stati fatti dei lavori per trasformare l’edificio della facoltà di Giurisprudenza della Masarykova Univerzita nella sede della Gestapo. In particolare, era stato creato uno spazio adibito a caffè, divenuto poi nel dopoguerra mensa universitaria. La grande sala era stata decorata con affreschi ispirati al solstizio d’inverno ma caricaturali e ridicoli (eseguiti dal pittore accademico Karel Minář, imprigionato come membro della Resistenza e costretto a realizzare il lavoro) e rivestita, nella parte basamentale, di pannelli in legno scuro: a settant’anni dalla loro scomparsa, riapparivano così i pannelli in ebano di Villa Tugendhat, che erano sempre rimasti lì, sotto gli occhi di tutti.
La storia di Villa Tugendhat riflette i passaggi cruciali del Novecento: l’avanguardia culturale e il suo soffocamento durante gli anni del nazismo, la persecuzione, l’esilio, la guerra e i tentativi postbellici di recuperare i beni depredati. Ma racconta anche la percezione di un’architettura raffinata, elegante, libera. Che, più di tutti, i bambini cechi sono stati in grado spontaneamente di cogliere e apprezzare.