Zuma, il capolavoro nascosto di Neil Young. Una redenzione rock all’ombra delle piramidi messicane

Why do you ride that crazy horse?
(Neil Young, The Old Homestead, 1980)

 

Alla fine del pranzo mettevano sulla tavola dei bocciuoli di canna dipinti e dorati, dentro dei quali era un balsamo con cert’erba detta tabacco cui si dava fuoco; levate le mense e dopo che i buffoni avevano cantato e ballato, il gran Montezuma aspirava un po’ di fumo da quei bocciuoli e a poco a poco si addormentava
(Bernal Díaz del Castillo, Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, cit. in Mario Monti, Gli esploratori, Milano, Longanesi, 1965)

 

Se consideriamo, come molti in effetti considerano, il 1965, con  l’uscita di Rubber Soul e di Like a Rolling Stone, l’anno in cui il rock diventa adulto1, allora due lustri più tardi, anno di grazia 1975, il rock è ormai un signore di una certa età, precocemente invecchiato, che comincia a mostrare evidenti segni di cedimento. Le grandi band nate tra l’inizio e la metà dei Sessanta non ci sono più da tempo o sembrano non aver più granché da dire (si pensi agli Who, ai Rolling Stones, agli stessi Pink Floyd super patinati di Wish You Were Here). Dominano pressoché incontrastati gli eccessi del progressive, che ha perso ormai definitivamente la visione sperimentale degli esordi per avvitarsi sui dei virtuosismi fine a se stessi; l’hard rock più muscolare e il country rock più melenso, mentre la vena di molti singer-songwriters, così prolifica tra la fine dei “favolosi” Sixties e l’inizio del nuovo decennio, pare essersi inaridita, adagiandosi su canzoni che sono spesso degli esercizi di stile estetizzanti. Anche se, per la verità, proprio nel ’75 Bob Dylan, reduce da una teoria di dischi decisamente non memorabili (con la parziale eccezione di Planet Waves), se ne esce fuori con quello straordinario flusso di autocoscienza poetica che è Blood on the Tracks2. Un’eccezione rilevante, come altre se ne contano sia chiaro (il 1975, fra le altre cose, è anche l’anno del mastodontico Physical Graffiti dei Led Zeppelin, da molti considerato il volo più alto spiccato dal dirigibile di Page & Plant, nonché, per spaziare tra i generi, dell’esordio a 33 giri di Patti Smith, della consacrazione di Bruce Springsteen e del prodigioso Live! At the Lyceum di Bob Marley), ma in generale il panorama rock, se paragonato con quello di due-tre anni prima, come con ciò che accadrà nel ’77, è abbastanza asfittico. Proprio mentre nei ritmi sempre più sinuosi e sincopati di certa musica soul, specie versante Motown, s’intuiscono i primi vagiti di quella che di lì a non molto diventerà nota come disco music. E mentre, tra Londra e New York, una new generation di giovani arrabbiati sta volutamente scordando le chitarre col proposito impertinente di fare piazza pulita di tutti i “dinosauri” e di restituire il rock ‘n roll al suo spirito originario.

Tra questi “fossili” del rock giace, almeno per alcuni degli iconoclasti più intransigenti, anche Neil Percifal Young3, canadese naturalizzato californiano, prossimo a compiere i 30 anni. Che per gli standard dell’epoca (nessuno, nemmeno i diretti interessati, nemmeno Mick Jagger e Keith Richards, si sarebbe sognato di calcare ancora il palco a settant’anni e passa) sono quasi l’età del non ritorno, oltre la quale non è più consentito suonare il rock pena l’apparire, come minimo, poco credibili. Un “fossile” non tanto per la sua produzione da solista, sempre onesta e sorretta da sufficienti dosi di sgraziata chitarra elettrica (Young, del resto, avrebbe guardato con entusiasmo alla rivoluzione punk, venendone nel tempo affettuosamente ricambiato)4, quanto per la sua, sia pur rapsodica, militanza nel “supergruppo” di Crosby Stills Nash e (appunto) Young, che agli occhi dei futuri punk rockers rappresentano forse i massimi epigoni della filosofia e dell’autocompiacimento hippie.

