La rivista milanese “Quadrante” (1933-36) diretta da Pier Maria Bardi e Massimo Bontempelli viene giustamente ritenuta la più coerente manifestazione della fazione razionalista dell’architettura italiana1. Rispetto ad altre riviste di architettura coeve, e anche a riviste come “Casabella” che pure sostenevano l’azione di architetti legati al movimento razionalista, “Quadrante” si caratterizza per la sistematicità con cui persegue due fini in apparenza opposti. Il primo: presentare l’architettura razionalista come architettura specificamente fascista, che risponde alle necessità della nuova società totalitaria, si offre come interlocutrice ideale degli slogan di Benito Mussolini e si propone come ideale “arte di Stato”. Il secondo: mantenere e riforzare la presenza del gruppo razionalista italiano nel panorama internazionale di ricerca architettonica più all’avanguardia e tenere aperto il dialogo in Italia sui più avanzati progetti di architettura internazionale. Chiedersi quale tra questi obiettivi sia quello preponderante, se l’idea perseguita da Bardi di fare dell’architettura razionalista “l’arte di Stato” fascista, o quella di mantenere alta la presenza italiana sul palcoscenico del modernismo internazionale, può portare a sviare la comprensione di come si configurasse in realtà il funzionamento del rapporto tra Stato (totalitario o meno) e architettura. È possibile distinguere in “Quadrante” tra retorica politica e retorica modernista, tra contenuto fascista e contenuto moderno? O forse è l’idea stessa di un modernismo fascista ad essere la creazione di architetti che vedono nella situazione totalitaria un’occasione per eliminare d’un tratto il problema centrale del moderno novecentesco, quel dover fare i conti con il committente, i suoi gusti, la sua cultura, la sua reticenza verso il nuovo? In questo senso dunque la retorica dell’uomo nuovo mussoliniano è anche la retorica dell’inquilino ideale della casa modernista2. Allo stesso tempo, gli occhi di quest’uomo nuovo sono gli stessi capaci di ricostruire il dialogo fra passato e presente, fra antichità e modernità, secondo i dettami di una delle figure tutelari di “Quadrante”, Le Corbusier3.
Un esempio molto importante delle strategie retoriche impiegate da Bardi e dagli architetti e scrittori di “Quadrante” è offerto da un confronto inedito, ma significativo fra due resoconti pubblicati alla stessa data dalla rivista: quello del Congresso Internazionale di Architettura Moderna del 1933 e quello dell’inaugurazione delle città di fondazione costruite dal regime.
Il 5° numero di “Quadrante” (settembre 1933) è interamente dedicato al Congresso Internazionale di Architettura Moderna, avente per tema “la città funzionale”, tenutosi nell’estate del ’33 a bordo della nave da crociera “Patris II” con la partecipazione degli architetti di varie nazioni aderenti al Comité international pour la résolution des problèmes de l’architecture contemporaine (CIRPAC). La partecipazione italiana al Congresso e soprattutto la presentazione di un resoconto il più possibile dettagliato dei temi in esso trattati rappresentava per “Quadrante” un banco di prova molto delicato nell’ambito della strategia di progressiva costruzione d’immagine che la rivista si stava dando nel suo primo anno di pubblicazione. La dimensione internazionale dell’evento, se da un lato imponeva naturalmente la necessità di adeguare le voci nazionali alle risoluzioni alle quali si sarebbe giunti ad Atene, e che avrebbero rappresentato una sorta di codice storico di identificazione per il razionalismo internazionale, dall’altro sollevava la questione del necessario discrimine di “italianità” di quella stessa partecipazione che, comunque fosse vista, poteva dare adito a varie polemiche in ambito nazionale, dalla nota accusa di “internazionalismo antitaliano” a quella più pericolosa di usurpazione della rappresentatività nazionale. Del resto l’ambientazione in Grecia del viaggio-congresso rendeva ancora più esplicita ed imprescindibile la discussione della fisionomia e del ruolo dell’elemento-tradizione e la scottante questione del “classico”, che sempre più andava assumendo la forma di uno (scomodo) aut aut Atene/Roma4.
Di questi rischi è ben cosciente Bardi, che apre la serie di testi dedicati al congresso infatti con un breve intervento dal titolo Viaggio di architetti in Grecia, identificando nel “comportamento” degli architetti del gruppo di “Quadrante” la discriminante “fascista” e, sottolineando come sia mancato nell’evento in questione ogni riconoscimento di “rappresentanza” da parte delle autorità italiane. Bardi lascia in sospeso il problema del mancato riconoscimento ufficiale non senza una stoccata ai finto-razionalisti dell’ultim’ora: “Ma speriamo che un bel giorno si capisca che tra il nostro spirito e quello degli altri c’è la differenza che passa tra la fede dei fanatici e lo zelo dei convertiti”5.
A sorpresa, tuttavia, il primo intervento di rilievo non è dedicato al CIAM ma alle campagne di bonifica e costruzione di nuove città: Urbanismo di Mussolini. Littoria – Sabaudia – Pontinia di Francesco Monotti6. Sono città, si badi, non progettate dagli architetti razionalisti del gruppo di “Quadrante” e non tutte propriamente identificabili come strettamente moderniste.
L’articolo parte dalla descrizione del silenzio carico di sospensione metafisica del paesaggio dell’Agro Pontino, interrotto, ma da lontano, dal rumore delle macchine aratrici, sviluppandosi in una sorta di arcaismo mitico in cui la presenza umana è cursoria e marginale: l’accenno agli operai costruttori non dà adito ad una celebrazione del lavoro o dell’operosità ma serve velocemente da ponte per introdurre la previsione della vita semplice dei futuri coloni, scandita dal ciclo chiuso delle attività domestiche e degli affetti. Contrapposta alla monotona ripetitività delle “pesanti” macchine aratrici, la “guizzante” macchina di Mussolini si inserisce come unico agente nella materialità dell’attesa di un risveglio epocale: “Il tempo si è fermato, le quattro stagioni si sono fuse, e in quell’una, tradizione e progresso si avvicendano per far rivivere la terra”.
Monotti, rielaborando alcuni fra i temi chiave della ricerca antropologica del periodo, smantella gli elementi cronachistici dell’evento, riassemblandoli nella ricostituzione di un mito di fertilità arcaico, fatto che offre l’opportunità di eliminare ogni riferimento contingente ai progetti effettivi delle nuove città e allo stesso tempo di incentrare il discorso su di un piano di esaltazione del giovane dio-duce, unico artefice.
L’accenno polemico al milieu che circonda Mussolini è tuttavia chiaro: presentando la pianura selvaggia ancora da bonificare Monotti fa comparire alcune figure spettrali di lavoratori stagionali per i quali si auspica una “bonifica umana che dovrà seguire immediata a quella della terra, come lei integrale”7, e ancora: “facce nere, sguardi profondi appena intravisti. Si sarebbero inginocchiati davanti a lui, Mussolini, pur che si fosse fermato. Ma sdegnavano di guardare le automobili che lo inseguivano”8.
All’interno di questo coeso sistema di riferimenti mitizzanti si inserisce la definizione del nuovo insediamento come opera della ragione9 contrapposta alla staticità della terra: “Lo spettacolo di questa nuova città che nasce è affascinante. Non si tratta della nascita di una nuova creatura, in cui è presente un elemento che sfugge al controllo umano, la scintilla, il palpito della vita10. Nella nascita e nello sviluppo di una città, unico fattore è l’uomo. È lui che l’ha ideata, che l’ha costruita, che l’abita. Non è ingiusto dire che l’uomo ha la città che ha voluto, la città che si merita”11.
Per quanto ad una prima lettura l’intervento di Monotti possa sembrare straniante rispetto alle attese, non è difficile mostrarne la funzionalità alla luce dei problemi precedentemente delineati, quelli posti in essere dalla partecipazione italiana al CIAM12. Littoria, pur se popolata in massima parte da palazzi costruiti secondo un gusto piacentiniano riveduto, è una delle città il cui piano regolatore è stato presentato dagli italiani al Congresso di Atene e l’insistere sull’elemento di ideazione del progetto delle città nuove porta ad uno dei temi chiave che verranno successivamente da Bardi ribaditi in numeri successivi della rivista: la città è “innanzitutto un fatto tecnico, e per conseguenza dovrebbe essere governata da tecnici, da ingegneri, da architetti, da gente che ha il senso dell’organizzazione”13.
Del resto, la dimensione rarefatta in cui la nuova realizzazione è inserita permette di sorvolare ogni riferimento all’effettiva appartenenza al contingente razionale del progetto di Oriolo Frezzotti per Littoria14 e soprattutto introduce uno scenario ampio di riferimenti culturali in cui collocare la questione urbanistica, suggerendo anche un livello di presentazione utile per la successiva trattazione della presenza “greca”. È significativo sotto questo aspetto, e forse deriva da più di una conversazione avuta con i colleghi di “Quadrante” sul Patris, il giudizio che esprimerà di lì a poco Le Corbusier su Littoria: “Littoria est le témoin le plus significatif de la confusion, du désordre, de l’incapacité des professionnels devant les taches profondes et de la misère de l’architecture contemporaine. Littoria n’est qu’une pauvre petite ville en façon de cité-jardin de tous styles: dépotoir des écoles d’architecture”15.
La vera e propria cronaca degli eventi del Congresso, che segue l’intervento di Monotti, è di mano di Bardi e occupa 30 delle 48 pagine del numero della rivista, dunque più dei 3/5 del totale. È organizzata in 11 sezioni, corrispondenti ad altrettanti articoli già pubblicati su “Il Lavoro Fascista” fra l’8 e il 28 settembre 1933.
