Giunta quest’anno alla quindicesima edizione, la Festa internazionale della storia, che si tiene ogni anno a Bologna nel mese di ottobre, è stata probabilmente la prima manifestazione culturale a livello europeo a porre l’accento sulla divulgazione della storia, mettendo in comunicazione l’università con scuole di ogni ordine e grado, associazioni ed enti pubblici e privati attivi nel tessuto culturale, sociale, economico della città e del territorio. La dirigono gli storici Rolando Dondarini e Beatrice Borghi, che hanno fondato il Centro Internazionale di Didattica della Storia e del Patrimonio (DiPaSt) presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin” dell’Università di Bologna. L’intervista è a cura di Eloisa Betti.
Da quali esperienze trae origine la Festa della Storia?
Dondarini: Le sue premesse risalgono ad una serie di attività concepite e intraprese alcuni decenni fa da un consistente gruppo di docenti, neolaureati e studenti uniti dalla volontà di dare risposte concrete al bisogno di rendere più efficace e proficuo l’insegnamento della storia sia a livello universitario sia nell’ambito scolastico più ampio. La motivazione di fondo era data dalla constatazione delle carenze che affliggono tale insegnamento, ancora troppo ancorato al nozionismo e ai metodi trasmissivi unidirezionali e perciò generalmente poco apprezzato dagli studenti nonostante il suo fascino potenziale. Con l’intento di promuoverne un significativo rinnovamento, i componenti del gruppo originario fondarono alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso il Laboratorio Didattico (Lad) che operò per vari anni nel Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna puntando a rendere disponibile l’ampio ventaglio di opportunità didattiche accessibili sia all’interno dell’Ateneo sia nella realtà culturale cittadina, territoriale e nazionale. In collaborazione con le commissioni e gli studiosi del Dipartimento, questo gruppo dapprima condusse il censimento delle risorse interne poi giunse alla confezione di dossier tematici di cui si avvalsero molti docenti nei loro corsi. Nel frattempo operava per attivare rapporti con enti ed istituzioni culturali cittadine e regionali, instaurando collaborazioni regolari e permanenti e ampliando così, come da suoi scopi originari, le occasioni didattiche a disposizione di insegnanti e studenti. Visti i positivi risultati, nel maggio del 1992 si volle costituire il Laboratorio Multidisciplinare di Ricerca Storica, un sodalizio tuttora attivo che si propone come associazione volontaria, aperta a chiunque intenda svolgere ricerche storiche, coniugando credito scientifico, creatività, gradimento e fruibilità, attraverso attività ad un tempo rigorose e gratificanti, proprio in funzione della loro attendibilità e del concorso di più competenze ed interessi. I suoi principali obiettivi sono la promozione e l’attuazione di tutte le possibili iniziative di documentazione, ricerca, studio, valorizzazione e divulgazione di argomento storico. Senza fini di lucro, le varie attività vengono espletate dai componenti del Laboratorio, sulla base degli interessi personali, in un’ottica di collaborazione collettiva e di convergenza multidisciplinare delle più diverse competenze. Questi criteri hanno consentito di realizzare numerose attività di ricerca che hanno permesso l’abbinamento con iniziative didattiche e divulgative di alto profilo qualitativo, quali convegni nazionali e internazionali, corsi per studenti e docenti, pubblicazioni, cicli di conferenze, visite e sopralluoghi a siti di interesse storico/artistico e archeologico. Emblematiche in proposito le collaborazioni instaurate dal Laboratorio con il Teatro Comunale, con il Conservatorio Giovan Battista Martini e con il DAMS che hanno portato centinaia di studenti ad entrare in contatto con la storia attraverso la musica sinfonica, la lirica e le arti della drammatizzazione. Pur privilegiando le occasioni di scambio e di interrelazione tra tutti i componenti, per favorire la ricerca e la produzione tanto collettive quanto personali, l’associazione si è articolata in gruppi di interesse in cui operare per fini e temi specifici. Nei ventisei anni di attività ha promosso e realizzato numerose iniziative di portata cittadina, nazionale e internazionale, tra cui dal 2003 la Festa Internazionale della Storia.