In realtà il loner canadese arriva a metà decennio stremato da una crisi esistenziale che lo ha condotto sull’orlo della depressione. Perseguitato dal ricordo dell’amico Danny Whitten, il chitarrista compositore leader dei Crazy Horse (la band con la quale ha condiviso la carriera solista poco dopo lo scioglimento dei Buffalo Springfield), morto di droga nel novembre del ’72, Young si sente intrappolato in panni non suoi, catapultato controvoglia nello stardom dalle vendite stellari di Harvest (febbraio 1972) e del singolo che ne ha fatto da apripista, Heart of Gold, suo primo (e ultimo) numero uno nelle classifiche USA. Un quasi trentenne confuso, impaurito, che si descrive amaramente come a pauper in a naked disguise/a millionaire through a businessman’s eyes5: un poveretto che tenta invano di camuffarsi, nient’altro che un milionario agli occhi di un qualunque smaliziato uomo d’affari. E che vagheggia la fuga da tutto e da tutti, where they don’t care who I am6, dove a nessuno importi sapere chi è. Da quel periodo di crisi, peraltro, è nata la cosiddetta ditch trilogy, la trilogia del “fosso”7, ovvero, in ordine di uscita, Time Fades Away (ottobre ’73), On the Beach (luglio ’74), Tonight’s the Night (giugno 1975; ma inciso quasi due anni prima). E se il primo, registrato interamente dal vivo durante il tour che doveva promuovere Harvest e che invece si risolse in una specie di consapevole autosabotaggio commerciale, è un disco un po’ sconclusionato8, sebbene non privo di momenti interessanti; gli altri due possono essere annoverati, come sono quasi unanimemente, tra le sue vette artistiche di sempre. 

Fatto sta che la seconda metà del 1975 vede un Neil Young di nuovo completamente padrone di se stesso, con una gran voglia di tornare a suonare del sano e robusto rock ‘n roll senza fronzoli. Una vera e propria rinascita, che passa dalla ricostituzione dei Crazy Horse, rivitalizzati dall’ingresso in formazione, sul finire del ’74, del ventiseienne di ascendenze spagnole Frank “Poncho” Sampedro. Un chitarrista ritmico preciso e mai invadente, che si rivelerà lo sparring partner ideale per le lunghe galoppate elettriche di Young.

Le prove di quello che diventerà il suo settimo LP di studio avvengono in una villa di proprietà dell’attrice Goldie Hawn, che lo storico produttore di Young, David Briggs, affitta appositamente allestendovi un intero studio di registrazione. Siamo a Point Dume, nella splendida località marittima di Malibu, California merdidionale, contea di Los Angeles9. Vicino alla famosa Zuma beach, che darà – almeno in parte, come vedremo – il titolo all’album. Tra Young e quello che da allora in poi sarà il “suo” gruppo si crea fin da subito un’alchimia perfetta. Sampedro e i veterani Ralph Molina (batteria) e Billy Talbot (basso) non sono dei virtuosi dei loro strumenti, come d’altronde non lo è Young, ma suonano con una forza e una passione travolgenti e contagiose, che poi nel rock è quello che conta per davvero. Lo sa fin troppo bene Young, che infatti non si cura affatto delle critiche di chi, ad esempio il sempre polemico David Crosby, non capisce perché si ostini a suonare con “quella gente” («a cavalcare quel cavallo pazzo», parafraserà il canadese un po’ di anni dopo in un brano dell’album Hawks & Doves).