La prima parte della Cronaca di viaggio è dedicata alla presentazione delle tematiche più specificamente tecniche che il Congresso propone: la necessità di una normalizzazione dei segni convenzionali della cartografia urbanistica, l’aspirazione ad un'”esperanto grafico”. Fin dall’inizio si impone l’equivalenza “città funzionale” e “città ideale” che sottende alla presentazione delle 30 città-campione oggetto d’analisi: “Per giungere a una definizione e a una indicazione giusta della ‘città funzionale’ e delle sue esigenze, caratteri, aspirazioni, era necessario trovarsi d’accordo sulle basi e sulla fisionomia d’una città ideale che non poteva che scaturire dall’analisi di un certo numero di altre città realmente esistenti”16.
Già da questa dichiarazione appare chiaro come la ratifica di scelte operative per la progettazione dei nuclei urbani futuri debba derivare essenzialmente dall’analisi sul campo delle necessità e delle forme presenti: città “ideale” è dunque il limite a cui tende la ricerca tecnica moderna e che viene determinato progressivamente nell’affrontare i problemi attuali degli insediamenti umani. La dimensione “ideale”, in definitiva, appare nettamente separata dall’ambito di ogni possibile precedente “storico”: è dunque chiara la scena radicalmente nuova su cui si pone il problema di una ricollocazione “giustificata” di ogni riferimento all’antico e della ricostituzione ex-nihilo del ruolo dei precedenti, opportunamente selezionati.
“Pare che i risultati dei nostri studi ci conducano ad un vero e proprio atto d’accusa contro la civiltà moderna: la città nella sua attuale organizzazione, e si allude specialmente alla metropoli, appare scombinata. Scombinata se la si paragona a una città genialmente immaginata. Noi pensiamo le città armoniose, proporzionate nei loro spazi di alberi, di acqua, […] città in cui la luce e il sole prendono il posto degli idoli della superstizione, e il suono è disciplinato”17 scrive Bardi, e più sopra in un paragrafo dal titolo Attualità di Sant’Elia introduce il tema paradossale della ricostruzione totale della città nuova e l’eliminazione del magma dei riferimenti storicistici di fine-ottocento: “La città è troppo arretrata con il procedere della velocità. Abbiamo detto che le città sono come gli uomini: infatti nascono, crescono, e dovrebbero anche morire quando tutte le operazioni dei cattivi medici le hanno ridotte inabitabili: bisogna abbandonare l’idea sedentaria della durata lunghissima di una città, e pensare che le città si fondano di nuovo, o che è possibile raderle al suolo per rifarle”18. La polemica si rivolge contro il decorativismo progettuale, che portava ad un’assunzione casuale e ingiustificata di elementi storico-classici: “il floreale è la cronaca d’un tempo in cui mezzo mondo nacque mezzo artista”19 e contro questa pretesa di artisticità a priori si sostiene la necessità di una competenza tecnica specifica.
Costruire città in base alle esigenze fondamentali dell’uomo (abitazione – riposo e svago – lavoro – circolazione) che tornano riproposte in diverse forme nel corso di questo numero di “Quadrante”20, secondo la formula (Joies essentielles: ciel arbres, lumière) resa famosa proprio dall’intervento fatto in quell’occasione da Le Corbusier, punto di riferimento assoluto, del resto, anche del dibattito che si ebbe effettivamente al CIAM di Atene21. “Gli urbanisti vogliono arrivare ad una nuova estetica traverso il funzionalismo”22 ma per far questo è necessario azzerare la zavorra di elementi formali, ingiustificati dalle esigenze progettuali ed applicati acriticamente come garanzia pregiudiziale di esteticità. “Noi crediamo che nella nostra epoca vi siano i primitivi di una nuova arte del costruire”23: cioè in primo luogo i costruttori che non devono fare i conti con un catalogo di forme storiche codificate, da riesumare per ottenere un placet di artisticità.
Fin qui la pars destruens della polemica razionalista, del resto già all’epoca largamente divulgata in varie forme. A questo punto è necessario analizzare meglio gli elementi originali con cui Bardi e il gruppo di “Quadrante” si riappropriano del “passato”, anzi, come si vedrà, dei possibili “passati” a cui attingere, in funzione di una concezione storica che scardina il sistema di lento sviluppo e gerarchizzazione per corsi e ricorsi della storia.
Un nuovo snodo viene introdotto attraverso la discussione del piano regolatore di Verona fatta dall’architetto milanese e collaboratore della rivista Piero Bottoni. Il grafico di Bottoni mostra la mappa della città coperta di “rettangolini neri” che si riferiscono ad artichetture storiche e che pongono il problema della “conservazione dei monumenti, la storia in una parola.” Le “esigenze spirituali” della storia se da un lato impongono “giochi acrobatici per risolvere i miglioramenti stradali senza lambire le architetture dei secoli trascorsi”, dall’altro possono portare all’inazione per via del “bigottismo tavolta ingiustificato”24.
A questo punto, attraverso una serie di passaggi logici serrati, viene affrontata direttamente la questione del mondo greco, non più rinviabile: “Città funzionale, cioè città attuale, futura, città corrispondente alla nostra etica. Ma la nostra etica ha radici nel passato. E’ ora così che si vada a rivedere il Partenone”25.
Qui il richiamo all’etica, e non più all’estetica come elemento fondante del rapporto con il passato, se da un lato si inserisce esplicitamente nella retorica della tradizione classica fatta propria dalle coeve definizioni dell’etica fascista, dall’altro, in maniera non meno evidente almeno per i “tecnici” lettori di “Quadrante”, accoglie in pieno la questione dell’esemplare superiorità appunto etica del Partenone in ragione della scelta tecnica e armonica della sua costruzione, ampiamente divulgata da Le Corbusier in Vers une architecture26.
Fa dunque irruzione sulla scena la questione dello scenario greco del Congresso, che impone un mutamento anche stilistico a Bardi: il tono diviene più narrativo, alla ricerca di una sorta di immedesimazione panica costantemente controbilanciata da un’ironia sottesa ed acuta. “Quando uscimmo dal piccolo museo che è sull’Acropoli le faccette terribilmente satiriche dei cosiddetti tre mostri dal corpo d’uomo che termina a code di serpente, ci perseguitavano27 ad ogni nostra sosta fatta per gustare le euritmie del Partenone, come per dire: – Diano un’occhiata a ciò che si è fatto ai nostri tempi, e ci riflettano sopra quel tanto che basta per mettersi l’animo in pace sull’impossibilità di fare qualche cosa di più, e parliamo anche a nome degli architetti delle Piramidi”28: dunque le architetture passate sono una sfida al presente, senza alcuna pretesa di continuità garantita dallo sviluppo storico delle forme.
Bardi insiste su questo tema: l’immedesimazione deve essere diretta per cogliere in pieno gli elementi discriminanti della superiorità architettonica del tempio: “Abbiamo regalato le guide ai nostri amici svizzeri e tedeschi. Siamo qui come nel vivo dell’avventura, come i pirati davanti al bottino, senza fiatare, e con il cuore che è voluto arrivare fino agli occhi per essere più vicino e più funzionante” scrive infatti poco più sotto29. E ancora: “L’officina di Fidia ha dato al mondo la sua civiltà. La misura è il Partenone, l’unità di misura per giudicare le opere dell’architettura”. Questa unità di misura “è umanità attiva, effervescente, penetrante dentro gli spiriti semplici ed ignari”. Infatti “l’arte si avverte così, a sensazioni, a cerchi d’onda, a soffiate”30 ed è per questo che la conoscenza storica e aneddotica delle guide può essere totalmente eliminata in funzione di un’analisi visiva, ma di un occhio attento e capace di cogliere realmente i fondamenti strutturali di quelle “euritmie”.
È un occhio allenato dunque, un occhio “tecnico” che captando la “sensazione” non la rinchiude subito in un significato di simbologia estetica, creando un calco da riappiccicare da allora in poi un po’ dovunque, ma ne smonta i presupposti funzionali. La dinamicità di questo approccio risiede nel retaggio di esperienza costruttiva, di competenza “ingegneresca” per usare i termini dei detrattori di Bardi, che compensa la frammentarietà dell’immagine che si offre al visitatore. Ricostruita mentalmente proprio in base all’analisi a ritroso degli elementi strutturali, l’opera antica si rivela nella sua totalità paradossalmente all’ingegnere31 e non all’architetto classicista, perso alla ricerca di particolari decorativi in cui incarnare uno “spirito dei tempi” da riproporre serialmente.
“Uno dei sentimenti più accesi era quello della nudezza e estrema levigatura delle pareti, risultassero queste dal blocco squadrato, o dalla lastra di rivestimento” scrive infatti Bardi, sottolineando il discriminante di lettura che si offre ad un occhio allo stesso tempo “competente” e “umile”32, ed aggiunge: “In alcuni punti si nota che il lavoro di rifinitura è stato appena accennato nel combacio dei blocchi per mezzo di una scalpellinatura che serviva di livello per la lisciatura dei massi: ne consegue che certe pareti presentano una specie di scavatura che al ruminante è sembrata uno scherzetto decorativo, e come scherzetto decorativo l’ha copiata e ricopiata con tutte le arbitrarietà del caso”33. Il Partenone dunque è la riprova dell’abisso che separa il tradizionale sapere34 dalla scaltrezza visiva, che non è tanto un corollario formalistico del primo, quanto il prodotto di una effettiva competenza tecnica, base di ogni possibile volontà di riproposizione.