La Festa affonda le radici in un evento speciale?
Dondarini: Dal 1998 tra le nostre attività svolte in collaborazione con le scuole iniziammo a tenere i “Parlamenti degli studenti” che nelle sede consiliari dei comuni e della provincia consentivano agli scolari che avevano partecipato a progetti di ricerca di esporne gli esiti e di fare proposte in merito. Queste nostre attività suscitavano apprezzamenti e consensi che spesso si traducevano in nuove iniziative e proposte. Così nel 2002 l’allora Presidente del Quartiere Saragozza di Bologna, Ambra Potitò ci chiese di fornire di un retroterra culturale una manifestazione promossa per fini prevalentemente commerciali. Si trattava de “La Porticata”, una sorta di festa indetta per rianimare il portico tra Porta Saragozza e l’arco del Meloncello. Pur avendo poco tempo a disposizione, decidemmo di preparare insieme alle scolaresche uno spettacolo che traesse motivi e spunti dalla leggenda e dalla storia dell’icona della Madonna di San Luca e della costruzione del lungo portico che conduce dalla città alla Basilica. Ci impegnammo tutti con molto entusiasmo a tenere incontri nelle scuole portando le copie di documenti d’archivio con cui gli studenti entravano in contatto con le fonti. Nelle scuole materne e primarie gli alunni furono invitati a colorare e trasformare le copie delle stampe settecentesche che raffiguravano i momenti della leggenda e della storia. Così nel giro di un mese e mezzo riuscimmo ad allestire una rappresentazione per la quale i bambini prepararono i testi e le immagini come fossero dei cantastorie. In sintesi il coinvolgimento e l’attivazione degli scolari nella ricerca avevano generato una partecipazione entusiastica ed un apprendimento efficace e duraturo che li portava ad sentirsi custodi del bene indagato.
Come nacque il Passamano per San Luca?
Dondarini: Durante le attività di preparazione mi resi conto delle potenzialità di un brano di cronaca che si riferisce ad un evento del 17 ottobre del 1677, quando si stava per intraprendere la costruzione della parte collinare del portico di San Luca. Il problema preliminare che si doveva affrontare era quello di far giungere il materiale da costruzione nei punti elevati in cui si era stabilito di dare il via ai lavori. Per un simile trasporto non si disponeva che del sentiero impervio che percorrevano i pellegrini per raggiungere il Colle della Guardia; pertanto si decise di formare una lunga catena umana chiamando dapprima i garzoni dei filatoi da seta e mettendoli uno di fianco all’altro; a loro si aggiunsero molte altre persone che si passarono di mano in mano le pietre e i sassi occorrenti per iniziare i lavori. È un evidente esempio di solidarietà che nel nome di uno scopo comune e attraverso singoli gesti compiuti insieme aveva generato una grande impresa.