Le sedute di registrazione di Zuma terminano il 29 agosto 1975; il disco vede la luce negli USA il 10 novembre, due giorni prima del trentesimo compleanno di Young, accolto da recensioni generalmente più che favorevoli, e raggiungerà il 25° posto nella classifica di «Billboard»dei 200 album più venduti negli States10. Con l’eccezione di due brani acustici, databili entrambi alla tarda primavera del ’74, la splendida Pardon my Heart (con il session man Tim Drummond al basso), che avrebbe dovuto far parte di un fantomatico progetto intitolato Homegrown, e l’altrettanto bella Through my Sails, registrata con Crosby, Stills e Nash per un abortito secondo album in studio del quartetto; il disco ha un feel totalmente elettrico sorretto dal più canonico formato chitarra-basso-batteria.

Non mi dilungo nell’analisi dei singoli brani11, anche perché non esiste miglior descrizione dell’ascolto (che ovviamente è più che raccomandato); ma non posso non fare un’eccezione per gli oltre sette, incredibili minuti di Cortez the Killer, una delle pietre miliari della musica rock americana. Il brano, divenuto negli anni un classico live, palestra per le lunghe digressioni solistiche di Neil Young alla sua Gibson “Old Black”, nasce dalla fascinazione dell’autore (che poco prima dell’inizio delle registrazioni compie non a caso un viaggio “esplorativo” in Messico) per la storia e la cultura dei nativi americani. Risalgono proprio alle sessions di quel periodo, del resto, altri brani variamente ispirati all’immaginario e alle vicissitudini degli “indiani”, del Nord e del Sud America, come Ride my Llama e Pocahontas (oltre alla ballad elettrica di ambientazione western Powderfinger), che vedranno la luce nel luglio del ’79 in Rust Never Sleeps.

Le liriche raccontano liberamente, attraverso una serie di suggestive immagini, dell’incontro/scontro tra il conquistador spagnolo Hernán Cortés, che nella primavera del 1519 giunge «danzando sulle acque» in vista delle coste messicane, e Montezuma II, tlatoani, imperatore, degli aztechi (più propriamente mexica)12. Un evento che, nel volgere di poco tempo, porterà alla morte cruenta del “gran re” (al quale il disco, il cui titolo si può leggere appunto anche come l’abbreviazione di Montezuma, è di fatto dedicato) e alla distruzione dello stesso impero mesoamericano. Young ritrae la società azteca in termini fortemente idealizzati: un mondo idilliaco in cui «l’odio era solo una leggenda» e la «guerra era sconosciuta». Una mistificazione, diciamolo pure, tenuto conto che quello mexica era un popolo di conquistatori bellicosi che aveva assoggettato le genti circostanti, costrette a versare pesanti tributi, anche in termini di sacrifici umani (la cui pratica, ampiamente diffusa in tutto il Centro America, rivestiva un ruolo centrale nell’organizzazione della comunità azteca). Tanto è vero che uno dei motivi del rapido e per taluni aspetti sorprendente (considerata la enorme sproporzione delle forze in campo) crollo dell’impero messicano fu il sostegno dato a Cortés e ai suoi, presentatisi come liberatori dalla tirannia, dalle popolazioni sottomesse. Ma a Young la veridicità storica interessa relativamente. La sua è – in questo caso per davvero – una visione hippie fuori tempo massimo, in cui all’avidità e alla perfidia dei “bianchi” sedicenti portatori della civiltà si contrappongono la spontaneità e la mitezza degli indios, che vivono in armonia con le leggi e i tempi della natura. Una visione in cui non può mancare il riferimento alla droga, nella fattispecie le «foglie di coca» consumate dall’imperatore azteco il quale, al chiuso delle «sue stanze», non di rado si smarrisce «nei segreti dei mondi».