La presenza del monumento antico impone in “Quadrante” anche una riflessione sulla distanza dal presente, che non si sviluppa tuttavia come rimpianto per una supposta perdita di autenticità, ma nell’ottica positiva delle tappe del progresso tecnico: “Pensiamo alle casematte delle mura di Tirinto, per ragguagliarci del progresso dei Greci nella costruzione, e siamo dell’avviso che il nostro cemento armato è vero progresso. La colonna e l’arco danno l’addio alla spelonca, il cemento armato dà l’addio all’arco e alla colonna, mentre si parla di città da erigersi in acciaio e vetro. A noi la classicità mette nel sangue la felicità di sentirci figli d’un tempo spettacoloso”35. E con queste parole Bardi liquida le ansie novecentiste di un architetto benedetto dal regime come Marcello Piacentini, e della polemica denominata “degli archi e le colonne” che egli aveva portato avanti quello stesso anno con il critico, anch’esso di primo rilievo durante il ventennio, Ugo Ojetti.
È innegabile tuttavia che il processo di fruizione immediata dell’opera attraverso un’analisi di questo tipo, così come è stato efficacemente delineato da Bardi, impone una riorganizzazione completa degli schemi di riferimento storico-culturale in cui viene tradizionalmente inserito l’approccio all’antico; di qui le continue stoccate polemiche contro la consuetudine del Baedecker36 cui viene contrapposto l’intimità con il testo di Omero: “Bisogna aiutarsi con Omero. Tra Omero, caldo, rovine, arsura, deserto, altro profumo di campagna, una idea della civiltà che fiorì nell’Argolide si definisce con l’andamento fiabesco che ci vuole per l’occorrenza”37. Una appropriazione rigorosamente non scolastica o retoricamente compensatoria quindi, attraverso la quale diviene essenziale una “questione semplice: mulinare con la fantasia”38.
Ma conoscenza troppo fortemente mediata, e come tale sempre foriera di un pre-giudizio che inquina il sistema di competenze alla base del processo di analisi sopra esaminato, è anche per Bardi la spettacolarizzazione ad usum turistae, che, mediante l’uso di riflettori notturni appiattisce la dimensione spaziale dei monumenti, esasperando in senso espressionistico l’effetto di “massa” di rovine romanticamente affascinanti39. Uno scenario, anche psicologico, così organizzato non può chiaramente facilitare il processo di lettura della struttura e delle euritmie architettoniche ed è chiaro dunque che Bardi vi si opponga; tuttavia il direttore di “Quadrante” non si limita ad una critica asettica ma propende esplicitamente per la necessità di un alto tipo di “ambientazione”.
“Il Partenone è soltanto nell’aria, nel sole, nel lunare: i riflettori sono altrettanto irrispettosi che le cannonate del conte di Königsmark. Fuggimmo, per raggiungere nella notte la nostra meta, con un’oncia di fanatismo nelle vene. arrivammo quando la luminaria era finita. Ci accostammo alla rete di cinta, e un cane abbaiante ci mise in fuga. Il Partenone svaniva nella notte come gli alberi del boschetto intorno […] Ora, nella luce di mezzogiorno, il colonnato è aereo come sotto la luna”40. L’insistita caratterizzazione “atmosferica” e “lunare”, la dimensione favolistica, e soprattutto il ridimensionamento autoironico dell’esperienza epifanica testimoniano il calco attuato da Bardi sulla rarefazione tipica di un certo scenario teatrale di respiro metafisico, ed in particolare dalla produzione bontempelliana41.
In particolare, in riferimento alla posizione dell’altro direttore di “Quadrante”, Massimo Bontempelli, riguardo alle questioni poste dalla Cronaca di Viaggio, si deve sottolineare che il tema dell’annullamento della dimensione temporale di fronte al mondo naturale, con una conseguente possibilità di attingere ad una contemporaneità assoluta di presente e passato, è piuttosto frequente nella sua produzione42, così come il topos di una trasformazione perpetua legata all’immagine della città moderna. Occorre tuttavia precisare che in tale visione di stampo letterario e metafisico rivela nella cronaca di Bardi la possibilità di una valenza “arcaica” e “naturale” dell’opera di architettura, che si esaurisce però col progressivo procedere della modernità, e che viene definitivamente eliminata solo con il passaggio dall’ambito della progettualità architettonica a quella urbanistica (tema centrale del CIAM di Atene) in cui la progettualità tecnica garantisce la funzionalità alle necessità dell’uomo moderno (e dell’uomo di regime): “Le prime abitazioni ancora imitano timidamente certe forme e colori delle cose terrestri, vogliono farci credere di essere uscite dal suolo […] Il vero architetto moderno non è più l’inventore di case, ma l’ideatore di strade e piazze e quartieri. Il suo ufficio non è più solamente creare e fissare modificazioni armoniose della natura, linee e piani che rimangano ferme limitazioni dello spazio; egli ha anche quello non primo di dirigere e organare i più complicati movimenti degli uomini e dei loro strumenti di vita e di mobilità”43.
Paradossalmente, lo stesso principio evolutivo viene da Bardi applicato, a ritroso, nell’affrontare il paesaggio rurale della Grecia, che diventa una controparte di quella pontina, in una dimensione di attesa metafisica che dovrebbe essere colmata dall’avvento messianico del fascismo: “Gli uomini più avveduti della Grecia auspicano un ritorno rurale […] Uliveti, vigne, sterpaglia, tre villaggi dipinti a calce viva (una delle eleganze mediterranee dell’edilizia, come gli uomini hanno il vezzo delle scarpe lustre). I coloni devono stare nei villaggi, perchè non troviamo abitazioni. Un greco ci dice che anche qui ci vorrebbe una battaglia del grano”44. Come nel caso dell’urbanesimo rurale nella descrizione di Littoria fatta da Monotti45, è lo scenario ad imporsi, la presenza umana diradata: la semplicità delle abitazioni contadine diviene essenzialità preziosa, riscontro di una eleganza naturale che, come nel caso del Partenone46, si radica nella retorica della sanità civile del popolo attentamente trasposta in racconto mitico.
Parlando dell’architettura, Bardi sottolinea infatti che bisogna “considerarla come risultato di civiltà”, in una sintetica trasposizione simbolica che rimastica citazioni mussoliniane, fino al falso storico di uno slogan finale che suona originale ma che è opera di Bardi: “Il gusto del quadrato, di far quadrato, massiccio, stabilissimo è conseguenza del culmine di ottimismo raggiunto dagli ateniesi […] entusiasmo che cerca di non volatilizzare ma di imbottigliarsi in un che di durevole […] I popoli che contano sopra i libri della storia sono quelli che sanno fare la guerra e l’arte”47.
Nel procedere per la campagna greca il paesaggio raggiunge “toni e forme dechirichiane” mentre compare il Tempio di Sunium affacciato sull’Egeo: “Le colonne che avanzano sono limate dal vento, alcune resistono perchè sono inchiavardate. Non si riesce a capire chi possa essersi presa la briga di venire fin qui per diroccare il monumento”48. A questo punto, stigmatizzando la mentalità che pone “l’oro a base della vita” che porta a concepire l’antichità come un tesoro da saccheggiare, Bardi scrive: “Questa moralità va sdrammatizzata, va razionalizzata, va corretta. Nei nostri piani ideali di città nuove, castellate nell’aria e perciò ancora più nuove e incorruttibili, noi chiamiamo ad abitarle personaggi fantastici, cresimati dalla purezza, barbari finalmente, e non prevediamo casse forti blindate, banchi lotti, case di barattieri, villini per pensionati”49. L’auspicio per un abitante ideale, moralmente (e politicamente) redento, chiude nell’epifania il climax metafisico della scena: “Per quest’attimo il tempio di Sunium è tutto nostro, con la storia di una terra che sembra il vulcano della filosofia e della poesia”50.
Questa consistente opera di elaborazione letteraria, se da un lato è giustificata dall’intento di introdurre concettualmente e divulgare gli interventi, alquanto tecnici, proposti al Congresso, si rivela ben altrimenti rilevante alla luce del ruolo giocato nello schema propositivo sotteso all’organizzazione polemica di Bardi. L’idea di fondo è quella di scardinare la corrispondenza tra identità (classica o mediterranea) e stile storico da riproporre. Bardi ha buon gioco dunque a proiettare l’identità mediterranea in un’attitudine verso il processo dell’ideare e del costruire che sancisce il collegamento fra lontanissime epoche storiche, tra antichità e architettura razionalista. “L’architettura è nel sangue per tradizione”, può dunque scrivere: “La casa nasce nel Mediterraneo. Chi costruisce non sbaglia mai, non fa neppure il disegno: viene su con i muri sicuro che fino al tetto la fabbrica procede con le regole. I muratori del Mediterraneo sono prodigi: fanno persino i muri a secco, mettendo in luogo della calcina l’ingegnosità del calcolo delle forze e degli equilibri. Non per nulla noi chiamiamo il muratore: maestro. In questi paesotti non ci sono architetti, perchè tutti i muratori sono architetti”51. La competenza tecnica si radica, per Bardi, in una tradizione mediterranea esemplata dalle stesse costruzioni minori e anonime che ne popolano il paesaggio. In questo contesto l’elemento determinante è fornito dalla persistenza storica di una “ingegnosità del calcolo delle forze e degli equilibri” che sopravanza la stessa pratica tradizionalmente assodata (l’uso della calcina) che ha invece tanto ha fatto scrivere finora agli studiosi di impianto positivisto. Solo nell’ambito di questa specifica continuità sul piano dell’approccio tecnico-teorico e non della trasformazione delle forme o dell’uso dei materiali è possibile invece per Bardi rinvenire un’accezione attuale e valida dello stesso termine “tradizione”52.
Non a caso è l’accento posto sulla capacità intuitiva di porsi di fronte al problema della costruzione a rappresentare il fil rouge che fonda la continuità fra mediterranei e moderni, o meglio la persistenza di una modernità mediterranea; scrive infatti Bardi: “Ci sovviene uno scritto di Le Corbusier, il frontone del tempio, improvvisato sulla lista delle vivande mentre cenavamo a bordo: essenziale: il Partenone deve averlo nel sangue. Ci promette che ne parlerà”53.