Decisi pertanto di proporre una riedizione del Passamano per le sue evidenti implicazioni di didattica attiva e di assunzione di consapevolezza e responsabilità nei confronti del patrimonio comune. Ci preparammo fin dall’autunno del 2002, coinvolgendo le scuole nella ricoperta delle vicende che avevano portato all’edificazione del portico, nella preparazione di una grande mostra dei materiali elaborati e nella realizzazione di un convegno sul pellegrinaggio che si tenne a San Giovanni in Monte. In vista del Passamano ci si applicò nella preparazione degli oggetti da passare di mano in mano, dato che ovviamente non aveva più senso passarsi pietre e sassi come c’era scritto nel documento. D’accordo con scolari ed insegnanti, si decise di costruire un grande mosaico di legno che contenesse le scene dipinte dai bambini tratte dalla leggenda e dalla storia dell’icona mariana; dall’eremita che la portò da Costantinopoli fino al passamano originario con cui si iniziò la costruzione del tratto collinare del portico. Il risultato fu un trittico di legno formato dalle tante formelle che i bambini si passarono lungo il portico quando il 31 maggio del 2003 rievocammo il Passamano; il trittico venne montato sul palco allestito nel piazzale della basilica al cospetto di migliaia di persone e di molte autorità cittadine che assistettero allo spettacolo tenuto da bambini e ragazzi. Fu un successo enorme per la partecipazione di molte scuole che fecero a gara per realizzare le loro ricerche secondo le loro diverse potenzialità; alcune scuole medie superiori ad esempio condussero un’indagine ineccepibile sulla presenza in Europa di altre icone mariane attribuite alla mano dell’evangelista Luca; altre condussero rilevamenti tecnico-fotografici sull’architettura dei portici. Ci rendemmo conto che proporre la storia così, con la partecipazione attiva degli studenti, apriva dei campi infiniti e soprattutto aveva dei riscontri nel campo dell’educazione al Patrimonio e della Cittadinanza attiva. La ricerca sulla storia del Portico di San Luca faceva dei bambini e dei ragazzi dei protagonisti, rendendoli tutori di quel bene. Cogliendo al volo questa potenzialità abbiamo deciso di rilasciare loro una pergamena in cui c’è scritto “ha partecipato al Passamano di San Luca e quindi è diventato vigile e custode del Portico”. L’anno dopo ci impegnammo ad estendere il coinvolgimento che avevamo ottenuto col Passamano alla città intera e a tutti i temi e i periodi della storia: così che è nata la Festa.
La Festa diventa in breve tempo un evento centrale per la città di Bologna, perché?
Borghi: Tutto è nato da questo studio e da questo coinvolgimento collettivo che erano focalizzati sulla Madonna di San Luca e sulla costruzione del Portico. Nei mesi successivi ci siamo impegnati ad allargare l’attenzione e la partecipazione in orizzonti più ampi. Attraverso la collaborazione degli insegnanti e mettendo a disposizione le nostre competenze, ogni scuola è stata invitata ad assumere un ruolo attivo nello studio di argomenti di storia della città e del territorio, adottando un monumento, indagando su volti e aspetti del tessuto urbano, studiando periodi, eventi e personaggi, rilevando problemi di degrado e avanzando proposte di miglioramento. Per favorire scambi e dialoghi tra coloro che conducevano le indagini su aspetti simili, li raggruppammo in quadri d’assieme che in base al concetto di patrimonio resero possibili diversi convegni di cui erano protagonisti gli stessi scolari. Per dare solennità a queste assunzioni di responsabilità il 24 maggio 2004 tutti gli scolari coinvolti si ritrovarono nell’aula Magna di Santa Lucia dove ricevettero dalle autorità presenti l’investitura ad indagare sul tema prescelto. Erano più di 1200 studenti di tutti i gradi scolastici che divenivano i depositari di un riconoscimento pubblico del loro impegno per la conoscenza e la cura della città e del territorio. Dunque a partire dal Passamano per San Luca, da quella pergamena che riconosceva ogni partecipante come vigile e custode di quel bene, qualunque aspetto della città poteva essere analizzato come la tessera di un puzzle da ricomporre in un quadro più ampio. Dallo studio, alla conoscenza, all’assunzione di responsabilità che rende ogni partecipante un tutore e garante di quella basilica, di quel palazzo, di quel parco, di quel panorama. Era l’anticamera della Festa sarebbe iniziata subito dopo assumendo subito un grande rilievo proprio per la partecipazione su cui si basa.
C’è un’idea della funzione civile della Storia dietro alla creazione della Festa?