Musicalmente, Cortez ha una struttura quasi free-form (adatta appunto a espandersi in lunghe jam sessions), con il cantato che inizia soltanto dopo più di tre minuti preceduti da un ipnotico solo di chitarra elettrica. Le strofe sono intervallate da altri assolo che si librano e ricadono in volute quasi psichedeliche, disegnando un paesaggio sonoro di rara suggestione13. È l’apice riconosciuto di Neil Young come chitarrista e – per chi scrive, ma qui si potrebbe aprire un dibattito infinito – dell’intera chitarra rock, Jimi Hendrix compreso, come espressione artistica autonoma.

Una curiosità: in Spagna, rimasta da pochissimo orfana del generalissimo Francisco Franco, non gradirono per nulla l’epiteto di assassino appioppato all’eroe della Conquista e nella copertina e nell’etichetta del vinile distribuito dalla onnipresente compagnia nazionale Hispavox (il cui logo peraltro somigliava a un simbolo araldico, con tanto di elmo e scudo) il titolo Cortez the Killer divenne, pur  conservando la grafia inglese, un anodino Cortez Cortez.

Un cenno anche per la copertina, disegnata dall’artista James Mazzeo, amico d’infanzia di Young14. Sebbene divenuta iconica, non la si può in tutta onestà considerare bellissima. Il fatto che a me piaccia parecchio dimostra soltanto, se non si fosse ancora capito, che, più che da critico – cosa che non sono né ho mai pensato di essere – scrivo soprattutto da fan devoto.

Dalla pubblicazione di Zuma in avanti Neil Young ha alternato lavori ottimi (con almeno un capolavoro riconosciuto: Rust Never Sleeps) ad altri così così e altri ancora francamente assai brutti. Un percorso altalenante, più che normale nell’arco di una lunghissima carriera che dura ancora oggi, ben oltre la soglia d’età in cui nel ’75 si dava per lecito suonare il rock ‘n roll.

Se non lo troverete nelle liste dei dieci, trenta ecc. dischi più importanti della storia (per quello che queste classifiche possono contare), nella sua semplicità Zuma rappresenta, a mio avviso, un esempio illuminante di come sia – o sia stato – possibile creare della grande musica con due chitarre elettriche, un basso e una batteria. Ovvero della classicità senza tempo della migliore musica rock.


Note

1 Su quel fondamentale anno di svolta, si veda Andrew Grant Jackson, 1965, the Most  Revolutionary Year in Music, New York, Thomas Dunne Books, 2015.

2 Al capolavoro dylaniano e all’evento live che ne seguì, la Rolling Thunder Revue, il tutto inquadrato nel più ampio contesto socioculturale del decennio, dedica alcune belle pagine Howard Sounes, Anni 70, la musica, le idee i miti, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 265 ss., che mi sento di consigliare anche come lettura propedeutica a chi volesse approfondire il periodo.

3 Neil Young è una delle figure più importanti della musica rock; è normale che gli siano state dedicate numerose monografie. Tra quelle in lingua italiana ho trovato eccellente Stefano Frollano, Fabio P. Pellegrini, Neil Young. (After) The Gold Rush, Milano, Arcana, 2015. Lo stesso Young ha recentemente firmato due lavori autobiografici, erratici e frammentari e tuttavia essenziali per chiunque voglia conoscerne più da vicino i percorsi umani e artistici: Waging Heavy Peace, New York, Penguin Group, Blue Rider Press, 2012, e Special Deluxe. A Memoir of Life and Cars, New York, Penguin Group, Blue Rider Press, 2014 (in traduzione italiana, rispettivamente: Il sogno di un hippie, Milano, Feltrinelli, 2013, Special Deluxe. Racconti di vita e di automobili, Milano, Feltrinelli, 2015).