È necessario a questo livello puntualizzare come l’impianto retorico di una posizione di questo tipo, con la sua idea di una predisposizione quasi innata ad una certa soluzione formale, può offrire, ed ha offerto in alcune letture, adito ad interpretazioni falsate, che ne riducono la portata, leggendovi una piana ricontestualizzazione della creatività intesa in senso razziale, nell’ambito delle aberranti pretese nazionaliste del fascismo.
Al di là dell’effettiva portata di retorica ufficiale e “nazionale”, e anzi, proprio sulla falsariga di questo divulgatissimo e trito humus, non può sfuggire come qui l’intento di Bardi sia concentrato su di una rivalutazione dell’elemento tecnico della società, in pieno accordo con le disposizioni ed i progetti portati avanti in questi anni da Bottai54. “L’architettura è nel sangue per tradizione” scrive Bardi, ed in effetti ciò significa ancora una volta la nullità di una mediazione storico-accademica, come si evince dalla violenta ironizzazione sulla figura “inutile” dell’architetto.
Allo stesso modo dunque, alla pratica dello stigmatizzato disegno progettuale “artistico” si sostituiscono altre pratiche di mediazione fra ideazione e realizzazione: lo schizzo principalmente, che diviene forma di comunicazione primaria anche (e questo è un nodo discriminante) in ambito di divulgazione. Paradigmatico a questo proposito l’utilizzo da parte di “Quadrante” degli schizzi di Le Corbusier, più volte pubblicati, sull’onda del resto di una pratica grafica e di impaginazione radicalmente innovativa portata avanti dallo stesso architetto francese in tutte le sue pubblicazioni, da Vers une architecture a L’esprit Nouveau a Plans fino al parallelo francese di “Quadrante”, Prelùde.
Ciò che qui si intende sostenere, in ultima analisi, è la valenza molteplice del riferimento al mito dell’antichità, classica o arcaica, in ambito razionalista, e la sua specificità nei confronti delle prassi di riappropriazione e rielaborazione che hanno caratterizzato altre posizioni artistiche contemporanee. Risulta chiaro infatti, che l’integrazione del referente classico all’interno del discorso di Bardi si impone sempre come presentazione di una esemplarità, ma a posteriori, che si rivela quindi una neppure troppo velata prova a sostegno della tesi razionalista, in un contesto culturale non certo uniformato sotto l’insegna di un “ritorno all’ordine” univoco, ma in cui anzi si rincorrono modalità di riferimento alla classicità (e/o alla ruralità) fra loro fortemente diversificate e spesso intrinsicamente contraddittorie55. Alla luce di questi elementi, appare evidente la scoperta dinamicità di quella “rarefazione puristica”56 che forse un po’ riduttivamente Silvia Danesi rintraccia nella posizione di “Quadrante”, al di là dell’effettiva necessità di approntare slogan in funzione della polemica contingente.
In particolare, la diversità della posizione di “Quadrante” da quella di altri due figure centrali del razionalismo italiano, Carlo Enrico Rava e Giuseppe Pagano, si articola paradossalmente proprio sulla modalità di attingere ai miti in questione: se Rava trova nell’architettura minore una “componente sorgiva”, non discosta da una utile “fonte di modelli tipologici”57 ossia da una possibilità di ispirazione che concilia le parti del dibattito italiano, per Pagano il presupposto di artigianato arcaico, di “ingenuità stilistica” per così dire, insita nelle costruzioni rurali, è garanzia di una aderenza ideale ed immediata di forma e funzione: la condizione sociale determina lo standard e lo giustifica moralmente, creando una serie di tipologie predefinite58. È uno standard modellato sulle ricerche tecnico-economiche tedesche, quello di Pagano. Sotto questa luce i richiami di Bardi invece all’idea di Le Corbusier di necessità ergonomiche studiate a priori sull’uomo come modello generale, che l’architetto francesce collegava a criteri psicologico-spirituali di “vivibilità” e benessere come elementi imprescindibili, non potevano non apparire astratti e fumosamente ideali. Ma sono questi i riferimenti che Bardi ripropone come chiave d’interpretazione della nuova architettura e del suo Congresso: “Noi apriremo la casa al sole e alla notte, alla luce, distruggeremo la via così com’è ora piena di inferno, di cigolii, di rumori sgangherati, di trombe; la spoglieremo dei mille fili che la traversano, ne faremo i settori di convegno, tra il verde. I nostri progetti prevedono una nuova biologia della città.” E accennando agli esperimenti di ambienti con pareti di vetro portati avanti dalle officine Saint Gobain, ricorda che essi “trovano contrari non solo i disegnatori d’architrave, ma i tecnici, e favorevoli i medici”59.
Del resto, come si è visto, è proprio in base all’astrattezza di questi elementi retorici che “Quadrante” riesce a creare una uniformità di immagine che lega concettualmente la cifra di solarità del regime e le sue mitizzazioni rurali alla riproposizione di una selezionatissima genealogia filo-ellenica del razionalismo italiano nonchè alle istanze di riappropriazione delle joies essentielles: ciel arbres, lumière stabilite sur le terrain de la biologie humaine (corps et esprit) da Le Corbusier60.
Il soffermarsi del discorso di Bardi sull’urgenza polemica chiarisce la trama dei riferimenti: “Noi per avvertire il carattere storico della nostra idea indicavamo il Partenone come esempio di razionalismo […] Una volta, il capostipite del “nuovo” razionalismo italiano, giacente ancora nelle file avverse, raccontò che la costruzione di tipo “bolscevistico” poteva andare bene per i paesi senza tradizione: egli riusciva a prendere due errori con una fava, perchè è noto che i Sovieti fanno dello stile greco-romano, e che Atene fa del razionalismo”61. La polemica contro Marcello Piacentini, di recente divenuto sostenitore di un certo razionalismo annacquato dopo averlo pubblicamente avversato, chiarisce bene i termini del contendere. Non di ispirazione stilistica si tratta, ma di attitudine estetica, morale e quasi filosofica al construire.
Poco sopra Bardi afferma: “Tutte le volte che noi, nelle nostre fortunate polemiche, assicuriamo che bisogna costruire con elementi standardizzati, ci vediamo costretti a subire il solito processo dei professori delle accademie di ‘belle arti’: eppure anche il monito che ci sta davanti è costruito a base di idee e cose standard: un tipo di colonne che si ripete”62. Qui lo standard è inteso ben diversamente dall’accezione tedesca accolta da Pagano, e non potrebbe essere altrimenti se nella visione di Bardi, mutuata da Le Corbusier, il ruolo del progettista-architetto si pone come mediatore irrinunciabile ed interprete delle esigenze del committente: “Il luogo comune che vorrebbe tutte uguali (e copiate) le nuove architetture va combattuto: il costruttore e il committente non rinunciano mai alle loro esigenze ambientali, e a soddisfare i loro reali bisogni”63.
Standard è invece metodologia costruttiva, standardizzazione appunto degli elementi modulari in funzione di una razionalizzazione del mercato dei materiali da costruzione. Il riferimento è alla vasta campagna in favore di una uniformità degli elementi prefabbricati usati in architettura, che caratterizzava il dibattito europeo e sarà uno dei punti forti della polemica di Bardi anche oltre l’esperienza di “Quadrante”64. “La somiglianza degli edifici, allora, si riduce alla mancanza di decorazioni, e forse al tetto piano, ed è una somiglianza che è notata dal profano, perchè chi ha l’occhio fatto su codeste cose non si arresta alla facciata, nel suo giudizio”65: allo stesso modo chi ha l’occhio fatto su codeste cose sa che “il Partenone è capolavoro di razionalismo” e che “il razionalismo è un’idea che si afferma come un atteggiamento, anzi il vero atteggiamento dello spirito europeo di oggi”66.
Sulla base di questi presupposti è allora finalmente possibile presentare la produzione dei giovani architetti greci, “pubblicando una fotografia eccezionale: una scuola eretta quest’anno secondo le regole del più intransigente razionalismo sotto le mura dell’Acropoli, una scuola che sta benissimo e che, per sentimento edile, mutando i tempi, la tecnica, la destinazione, è degna di figurare da queste parti”67. La strana espressione di Bardi, il “sentimento edile”, non è certo casuale: il trinomio tempi-tecnica-destinazione era infatti alla base della riproposizione del modello romano come summa nel monumentale. Eliminando questi tre aspetti della tradizione codificata dalle accademie ciò che resta è l’essenzialità della ricerca costruttiva. In particolare, “è sintomatico che il razionalismo sia arrivato in Grecia proprio da quella Bauhaus dei Gropius e dei Mies van der Rohe, traverso gli studi dei giovani architetti ateniesi”, fatto che offre l’opportunità a Bardi di portare avanti uno dei discorsi che più gli sta a cuore: “Pensiamo che l’attrazione dell’Italia dovrebbe aumentare a vista in quanto a studi di tecnica e d’arte: sarebbe ora che avessimo anche noi una ‘Bauhaus’, e si dessero incarichi di propaganda all’estero”68.