Borghi: Fin dall’origine il Passamano non era che l’esito festoso di tutto quello che si faceva durante l’anno attraverso la collaborazione tra il nostro Laboratorio e gli insegnanti aderenti ai vari progetti. L’obiettivo di queste molteplici attività era creare momenti di condivisione con la città; quindi un’opportunità di conoscenza che si avvalesse dell’apertura del contesto della scuola agli altri ambiti associativi pubblici. C’è stata un’evidente progressione dai primi parlamenti degli studenti, all’articolarsi dei progetti didattici, dei quadri d’assieme, fino alla Festa della storia che coerentemente si è basata sul concetto civico della partecipazione. È stata una strada in salita; i primi anni andavamo nei centri sociali, con gli anziani che giocavano a carte mentre noi parlavamo di storia; raccontavamo la storia di Bologna e spesso eravamo ascoltati con fastidio. Creare quell’alleanza, è stata durissima. In definitiva tutte le attività intermedie sono state più importanti della Festa stessa; in particolare sono state fondamentali le circostanze in cui abbiamo incontrato gli insegnanti e gli studenti nei loro istituti o nelle nostre sedi accademiche e abbiamo stimolato un ascolto reciproco. Del resto i momenti più significativi di questi incontri si erano avuti fin dalle origini nei Parlamenti degli studenti che da vent’anni teniamo nelle sale consiliari dei comuni e della provincia.
Come sono nati i “Parlamenti degli studenti”?
Dondarini: A generarli è stata l’esigenza di dar voce a coloro che partecipavano alle attività di ricerca. Si tratta degli eventi più significativi della nostra attività; quelli nei quali si percepisce con chiarezza il nesso e il passaggio tra la ricerca e la capacità di incidenza, tra la conoscenza acquisita e la facoltà di fare proposte motivate. I bambini e i ragazzi che vi partecipano si rendono conto dell’importanza del momento che vivono con solennità: si sentono investiti di una grande funzione e provano un’evidente emozione mentre percepiscono direttamente e concretamente di poter fare proposte sulla base di quello che hanno imparato. Il cuore è proprio il passaggio tra conoscenza e incidenza, l’approdo a quella cittadinanza attiva che tante volte viene evocata in maniera un po’ fumosa. In fondo si tratta della traduzione pratica del motto che contraddistingue la nostra “scuola”, cioè “Le radici per volare” che nel suo apparente paradosso sintetizza la volontà di conoscere per essere più liberi e creativi. Come è noto i Parlamenti degli studenti si sono consolidati in Italia in innumerevoli realtà locali su iniziativa delle amministrazioni comunali. In questo caso, si parte dall’Università, grazie ad alcuni docenti che si impegnano per una corretta divulgazione scientifica, da portare nelle scuole con semplicità ma con rigore, creando insieme momenti di condivisione a partire dalla consapevolezza delle problematiche che ci sono nella scuola. In tal modo l’università si pone come ponte per favorire la comunicazione tra la scuola e il territorio.
La Festa della storia nasce con un approccio didattico alternativo alla storia e si trasforma in una grande manifestazione cittadina. Come avviene questo importante passaggio?
Dondarini: La formula che si è rivelata vincente è quella di proporre la storia attraverso alcuni aspetti che fanno parte delle attività umane. Una storia che scende dal suo piedistallo teorico e nozionistico e si confronta con le attività e le espressioni umane: la musica fa storia, l’arte fa storia, il cibo fa storia, lo sport fa storia, la moda fa storia… Questa visione ci ha arricchito moltissimo, ci ha dato la possibilità di coinvolgere gli studenti in svariate attività. Ad esempio da sempre collaboriamo con gli istituti alberghieri, in particolare con il “Bartolomeo Scappi” di Castel San Pietro; una collaborazione che ci consente di entrare in grandi temi come quelli dell’agricoltura, dell’alimentazione, della sostenibilità dello sviluppo; temi che vengono esposti insieme dagli esperti e dagli studenti. Che ci sia un nesso vitale tra musica e storia è incontestabile e per la musica noi disponiamo di molteplici opportunità: dalle collaborazioni col Conservatorio e col Teatro Comunale al proficuo rapporto con molti gruppi corali tra cui il coro della scuola di musica “Bernstein School” che tutti gli anni, dalla prima edizione in poi, presenta una lezione spettacolo su un tema o un periodo della storia del musical. Penso che sia stato questo tam tam naturale tra tutti i protagonisti della Festa a diffonderne l’idea; molti che partecipavano da invitati un anno, hanno poi fatto da vettori per altri; così per il mondo associativo e per le scuole. Nel diventare Festa ti devi poi confrontare con il territorio e le istituzioni ed è lì che è stata veramente dura, perché devi comunque mantenere la tua identità che è super partes e la tua autonomia.