4 The king is gone but is not forgotten/This is a story of a Johnny Rotten, canta Young in uno dei suoi brani più celebri (My My, Hey Hey, dall’album Rust Never Sleeps del 1979), immaginando un passaggio di testimone tra il defunto re del rock & roll Elvis Presley e lo sfrontato frontman dei Sex Pistols. Anni dopo i ragazzi del grunge, ultima autentica propaggine del fenomeno punk, avrebbero tributato ampi riconoscimenti a Neil Young, visto alla stregua di un precursore grazie a opere come Everybody Knows This is Nowhere del 1969, il succitato Rust Never Sleeps e, appunto, Zuma. Un’investitura che Young avrebbe mostrato di gradire, rilanciando con uno dei sui lavori più chitarristici e duri di sempre, quel Ragged Glory del 1990 che doveva risollevarne le quotazioni artistiche dopo un lungo periodo di appannamento iniziato dieci anni prima e costellato di dischi anche parecchio imbarazzanti.

5 Don’t be Denied, dall’album Time Fades Away, 1973.

6 Albuquerque, dall’album Tonight’s The Night, 1975.

7 A proposito del grandissimo successo di Heart of Gold, che lo aveva proiettato al centro del music business, scriverà l’autore nelle note interne della raccolta Decade (1977): This song put me in the middle of the road. Traveling there soon became a bore so I headed for the ditch. A rougher ride but I saw more interesting people there.

8 Lo stesso Young si è rifiutato per anni di farlo ristampare (il titolo è tornato finalmente disponibile solo in tempi recenti – prima in vinile poi in cd, come consuetudine del canadese che negli ultimi anni ha fatto della qualità del suono una sua battaglia personale), definendolo in più di un’occasione il suo album meno riuscito. Ora, è vero che gli artisti in genere non sono i migliori giudici della propria arte, tuttavia è difficile credere che Neil Young, autore nella sua onorata carriera di veri e propri capolavori come anche di dischi molto brutti, abbia mai davvero potuto reputare Times Fades Away peggiore, che so?, di Trans o Everybody’s Rockin’. Più verosimile è che Time gli evocasse ricordi sgradevoli, legati sia al suo stato d’animo del periodo, sia alle particolari contingenze del tour, contrassegnato da impedimenti vari e da un rapporto non proprio idilliaco con la band che lo accompagnava.

9 Frequentata da numerose star dello spettacolo, attori e musicisti, fra i quali Bob Dylan, che non mancò di passare a trovare il collega durante le prove. «La prima volta che parlavamo veramente insieme», ricorderà Young, il quale non aveva mai nascosto la propria ammirazione per mr Zimmerman (Neil Young, Il sogno di un hippie, cit., p. 339). La foto d’apertura di questo articolo ritrae Neil Young con i Crazy Horse sulla spiaggia di Zuma, durante le registrazioni dell’omonimo LP, 1975. Da sinistra a destra: Ralph Molina, Billy Talbot, Frank Sampedro, Neil Young (foto di Henry Diltz).

10 Per dare l’idea del clima musicale, al momento dell’uscita di Zuma i primi tre posti della classifica erano occupati rispettivamente da Elton John (Rock on the Westies), John Denver (Windsong) e Jefferson Starship (Red Octopus), ovvero il trionfo dell’AOR e dell’easy-listening. Prendo l’informazione dal sito www.americanradiohistory.com (ultimo accesso 1/6/2018), dov’è possibile consultare la collezione digitalizzata di “Billboard” dal 1936 al 2010.

11 Per chi volesse approfondire, cfr. Frollano, Pellegrini, Neil Young, cit., pp. 206 ss.

12 A questo proposito rimando alle pagine straordinarie di Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Torino, Einaudi, 2014 (1ª edizione italiana 1984), pp. 65 ss.

13 Sembra che in origine il brano fosse più lungo, con una strofa finale aggiuntiva, andata perduta a causa di un corto circuito durante le registrazioni che mandò in tilt la console del mixer. Devo dire che la conclusione così com’è, con la musica che sfuma dopo l’evocazione del nome di Cortés “l’assassino”, è semplicemente perfetta e che non riesco a immaginarne una diversa.

14 Se ne veda un’interessante intervista in Frollano, Pellegrini, Neil Young, cit. pp. 226-228.