Un ulteriore spunto di riflessione in questo senso è dato dalla successiva visita al museo di arti minori del “signor Benachi”, di impianto etnografico, che offre a Bardi l’occasione per ricondurre l’interesse per l’oggettistica a quello della “storia della vita privata”69. Contemporaneamente però, l’attenzione per il dibattito contemporaneo lo porta a riscontrare nella produzione antica la mancanza di quella unitarietà stilistica che si ricerca nell’epoca attuale: “una frenesia per la minutaglia”, dunque, “per la calligrafietta, per il perditempo. Tutto è disuguale, particolare, individuale: segni propri delle epoche senza classe”, ossia delle epoche non collettive “è per questo che la nostra epoca non può sopportare che una percentuale minuscola di artigianato”70. L’urgenza di una chiarificazione uniformante di stile, come determinazione primaria dell’epoca, investe dunque anche il giudizio retrospettivo sulle testimonianze antiche offerte dall’etnografia.
La portata di questo assunto si rivela ben presto centrale: “I giovani hanno unificato i campi di azione in un campo di azione fondamentale, l’architettura. Partono dall’architettura per raggiungere le altre arti e per coordinarle a un principio che obbedisca a una legge di base: c’è stato bisogno di far tabula rasa delle bardature in cui l’estetica si era impelagata nei tempi di morta gora accademica, e di superare la soggezione male intesa dell’eredità della miliardaria epoca aurea. Sfrondando il ramo, potato, con la primavera rifiorerà”71. L’architettura non deve più essere vista “alla maniera professionale corrente, ma al modo vivo e volitivo della sua posizione cardinale tra le manifestazioni umane”72, ciò nell’ottica di una responsabilità di incidenza organizzativa della società nel crearne gli ambienti: in questo senso si può dire che “hanno costruite un’infinità di scuole, non di edifici scolastici”73.
Questa lettura di come le scelte progettuali ricadano necessariamente sul contesto sociale si discosta ancora una volta dalle posizioni di Pagano e sembra una risposta implicita, per quanto priva comunque di precise indicazioni applicative e tipologiche, alla successiva analisi di Edoardo Persico74. Bardi si spinge a scrivere che “i problemi del lavoro sono sempre previsti e risolti da un punto di vista di progresso sociale imperniato su fattori di ordine tecnico. In Grecia […] la politica sembra non abbia reale influenza nel Paese […] la vera azione di governo è esercitata dalla tecnica”75.
In definitiva, tracciando il bilancio dell’intervento, non si può non sottolineare come Bardi riorganizzi una serie di elementi già divulgati, in primis l’anticlassica e dirompente lettura dell’Acropoli come modello dimenticato di standardizzazione proposta in Vers une architecture, in un discorso dalle aperture retoriche ben calibrate che si cerca di armonizzare il più possibile alla vera intenzione polemica trainante: la questione della professionalità e della formazione nel panorama di una “architettura-arte di Stato”.
Risulta a questo punto chiaro come il CIAM in Grecia fosse per Bardi l’occasione ideale per sperimentare un tentativo di armonizzazione del diversificato insieme di urgenze problematiche intorno alla posizione razionalista. Il rimando alla presenza romana in Grecia, ad esempio, imprescindibile in quanto esplicitamente politico, viene risolto in funzione di un’ulteriore rafforzamento del discorso tecnico, collegando attraverso lo “spirito funzionale” dei Romani. L’acquedotto di Adriano viene introdotto per suggerire l’urgenza di una riforma agraria (che si suppone, naturalmente, di stampo fascista) e per celebrare la nuova diga per Atene, ultima impresa idroelettrica degli ingegneri greci76. A questo stesso contesto si salda l’immagine dei precedenti ingegneristici ottocenteschi: “Avevamo lasciato Corinto per riguadagnare Atene, e giunti sul ponte ci fermammo a osservare lo spacco che si staglia all’orizzonte con moli da muraglia micenica. Quest’opera della fine dell’ottocento è di respiro romano, da ingegneri idraulici romani”77.
Sempre all’interno del panorama greco come spunto contemporaneo si inserisce la polemica per il teatro moderno: “Le cose più interessanti di Argos sono una scuola razionale che abbiamo precedentemente descritto, un bel muramento romano avanzo di uno stabilimento termale, e il teatro per ventimila scavato nella roccia sul pendio di una collinetta. Questo teatro è del tipo classico e dappertutto ripetuto […] La tecnica della costruzione è il raggiungimento del massimo che potremmo richiedere oggi ai nostri architetti […] Anche la nostra epoca che ritorna a civiltà collettiva e sente la necessità di comunicare colla grande massa riunita insieme ha posto il problema […] Si tratta di risolvere un fatto tecnico, esclusivamente tecnico: concentrare in una sale ventimila persone a sedere […] ma gli studi dell’ingegnere italiano Gaetano Ciocca78 in proposito appaiono fin d’ora la risposta e il servizio più serio”79.
Su questa linea, l’urgenza di una raffronto diretto, quasi personale, con il passato si rivela infine, dopo la riappropriazione da parte dei “tecnici” sull’Acropoli, nel rapporto con le arti figurative. Nella presentazione della visita a Micene, definita “apice di civiltà,” la strategia di sospensione temporale introduce una più esplicita rivendicazione del discrimine fra elementi diversi del passato nella costituzione di una genealogia ideale. “L’androne dei guardiani sembra appena riassettato. Tutto è d’ieri, nei punti più rispettati: una trentina di secoli non sono gran che lontani. sembra più lontano il tempo in cui si portavano le parrucche incipriate: in genere sembra più antico tutto ciò che è storicamente molle, decadente, stupido; il solido, il maschio, lo spiritato ci è sempre vicino. Ci mettiamo con garbo un’armatura non un cilindro protestante” scrive Bardi, e conclude: “Nella storia ognuno gratta i suoi germi beniamini”80.
L’attenzione si sofferma sulle valenze cromatiche dell’arte antica, capace di veicolarne una lettura antirealistica, alla ricerca di una rivalutazione dell’elemento fantasioso: “Un popolo immaginoso, si intuisce dalla pittura, dalle coloriture che sono rimaste in qualche ceramica e in qualche vaso ed erma di pietra, accensioni, allegrie, meridionalismi di tinte rosse, nere azzurre”81. L’ingenuità meravigliosa, vitalistica, rappresenta secondo Bardi un elemento di cui fare tesoro per “noi riguardanti in cerca di un’estetica”: “Erano così meravigliati della prosperità della loro giornata che si esprimevano nelle pitture per via di meraviglia: occhi grossi, nasi lunghi, voluminosità muscolari, gambe lunghe, movimenti di slancio in gara con i caprioli. La vena è di buon’umore, con la satira che fa capolino, la stupefazione di com’è bello vivere e morire che governa tutto il regno delle rappresentazioni dipinte”82. Una sicura portata anticlassica, ed in questo senso antiretorica, anima l’immagine della pittura greca che si rivela, sempre “con Omero in mano”: “Come plastici sono asciutti, secchi, vigorosi. Riducono la figura umana a formule, in serie, decomponendola e ricomponendola per pezzi, snodandola come un manichino. Si va da una scala pupazzettistica alle imitazioni umane di sentimento frequente e vivido”83. Per comprendere pienamente questa rivalutazione è utile considerare l’impietoso giudizio sulla cosiddetta Via delle Tombe: “Con la tomba di Agamennone ancora negli occhi, questo cimitero che è tanto rinomato ci fece l’impressione di un elemento assolutamente secondario dell’archeologia ateniese. La scoltura è tutta manieristica, di riproduzione, eseguita da marmisti: il tempo con le sue patine e le sue muffette lumacose ha sbuffate le statue d’uno scuro grigio-verde che rimedia tutto il ginger dell’arte e dell’antico. I classicisti di un secolo e mezzo fa raschiavano il sudicetto per prendere contatto con la forma della plastica, gli arcaisti di oggi non vogliono fare nemmeno questa fatica e copiano anche i prodotti del tempo atmosferico. Pensiamo alla disinvoltura di tanti scultori che riescono a farsi chiamare moderni rimasticando l’antico con buccia e tutto”84. Se da un lato i sarcofagi più modesti testimoniano che “la povertà produsse un razionalismo di linee di castigatezza, di serietà, che ci fa pensare alla morte con schietti sentimenti sinceri”, dall’altro “le nicchie in cui sono scolpite le famiglie che confrontano il trapassato sono teatrali e farsesche”85. La Via delle Tombe diventa quasi una parodia antica del cimitero ottocentesco: “Il simbolismo riappare ad ogni palmo di marmo. questa malattia è congenita nell’uomo […] come un vecchio signore qui sepolto fece risapere la sua fedeltà alle leggi per mezzo di un cane sdraiato sopra la sua tomba, così oggi, dopo tanti secoli, a un ragazzino che è appena entrato nella scuola si insegna che il cane è fedele, eccetera”86.
In conclusione, la Cronaca di Bardi si rivela dunque momento emblematico nel processo di costruzione di contesti, polemici prima ancora che critici, per la nuova architettura. Il tentativo di portare avanti un discorso che si innesti su diversi binari necessita di una regia accuratissima. Nel corso della narrazione, i dettati politico-economici del Regime, in primis in questo caso la soluzione del problema rurale, si intersecano con la costruzione di uno scenario letterario-visivo in sè il più possibile coerente e proposto al pubblico della rivista insieme agli strumenti nuovi atti alla sua decifrazione. Sul piano della divulgazione il modello metafisico bontempelliano diventa paradigma di una approccio “moderno” e selettivo al retaggio della storia. Allo stesso modo giova sottolineare come certe tematiche ricorrenti nella produzione critica che ha accompagnato l’architettura moderna, ad esempio i riferimenti a Le Corbusier, non rappresentino semplici calchi ma vengano inglobate come nuclei concettuali attorno ai quali si struttura lo scenario stesso.