Come si è sviluppato il rapporto tra la Festa e le istituzioni?
Borghi: Il rapporto con tutte le istituzioni a tutti i livelli lo devi coltivare con cura e pazienza; è basato su costanza e perseveranza e su una credibilità che si conquista sul campo, con impegno e fatica. Con alcune entità pubbliche attive nel campo dei beni culturali la collaborazione era d’obbligo fin dalle origini; così quindi con l’Istituto per i Beni Culturali. Tra le prime istituzioni a riconoscere il valore del nostro lavoro c’è stata la Provincia di Bologna in sintonia con molteplici attività culturali che promuoveva e svolgeva da tempo. Ci ha manifestato approvazioni e sostegno anche il Comune di Bologna col quale si è giunti ad una convenzione che consente di metterci a disposizione sale prestigiose a titolo gratuito. Di recente sono giunti riconoscimenti e sussidi anche da parte del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e da parte della Regione Emilia-Romagna. Discorso analogo si può fare anche in relazione ai pochi sponsor che ci sostengono: all’inizio c’era scetticismo, ma poi ci hanno un appoggio convinto, lodandoci e riconoscendo il valore di quello che facciamo.
La Festa anticipa il più recente trend della Public history, come si pone nel nuovo clima culturale?
Dondarini: Personalmente, temo sia molto teorico quello che sta avvenendo e che in realtà si stiano dando nomi nuovi ad attività già condotte senza quelle definizioni. Noi non avevamo mai chiamato ciò che facciamo “public history”, ma non c’è dubbio che lo sia; cosa c’è di più pubblico del suscitare interesse e partecipazione per le ricostruzioni storiche e del trarne consapevolezza e responsabilità per la comune vita presente e futura. Noi di fatto stiamo cercando da sempre di invertire la percezione non positiva della storia; se la gran parte delle persone la percepisce con disinteresse e senso di passività, noi dobbiamo agire in senso opposto: motivare ed attivare: questo è il modo per rendere vitale questo enorme contenitore che è divenuto la Festa.
Borghi: All’inizio ero un po’ scettica sul concetto di “public history”, conoscendo la storia e guardando quel movimento degli anni Settanta nato in realtà ben lontano dall’Europa e sviluppatisi in una modalità diversa rispetto all’Italia. La storia americana e inglese è diversa dalla nostra, là ci sono dei dipartimenti di “public history” con loro specifici insegnamenti. Per noi si tratta di una nuova etichetta per cose che da decenni, anche in Italia e in Europa, si facevano già. Se c’è un’etichetta, public history, storia condivisa, storia pubblica, che possa riunire tutti in questo grande cappello, che possa dare dignità a quello che fa e ha sempre fatto lo studioso, va benissimo: noi abbiamo partecipato alla fondazione e facciamo parte dell’Associazione italiana di Public History. È stato importante definirne un manifesto che noi condividiamo pienamente e nel quale ci sono molti aspetti che fanno parte del manifesto della nostra “scuola” delle “Radici per volare” della Festa della storia. È una strada in cui ci si può ritrovare, che può avere tante vie; va però definito bene l’impianto scientifico-divulgativo perché non basta realizzare feste o sagre per fare davvero “public history”.
Come è avvenuto il processo di gemmazione della Festa della storia, che dal territorio bolognese si è espansa in altre località italiane ed europee?
Borghi: In questo campo possiamo registrare una prevalenza di gemmazioni estere rispetto a quelle italiane. Credo che chiunque abbia vissuto dall’interno la Festa della Storia ne abbia capito le finalità profonde. Le riedizioni locali sono avvenute attraverso colleghi che hanno vissuto con noi l’esperienza della Festa e l’hanno subito importata nei loro contesti. Così è stato otto anni or sono per l’Università di Cahen in Andalusia, attraverso la professoressa Consuelo Díez Bedmar. In seguito si sono sviluppati rapporti nel campo della didattica della storia con l’Università di Barcellona – in particolare con il professor Pratz – che si sono tradotti in una convenzione firmata dal comune di Bologna e dalla Municipalità di Barcellona per la realizzazione di una Festa in quella città, a cui purtroppo non si è ancora dato seguito. Infine ricordo i colleghi dell’Università di Siviglia – in particolare Paco Garcia – che hanno partecipato e partecipano tutt’ora alla Festa bolognese e che hanno deciso di fare la loro “Fiesta de la historia”, che è figlia di quella bolognese ma presenta i caratteri specifici che loro hanno scelto di dargli. Quattro anni fa siamo stati invitati alla loro prima Fiesta e abbiamo potuto constatare non solo la freschezza e l’originalità della loro manifestazione, ma anche il forte coinvolgimento di un intero quartiere. Da due anni quella iniziativa è promossa e gestita da un consistente gruppo di giovani studiosi che collaborano coi docenti universitari che ne sono stati i fondatori.
Queste gemmazioni ci sono state anche in Francia, con Cahors e Perigueux, e in Italia, con Milano, che ha tratto una sua specifica versione che si chiama “Milano fa storia”, con Parma che ha la sua Festa da tre anni e con Castel San Pietro Terme, che ha la sua da nove anni. Tu immagina come in questo microcosmo una manifestazione così partecipata generi un coinvolgimento quasi generale: più la realtà è piccola più crei coesione sociale con tutte le istituzioni locali. Vi sono state tutte queste gemmazioni perché chi ha partecipato alla Festa si è ritrovato nel suo manifesto per un insegnamento e un apprendimento della storia da condurre in maniera attiva; quindi operando perché le indagini e le conoscenze siano rese accessibili, manifeste e pubbliche, creando occasioni per fare la storia a partire da un metodo rigoroso e scientifico, ma non per questo astruso e passivizzante, bensì comprensibile e gratificante.
Che bilancio tracciate a quindici anni dalla nascita della Festa?
Borghi: Se penso a questi ultimi quindici anni vedo il senso della mia scelta professionale, della mia vita. È ciò che conferisce senso al mio ruolo sociale di storica: comunicare la storia e formare il cittadino di domani, educare alla cittadinanza democratica. Alcune scelte sono costate, e molto; già dalle prime edizioni la Festa era cresciuta divenendo una grande macchina capace di assorbire dieci mesi di lavoro all’anno: “avete creato un mostro”, ci disse un giorno Alessandro Barbero. Al termine di un evento della decima edizione prendemmo il microfono e comunicammo che sarebbe stata l’ultima Festa perché lavoravamo 24 ore su 24, sabato e domenica compresi. Certo avevamo il supporto di volontari ma si era resa impellente l’esigenza di creare un’organizzazione interna non estemporanea attivando un “passamano” di compiti e responsabilità con giovani capaci come Filippo Galletti, che peraltro possono contare su una struttura ampiamente rodata e consolidata che dispone di un suo patrimonio di esperienze. Con la prossima siamo alla quindicesima Festa ma è già dalle prime edizioni che siamo consapevoli che per realizzare tanti eventi occorre contare su apporti certi. Non basta l’estemporaneità di un convegno. Una manifestazione tanto articolata comporta un’organizzazione e una consapevolezza che crei costruendo un sistema complesso che ti fa capire su cosa contare. Da quest’anno abbiamo coinvolto negli eventi alcune ex-studentesse ed alcuni ex-studenti che portano i loro progetti didattici. Laureate e laureande, insegnanti e studenti che partecipano alla Festa: questo è il vero Passamano.
Perché avete scelto il termine Festa e non Festival?