La questione della ruralità, in particolare, offre lo spunto per comprendere il valore che lo stesso Bardi riconosceva a un’orchestrazione polemica ad ampio raggio: l’intervento di Monotti, nella sua ancestrale atemporalità, gli spaccati paesaggistico-sociali nella Cronaca dello stesso Bardi, i successivi interventi pubblicati sulla rivista, di Gaetano Ciocca sulla Casa Rurale87 così come il “Progetto per una Fattoria” di Le Corbusier sul n. 1388, rappresentano diverse contestualizzazioni dello stesso problema, che convergono a determinare un clima ideale in cui gli elementi determinanti e discriminanti della nuova architettura si trovino ipso facto intrecciati alle priorità che lo Stato pone nelle sue (attese) commissioni.
L’anno successivo alla pubblicazione del primo numero di “Quadrante”, Edoardo Persico, lucido esegeta d’architettura e sostenitore del razionalismo, pubblicò una critica severa al modello di divulgazione e propaganda per l’architettura sub specie fascista codificata da Bardi rispetto alle prerogative del funzionalismo di impronta tedesca già sostenute da Pagano: “La polemica è riuscita a dirci soltanto che lo standard è il fondamento di una nuova bellezza. Lionello Venturi è stato troppo benevolo quando ha scritto che ‘vari autori dell’architettura nuova indulgono alla confusione tra problema estetico e problema pratico, e amano sorridere davanti alla parola estetica perchè sono degli ingegneri e non degli uomini; dei tecnici e non degli artisti’. Almeno per quanto riguarda i nostri architetti, pochissimi sono degli ingegneri o dei tecnici… Il contenuto pratico della nuova architettura è soltanto una forza ideale, è prima di tutto esplosione morale, non già preoccupazione realistica di bisogni. I nostri architetti credono che questa pregiudiziale sia invece soltanto un problema pratico, ed invocano l’intervanto dello Stato: ‘architettura arte di Stato’”89.
E tuttavia è innegabile che la costruzione retorica attuata da Bardi avesse un senso strategico ben più importante. Persico stigmatizza “Quadrante” per la sua astrattezza, ma “Quadrante” non è in definitiva una rivista per architetti, quanto una rivista di architettura per il fascismo, fatta da architetti, ma anche da critici, scrittori e artisti.
Una lettera di Bardi all’architetto Gian Luigi Banfi esplicita la situazione90, testimoniando come l’organizzazione del dibattito sulla rivista rappresenti per Bardi uno strumento esclusivo di dialogo con le autorità, delle quali si pone come interprete privilegiato, aggirando così, o tentando di aggirare, il sistema dei concorsi gestito dal Sindacato nazionale architetti. In questa ottica non pare azzardato ricondurre quella pretesa “astrattezza” più volte rimproverata all’ambiente di “Quadrante” alla volontà stessa di recepire sul momento le possibilità applicative offerte dagli spunti contenuti nei discorsi di Mussolini. In particolare, la parola del duce e, in misura minore, i dettati di Bottai vengono assunti da “Quadrante” come referenti unici ed esclusivi, dando luogo anche ad innovative sperimentazioni grafiche nell’impaginazione delle citazioni del capo del governo91.
Una simile impostazione programmatica, se da un lato rappresenta il naturale tentativo di creare un contesto per l’”architettura arte di Stato”, insegna sotto cui il gruppo di “Quadrante” si era del resto costituito, dall’altro impone necessariamente una divergenza operativa rispetto ai canoni delle altre riviste “di architettura” del periodo.
In particolare, appunto l’approccio alla questione dell’architettura rurale, nel raffronto con la pur successiva posizione di Pagano, chiarisce i termini della questione. Il problema morale che il condirettore di “Casabella” rintraccia nella necessità attuale di una produzione sottomessa alle “leggi dell’utilità, della tecnica, dell’economia”, capaci di depurare la “fantasia artistica” dell’architetto, trova la sua garanzia nella riproposizione di un modello di società arcaico, ed in ciò stesso primordialmente onesto e puro. Scriverà Pagano nel 1936, in quello che diverrà una sorta di manifesto della sua concezione del rapporto tra a-temporalità primordiale, etica (rurale e fascista) e forme architettoniche: “Soltanto recenti rivelazioni originate da un bisogno etico di chiarezza e di onestà, ci fanno superare ogni ritegno nel ricercare una dimostrazione storicamente documentata dei rapporti intercorsi tra l’architettura dei libri di storia e il soddisfacimento delle più semplici e meno vanitose necessità costruttive realizzate dall’uomo […] Dove le condizioni climatiche, le abitudini di vita, le condizioni economiche non hanno subito sostanziali modificazioni, le risultanti edilizie dell’architettura utilitaria non cambiano; dove la costruzione è interpretata come strumento di lavoro, e conseguenza della logica istintiva e primordiale dell’uomo scaturiscono ancor oggi le stesse risultanti edilizie”92.
Per il gruppo di “Quadrante”, invece, non di moralismo si tratta, ma di impegno morale come pianificazione di grandi imprese collettive, ossia assunzione della centralità del tecnico-architetto come organizzatore della nuova società fascista. Particolarmente chiara in riguardo, la posizione di Bontempelli, che riprendendo l’appello di Mussolini per il ristabilimento del “senso collettivo della vita”, sostiene: “Il dopoguerra e il fascismo vogliono essere interpretati ai secoli futuri dalle opere di destinazione collettiva, per tal modo il problema dell’architettura diviene problema totale. Le costruzioni che quei polemisti sopra citati chiamavano a dispregio ‘utilitarie’ diventano le costruzioni rappresentative, anzi ‘espressive’ per eccellenza. e se il borghese difficilmente riuscirà a capire un villino d’architetto moderno […] per contro il popolo con tutta naturalezza accetta l’arte nuova, perchè essa soddisfa in pieno la sua limpida necessità di identificare il bello con il semplice; lui usa chiamare bello il sano, ciò che in ogni sua parte funziona secondo il proprio fine […] In questo senso annunciavo che il problema dell’architettura va considerato come problema politico cioè in definitiva come problema morale”93.
In questo impianto programmatico il ruolo di “Quadrante” come rivista di architettura tout court viene necessariamente a ridimensionarsi in funzione di una più variegata orchestrazione di voci e posizioni, alla ricerca di un “fronte unico dell’estetica”94: è quanto del resto rimproverano al direttore gli stessi architetti che vi collaborano, interessati principalmente ad un organo che si facesse carico dei loro problemi di visibilità95.
Ci si può chiedere, a questo punto, se la rielaborazione di Bardi, riassemblando elementi del dibattito architettonico, atmosfere letterarie e divulgazioni metafisiche, operi una effettiva presa di posizione nel contesto culturale del periodo o non dia luogo più modestamente a una rimasticazione sterile di tematiche già altrove codificate. Per far questo, è necessario sondare l’incidenza effettiva del portato critico-propositivo della rivista, e della funzionalità della retorica dell’antico che la caratterizza, chiarendo in primo luogo il contesto critico europeo a cui partecipa ed analizzando le strategie di presentazione attarverso le quali imposta il dibattito su uno dei concorsi-simbolo del decennio, quello per il Palazzo del Littorio.
Note
1 Il testo di questo saggio è tratto da una tesi di laurea in gran parte inedita (Quadrante, 1933-36, Università degli Studi di Pisa, a.a. 1997-1998) basata su ricerche d’archivio condotte presso il Mart di Rovereto, la Bibliothèque Kandinsky di Parigi e Les Archives Sartoris a Cossonay (Svizzera). La tesi ha ricevuto il Premio per Migliore Tesi di Laurea sulla Storia del Giornalismo (sezione Giornalismo culturale), a.a. 1997-1998, indetto dall’Ordine dei Giornalisti di Milano e della Lombardia. Copie della tesi si trovano dalla fine degli anni novanta in consultazione presso le biblioteche di ricerca del Mart di Rovereto e del Centre Pompidou di Parigi. L’immagine che apre questo articolo è tratta da P.M. Bardi, Grecia, fotomontaggio (Foto Peressutti), “Quadrante”, n. 16-17, agosto-settembre 1934, p. 11.
2 Per questo tema, cfr. Maria Elena Versari, Inhabiting Ideology: “Quadrante” and the paradigm of the machine à habiter in Fascist Italy, in Housekeeping. The Artistic Legacy of Le Corbusier’s machine à habiter, a cura di Anna Novakov e Elisabeth Schmidle, New York, The Edwin Mellen Press, 2008, pp. 73-88.
3 A questo argomento è dedicato Maria Elena Versari, “Quadrante” tra Roma e la Grecia: modelli di dibattito francesi ed italiani sulle radici del modernismo negli anni Trenta, in “Bulletin de l’Association des Historiens de l’Art Italien” (Paris), 9, 2003, pp. 41-54.
4 Come era stato posto dall’intervento di Waldemar George intitolato Rome et nous sul n. 1 di “Quadrante” (maggio 1933). Sulla questione, cfr. Versari, “Quadrante” tra Roma e la Grecia, cit.
5 Cfr. [Bardi], Viaggio di architetti in Grecia, in “Quadrante”, n. 5, settembre 1933, p. 1.
6 Cfr. Francesco Monotti, L’urbanismo di Mussolini. Littoria – Sabaudia – Pontinia, in “Quadrante”, n. 5, settembre 1933, pp. 2-5.
7 Il riferimento è alla necessità di migliori condizioni di vita: “Popolo forte e antico che ha bisogno di essere sollevato, potenziato, messo al livello della civiltà nuova sgorgata dalla rivoluzione” (ivi, p. 2).
8 Ibidem.
9 La ragione è qui elemento maschile, attributo del dio occidentale. Uno spunto per questo genere di approdi critici può provenire dalla lettura di Bachofen, Il matriarcato (1861), le cui idee vennero riscoperte a partire dagli anni ’20; per l’analisi del retaggio antropologico nella cultura degli anni ’20 e ’30, cfr. almeno Furio Jesi, Il mito, Milano, Isedi, 1973 e Id., Cultura di destra, Milano, Garzanti, 1979.