Dondarini: È la nostra matrice che ha fatto si che ci chiamassimo “festa” e non “festival”. Noi esigiamo che gli eventi che promuoviamo siano partecipati e coinvolgenti. Ad esempio, quando nel 2016 abbiamo incrociato il Nono Centenario del Comune di Bologna e ne abbiamo realizzato alcuni eventi all’interno della Festa, li abbiamo caratterizzati facendo sì che gli illustri relatori invitati a tenere conferenze dialogassero con studenti e studiosi locali. La Festa quindi non è unidirezionale: è questo coinvolgimento, questa attivazione che noi dobbiamo mantenere e salvaguardare. La carta di intenti che chiediamo di firmare a chi intende realizzare manifestazioni che si ispirano alla nostra compendia questa partecipazione come criterio fondamentale e irrinunciabile. Ormai ci sono tante “feste”, “fieste” e “fêtes”, ma visto il loro grande successo ci si potrebbe chiedere perché non ce ne sono molte di più; è che realizzarle è impegnativo e non si improvvisa. In fondo se si dispone del denaro necessario per compensare relatori illustri non è difficile promuovere una serie di conferenze, anche di alto profilo; ma non è questo che noi perseguiamo. Ciò che conta per noi è che la comunità vi partecipi davvero e non perché fa moda ascoltare il tale esperto.
Borghi: Noi vogliamo essere “festa” perché un “festival” è tipicamente una rassegna di eventi creati fuori dal contesto locale, mentre per noi sono essenziali come già detto tante volte il coinvolgimento e la partecipazione della comunità. Non abbiamo nulla contro i festival, ma sappiamo tutti che spesso a promuoverli sono organizzazioni esterne che ne affidano la realizzazione a personale non del luogo, tanto che in quei casi la comunità locale non solo non viene coinvolta nel costruire il programma, ma non vi partecipa nemmeno con propri eventi. Nella nostra Festa bolognese la partecipazione è ampia e coinvolge anche piccole realtà locali che ne divengono protagoniste, come i musei grandi e piccoli che punteggiano la città e il territorio e che durante la Festa danno e ricevono ulteriore vitalità alla manifestazione. La Festa si costruisce con la città e il territorio e con il loro patrimonio, un festival si avvale di persone e di eventi che per quanto accattivanti possono rimanere estranei alla comunità locale. Fra l’altro una simile prospettiva comporta anche un esborso economico consistente che, se manca, può compromettere la stessa sopravvivenza dell’intera iniziativa. I finanziamenti sono importanti, perché fra l’altro consentono l’acquisto delle opportunità di diffondere gli eventi, ma non dovrebbero essere irrinunciabili o esosi. Se c’è la città che è coinvolta nel fare eventi che nascono nella città, e quindi se è una vera festa, è un’altra cosa. Nel 2017, il Miur ha riconosciuto la Festa internazionale della storia (e tutte le attività che vi si svolgono) come la più importante manifestazione di educazione alla cittadinanza attiva, concedendoci anche un finanziamento. Naturalmente è stato motivo di grande orgoglio per noi, per il nostro Centro e per l’intero Ateneo come hanno sottolineato lo stesso Rettore e la direttrice del nostro Dipartimento.
Che cos’è e come nasce il “Premio Le Goff”?