10 Non manca un riflesso di un certo gusto per il “macchinismo” e l'”uomo-macchina”, dall’omuncolo faustiano in poi.
11 Cfr. Monotti, L’urbanismo di Mussolini, cit., p. 5.
12 Per l’interpretazione delle imprese di bonifica come testimonianza della centralità della cultura tecnica nel nuovo panorama politico-culturale, cfr. P.M. Bardi, Ingegneri, in “Quadrante”, n. 21, gennaio 1935, pp. 39-40.
13 Cfr. P.M. Bardi, Cronaca di Viaggio, in “Quadrante”, n. 5, pp. 5-35.
14 Cfr. Carlo Cresti, Architettura e fascismo, Firenze, Vallecchi, 1986, p. 119: “In verità la dimensione e il carattere ‘urbano’ di Littoria nascevano un po’ per caso in quanto il programma di popolamento delle terre pontine – gestito, come le bonifiche, dall’Opera Nazionale Combattenti – prevedeva, in un primo tempo, la realizzazione di colonie agricole e di borgate rurali di servizio. Ma l’architetto Oriolo Frezzotti, incaricato del progetto di questa prima borgata, disegnando uno schema planimetrico ricalcante il vecchio modello di tracciato viario a raggiera (intersecato da strade anulari) diramantesi da una grande piazza centrale, poneva le premesse per la configurazione di una tipologia ‘cittadina’”.
15 Le Corbusier, La ferme radieuse, in “Prelude”, n. 14, novembre-dicembre 1934.
16 Cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 5.
17 Ivi, p. 6.
18 Ibidem.
19 Ibidem.
20 Nella Cronaca di Bardi, appunto, ma anche nel discorso tenuto da Le Corbusier e riportato per sommi capi dalla rivista (La parola di Le Corbusier, p. 36), nella ricapitolazione generale dei temi del Congresso (p. 41), nella risposta degli architetti italiani al questionario distribuito durante la traversata (Il questionario del Congresso, pp. 41-43) e nel commento di Gino Pollini (Commento al questionario, p. 43).
21 Le Corbusier, La parola di Le Corbusier, in “Quadrante”, n. 5, p. 36.
22 Cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 7.
23 Ibidem.
24 Ivi, p. 8.
25 Ivi, pp. 8-9.
26 Cfr. Le Corbusier, Vers une architecture (1928), Paris, Flammarion, 1995. Per una trattazione della visione dell’architettura e della accezione di “tecnica” in Le Corbusier, cfr. almeno Roberto Gabetti, Carlo Olmo, Le Corbusier e “L’Esprit Nouveau”, Torino, Einaudi, 1988.
27 E Bardi le inserisce ironicamente anche, in fondo, nella tavola in cui presenta le fotografie dei partecipanti al Congresso, quasi a suggellare visivamente la loro problematica “partecipazione” al dibattito; cfr. Demonio a tre corpi dal frontone, del Tempio primitivo d’Atena, in “Quadrante”, n. 5, settembre 1933, p. 11.
28 Cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 9.
29 Ibidem.
30 Ibidem.
31 Ossia nel contesto antiscolastico dell’esthétique de l’ingégneur; cfr. Le Corbusier, Vers une architecture, cit., p. 5 e sgg.
32 “Gli umili arrivano quassù e sono subito a casa. I saputelli sono fugati e confusi. Chi ha rifatto una di queste colonne, contraffacendola, porta un marchio di stupidità per tutta la vita (e sono, purtroppo, molti i ruminatori dello stile)”; cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 9.
33 Ibidem.
34 Con i relativi addendi classificatorii di classicità winkelmanniana.
35 Cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 9.
36 Riferendosi al colonnato del tempio, scrive Bardi: “I turisti propriamente detti lo infastidiscono con la loro pretesa di sentire la bellezza un’occhio sul libretto e uno su un capitello (i turisti finiscono sempre col tornare a casa con un’indigestione di aneddoti)”; ibidem.
37 Ivi, p. 25.
38 Ivi, p. 24. La ricostruzione “mentale” dell’opera antica come unica dimensione di “riappropriazione” è ben sviluppata in questa nota di Praz: “Apprendiamo che l’arte greca era governata da idee pitagoriche e platoniche di euritmia a tal segno, che uno ne è subconsciamente avvertito anche alcune parti sono alterate o soppresse. Un profilo perduto di donna, la porzione di una spalla, la curva di un’anca, un frammento di sagoma distante, sono sufficienti al subconscio per ricostruire o indovinare l’armonia del tutto, una statua greca dell’età mutilata, ridotta a un frammento che normalmente sarebbe informe (marmi del Partenone, ecc.) rivela la melodia espressa alla sua creazione nella sua integrità, perchè il ritmo architettonico, o tonico, o plastico è percepito come un insieme; il fatto che alcuni tratti della proporzione mancano o sono obliterati, in genere non lede l’unità ritmica dell’insieme, nè ne impedisce la percezione; la ricostruzione nella mente che percepisce è per così dire automatica”; cfr. Mario Praz, Mnemosine. Parallelo tra la letteratura e le arti visive, Milano, Mondadori, 1971, p. 165.
39 “La notte che siamo arrivati, sulla terrazza dell’architetto Dragumis, ci fu mostrato lo scenario dell’Acropoli illuminato da riflettori predisposti al margine delle muraglie. Eravamo sotto al Licabetto, forse a due chilometri in linea d’aria: pareva un teatrino. Le mondanità dei sovrintendenti sono dunque arrivate fin qui” scrive Bardi e, più sotto, aggiunge: “La perfezione costruttiva del tempo di Pericle non ha bisogno di imbonimenti pubblicitari”; cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 9. Una posizione del tutto differente è quella di Carlo Belli, ad esempio nella descrizione che dà dei concerti sinfonici alla Basilica di Massenzio: cfr. Carlo Belli, Kn (1935), Milano, Scheiwiller, 1988, pp. 40-41.
40 “La bellissima che transita con il passo d’una pantera ha il potere di popolare il marmo di sacerdotesse. Le statue del musetto, dalle treccine sui seni e dagli occhietti a mandorla, capitano qui; i guerrieri si riaggiustano le gambe e le braccia e arrivano festanti. Il Partenone è retrocesso per l’attimo che basta nel suo tempo: la fantasia sobbalza per squartare ogni velo, per sondare ogni lembo, per annidarsi pian piano in noi. Il nostro è armeggiare di un istante, di un solo istante”; cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 9.
41 Sul ruolo dell’ironia bontempelliana come contrappeso alla misticità “metafisica” di Carrà, cfr. Paolo Fossati, La “pittura metafisica”, Torino, Einaudi, 1988, pp. 145-147. Per la complessa questione della riproposizione dell’antico mediante la dimensione teatrale, portata avanti in quegli anni dal grecista ed accademico d’Italia Ettore Romagnoli, amico e sostenitore di Belli e organizzatore delle rappresentazioni classiche di Siracusa (1911-27), cfr. il giudizio negativo di Bardi: “il ricordo ci suggerisce che lor signori fanno persino della commedia greca negli anfiteatri: greco antico modernizzato. Non esiste la sola piaga degli architetti copisti”. Una simile posizione era stata portata avanti dai futuristi siciliani nel 1921 con il Manifesto futurista per le rappresentazioni classiche al teatro greco di Siracusa, apparso sul periodico di Bragaglia “Cronache di Attualità”, a. V, n. 5, maggio 1921; cfr. Elisabetta Mondello, Roma futurista. I periodici e i luoghi dell’avanguardia nella Roma degli anni venti, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 55-56.
42 Cfr., ad es., Città e Campagna (1931), in Massimo Bontempelli, Stato di grazia, Firenze, Sansoni, 1942, p. 91: “E che ai piedi di quest’albero noi, noi stessi, sediamo come sedeva il primo uomo che fu, come sederà l’ultimo. Siamo i contemporanei così dell’uno come dell’altro. È abolita intorno a noi la coscienza travolgente e satanica del tempo. La vista delle cose naturali ci immerge in pieno senso dell’eterno”.
43 Ivi, pp. 92-93.
44 Cfr. Bardi, Cronaca, cit., p.16.
45 Cfr. Monotti, L’urbanismo di Mussolini, cit.
46 “Quando un popolo ha brutte costruzioni ha scarsa civiltà, scarsa virilità, scarsa genialità” scrive Bardi, e ancora: “Il Partenone è stato concepito in uno stato di grazia suprema: tutto un popolo sano e volitivo ci ha pensato, e gli architetti sono sono stati dei semplici mediatori tra lo stato d’animo della ‘città nella quale il nemico assalitore non disdegna di essere vinto’ e il tempo”; cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 10.
47 Ibidem.
48 Ivi, p. 16.
49 Ibidem.
50 Ibidem.
51 Ivi, p. 19.
52 Una posizione che porta anche ad una lettura ironica dell’autorità vitruviana: “Le prime colonne furono certamente tronchi d’albero, il piatto rinforzo della testa di quelle rozze colonne suscitò l’idea del capitello: l’ordine dorico è completamente funzionale, risultato di tecnica di gente semplice che non aveva tempo da perdere”. E ancora, non senza un sottofondo moralistico: “Più tardi ancora, la gente non ha proprio più niente da fare, e non sa come ingannare il tempo: per fortuna muore una nobile e pura giovaninetta, e la servente riunite le vesti e altre suppellettili le mette in un cestino e le depone presso la tomba, con una pietra sopra, le erbe e i fiori crescono intorno al cestello; passa un architetto, guarda, e dice: -ecco il capitello che fa per me-. Era nato lo stile corinzio” (ivi, p. 24).