Dondarini: Come detto, a spingerci verso le attività che abbiamo intrapreso tanti anni fa è stata l’evidenza delle inadeguatezze che – pur con pregevoli eccezioni – caratterizzano l’insegnamento della storia a tutti i livelli; inadeguatezze e trascuratezze che naturalmente riguardano anche noi e alle quali a volte non sembrano dare adeguate risposte nemmeno alcuni di coloro che si curano ufficialmente della didattica della storia che come disciplina troppo spesso sembra frapporsi come ulteriore diaframma teoretico alla promozione di efficaci forme di apprendimento. Su questa strada non eravamo soli, nel senso che ci ispiravamo a figure e pensieri che ben prima di noi si erano impegnati proficuamente a migliorare l’insegnamento. Tra gli altri il grande filosofo e pedagogista John Dewey con la sua attenzione all’esperienza come fattore formativo e gli esponenti delle “annales” francesi. Tra costoro io avevo la fortuna di aver conosciuto il grande medievista Jacques Le Goff di cui leggevo da decenni testi stimolanti che invitavano a riconoscere la storia come faro dell’umanità e a diffonderne la conoscenza tra i giovani avvalendosi del suo fascino. Fin dalle prime iniziative riallacciai un rapporto epistolare con il grande studioso che ci esprimeva la sua sintonia e piena approvazione; finché in occasione delle prime edizioni della Festa della Storia ottenemmo che ci inviasse degli articoli di presentazione e di introduzione alla manifestazione. Per noi era un’opportunità insperata perchè le grandi testate nazionali facevano a gara per pubblicare quegli articoli e noi in tal modo avevamo un visibilità che non avremmo mai potuto acquistare con i pochi fondi a disposizione. Poi nel mondo degli storici e della cultura scoppiò la polemica provocata dall’uscita del libro di Dan Brown Il Codice da Vinci; quasi una ribellione contro gli abusi e le invenzioni degli autori che diffondono falsità speculando senza alcun fondamento sui misteri della storia. Fu allora che pensammo di proporre a Le Goff di istituire all’interno della Festa della Storia ormai affermata un premio di cui lui stesso fosse l’eponimo e da conferire a chi si fosse distinto nel diffondere conoscenza storica con correttezza, conciliando rigore scientifico ed efficacia comunicativa. Le Goff la accolse con entusiasmo e ci propose di realizzare un’intervista a casa sua a Parigi da dove non si spostava più a causa della sopravvenuta infermità. Ci accolse l’8 ottobre del 2008 e gli consegnammo il prototipo del premio, un portico in ceramica che simboleggiava la città di Bologna. Così “Il portico d’oro” ebbe il suo primo e prestigioso assegnatario che ci volle ringraziare rilasciandoci una preziosa intervista in cui sottolineava fra l’altro che il dovere di ogni insegnante e di ogni persona che si occupa di storia è quello di renderla accessibile a tuti perché vero faro dell’Umanità.
Gli anni successivi fino alla sua scomparsa il premio fu assegnato su proposta dell’apposito comitato scientifico e su sua approvazione a figure di grande fama che hanno conferito all’intera manifestazione ulteriore prestigio. A riceverlo sono stati Giovanni Minoli, Alberto Angela, Peter Denley, Eugenio Riccomini, Alessandro Barbero, Franco Cardini, Christiane Klapisch Zuber, Antonio Paolucci, Andrea Emiliani, Jared Diamond.
Come è nato il Centro internazionale di didattica della Storia e del Patrimonio (Dipast)?
Borghi: Il Dipast nacque nel 2008 come centro di ricerca del Dipartimento di Scienze dell’Educazione, proprio sulla scia del premio internazionale “Le Goff, Il portico d’oro” che fu il suo primo obiettivo. Oltre a promuovere la Festa, ha dato corpo alla scuola “Le radici per volare” e sviluppato una sua collana di pubblicazioni. Il primo volume raccoglieva tutte le esperienze di didattica realizzate dai musei, in un momento difficile perché gli operatori e gli insegnanti che avevano arricchito per decenni le attività didattiche stavano andando in pensione ed era necessario salvaguardare il patrimonio delle loro esperienze nella didattica del patrimonio. La creazione di un Centro di ricerca dell’Università di Bologna è stata importante per dare dignità scientifica a tutte le attività, dai parlamenti degli studenti al nostre metodolodie denominate “Le radici per volare”. L’espressione apparentemente paradossale è stata tratta da un detto dei pellerossa nativi del Canada, secondo il quale i genitori devono dare ai figli le radici e le ali: le radici che li orientano legandoli al loro contesto e che sono le basi per spiccare il volo. La finalità del DiPaSt è dunque quella di incoraggiare le occasioni di studio, ricerca e interscambio in grado di sviluppare collaborazioni tra reti di scuole, enti e sedi deputate alla raccolta, alla conservazione e alla salvaguardia del patrimonio.