53 Ivi, p. 10.
54 “Quadrante” pubblica numerosi interventi legati al progetto “corporativo”, ed alle sue implicazioni in campo urbanistico, ed articoli su e di Bottai, soprattutto ad opera di Bernardo Giovenale: cfr., ad es., Esperienza corporativa nella vita di fabbrica sul n.1-1933; L’opera di Giuseppe Bottai sul n.6-1933; Idee sulle Corporazioni, n.7-1933, tutti di Giovanale; Totalità Perennità Universalità della rivoluzione fascista dello stesso Bottai sul n. 8-1933; Camera Politica e Camera Corporativa di Giovenale e La città corporativa di Ciocca e Rogers sul n. 10-1934; Per la città corporativa di Ciocca e Le corporazioni, lettera di un operaio di Alfredo Giarratana sul n.11-1934; Urbanistica anno XII. La città corporativa di G.L. Banfi e L.B. Belgioioso sul n.13-1934; ecc. Per i rapporti fra “Quadrante” e l’ambiente di Bottai, in particolar modo in relazione ai legami con “Critica Fascista”, cfr. Francesco Tentori, P.M. Bardi. Con le cronache artistiche dell'”Ambrosiano”, 1930-1933, Milano, Mazzotta, 1990, segnatamente pp. 68 e segg.
55 Per l’analisi di diversi esempi di queste sovrapposizioni retoriche, cfr. Michelangelo Sabatino, Pride in Modesty. Modernist Architecture and the Vernacular Tradition in Italy, Toronto, University of Toronto Press, 2010.
56 Cfr. Silvia Danesi, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista. Mediterraneità e Purismo, in Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, a cura di Silvia Danesi e Luciano Patetta, Venezia, Edizioni la Biennale di Venezia, 1976, p. 21.
57 Ibidem.
58 Per una visione più completa della posizione critica di Pagano e soprattutto della sua visione della tecnica come strumento di depurazione morale, cfr. Giuseppe Pagano, Struttura e architettura, in AA.VV., Dopo Sant’Elia, Milano 1935, ora in Paola Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia. Manifesti polemiche documenti. Dal Novecento ai dibattiti sulla figura e sul monumentale, 1925-1945, vol. III, tomo I, Torino, Einaudi, 1990, pp. 281-284.
59 Cfr. Bardi, Cronaca, cit, p. 34.
60 Cfr. Le Corbusier, La parola di Le Corbusier, cit., p. 36.
61 Cfr. Bardi, Cronaca, cit, p. 10.
62 Ibidem. Si tratta di un calco da Vers une architecture: “Il faut tendre à l’établissement de standarts pour affronter le problème de la perfection. Le Parthéon est un produit de sélection appliqué à un standart. L’architecture agit sur des standarts. Les standarts sont chose de logique, d’analyse, de scrupuleuse étude; ils établissent sur un problème bien posè. L’experimentation fixe définitivement le standart”; cfr. Le Corbusier, Vers une architecture, cit., p. 103.
63 Cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 13.
64 Questa posizione lo metterà in contrasto con la successiva diffidenza in proposito da parte di Le Corbusier; cfr. P.M.B., Elementi del nuovo Vignola, in “L’Italia Letteraria”, n. 31, 23 agosto 1936, p. 6.
65 Cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 13.
66 Ibidem.
67 Ibidem. È la prima avvisaglia di quella auspicata “architettura mediterranea, l’attesa di un’architettura mediterranea che resti come affermazione di questo secolo conglobando e riassumendo lo stile che si cerca”.
68 Ibidem. L’auspicio fu in parte realizzato con la serie di conferenze tenute in America Latina da Bardi nel corso dell’anno seguente.
69 “Avevamo visto finora la Grecia di fuori, le civiltà ci sono apparse grosso modo dal di fuori, nelle architetture, nelle suppellettili più conservabili; ma quante nostre aspirazioni di conoscenza non sono state appagate. L’ordinatore di questo museo è curiosissimo nelle incursioni retrospettive. Egli deve essersi posto un giorno la domanda: -come vestivano? come pregavano? come mangiavano? e così via”; cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 30.
70 Ivi, p. 31.
71 Ivi, p. 14.
72 Ibidem.
73 Ibidem.
74 Cfr. Giuseppe Pagano, Struttura e architettura, in Barocchi, Storia moderna, cit.; Edoardo Persico, Punto e a capo per l’architettura, in “Domus” (1934), ora in Barocchi, Storia moderna, cit., pp. 284-298.
75 Cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 14.
76 Cfr. P.M. Bardi, Un servizio di Adriano, in Id., Cronaca, cit., p. 14-15.
77 Cfr. P.M. Bardi, Il canale sopra e sotto, ivi, p. 29. Altro esempio di ricontestualizzazione in una visione d’insieme di una intuizione, il parallelo fra l’ingegneria ottocentesca e le grandi opere romane, già divulgata da Le Corbusier.
78 Gli interventi di Ciocca rappresentano snodi centrali nell’organizzazione delle polemiche da parte di “Quadrante”. In particolare il dibattito sulla necessità di un “Teatro di Masse” si sussegue a ritmo serrato sulla rivista. Cfr. Gaetano Ciocca, (Servizi a Mussolini) Il Teatro di Masse, in “Quadrante”, n. 3, luglio 1933; Id., Ancora sul Teatro di Masse, in “Quadrante”, n. 8, dicembre 1933; Id., Aspetti tecnici del Teatro di Masse, in “Quadrante”, n. 14-15, giugno-luglio 1934; Id., (Il Teatro di Masse) Il nome di Battesimo, in “Quadrante”, n. 21, gennaio 1935.
79 Cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 24.
80 Ivi, p. 25.
81 Ibidem.
82 Ibidem. Alla luce di questa lettura risalta pienamente il valore strategico che Bardi attribuiva al progetto di rivalutazione dei pittori “candidi”, come Garbari e Di Terlizzi, trovandosi in questo in accordo con Carlo Belli. Per la questione dei “candidi”, punto di riferimento è il saggio dedicato da Belli a Garbari; cfr. Carlo Belli, L’angelo in borghese. Saggio sopra un ignoto contemporaneo (1937), Milano, Scheiwiller, 1986.
83 Cfr. Bardi, Cronaca, cit., p. 25.
84 Ivi, p. 30.
85 Ibidem.
86 Ibidem.
87 Cfr. Gaetano Ciocca, La Casa Rurale, in “Quadrante”, n. 22, febbraio 1935; Maria Silana, (Casa Rurale) Per il Mezzogiorno, con commento di Giovanni Monaco, in “Quadrante”, n. 25, maggio 1935; Gaetano Ciocca, (Servizi per Mussolini) Progetto di casa Rurale, in “Quadrante”, n. 26, giugno 1935.
88 “Quadrante” riporta il testo delle due lezioni tenute dall’architetto svizzero a Roma nonchè numerose tavole dedicate al progetto di una “Fattoria”; cfr. [Le Corbusier], Urbanesimo e architettura secondo Le Corbusier; Id., Misure d’insieme; Dado, Interpretazione di Le Corbusier, in “Quadrante”, n. 13, maggio 1934.
89 Persico, Punto e a capo per l’architettura, cit., pp. 290-293.
90 Alle rimostranze di Pollini, che gli rimprovera il largo spazio concesso a Ciocca sulle pagine della rivista, Bardi risponde in una lettera a Banfi: “Dovete capire che, se andasse in porto questa questione della casa rurale, tutti gli architetti di ‘Quadrante’ avrebbero da fare” [lettera del 21 giugno 1935]; cfr. Tentori, P.M. Bardi, cit., p. 135.
91 La rivista si apre spesso con la ripubblicazione di testi di Mussolini, a cui segue di solito un commento di Bardi o Bontempelli. Caratteristica di “Quadrante” diviene inoltre l’abitudine di accompagnare gli articoli con citazioni del Duce, impaginate a mo’ di illustrazione; cfr. ad es. il testo “Noi dobbiamo creare un nuovo patrimonio da porre accanto a quello antico un’arte nuova un’arte dei nostri tempi un’arte fascista M.”, che occupa due mezze colonne, delle tre disponibili, a fianco dell’articolo di Guido Modiano, Situazione Grafica, in “Quadrante”, n. 1, maggio 1933, p. 21. Cfr. inoltre la composizione della sigla, “M SI W”, riprendendo stralci di un’intervista di Mussolini sulla questione abissina, riportata dal giornale “Ottobre”, in “Quadrante”, n. 27-28, luglio-agosto 1935, p. 3.
92 Giuseppe Pagano, Gualtiero Daniel, Architettura rurale italiana, in “Quaderni della Triennale”, Milano 1936, ora in Giorgio Ciucci, Francesco Dal Co, Architettura italiana del ‘900. Atlante, Milano, Electa, 1990, p. 137.
93 Massimo Bontempelli, L’architettura come morale e politica, in L’avventura novecentista. Selva polemica (1926-1938). Dal “realismo magico” allo “stile naturale” soglia della terza epoca, Firenze, Vallecchi, 1938, pp. 477-485. Lo scritto è datato agosto ’33.
94 È così che Bardi definisce l’intento programmatico della rivista sul primo numero; cfr. P.M. Bardi, Massimo Bontempelli, Principii, in “Quadrante”, n. 1, maggio 1933, p. 2.
95 Per il dibattito interno alla rivista a questo riguardo, cfr. Fulvio Irace, Confronti: il laboratorio milanese negli sviluppi dell’architettura razionale, in Luigi Figini, Gino Pollini. Opera completa, Trento, Palazzo delle Albere, 11 gennaio-13 aprile 1997, a cura di Vittorio Gregotti e Giovanni Marzari, Milano, Electa, 1996, pp. 33-53.