L’Archivio storico della Regione Emilia-Romagna
L’Archivio storico della Regione Emilia-Romagna conserva la documentazione amministrativa della Regione, in particolare delle strutture afferenti alla Giunta regionale, a partire dalla sua nascita istituzionale nel 1970, a seguito delle elezioni del 7 giugno. In quell’anno, dopo un lungo periodo di inerzia, e a seguito della legge 17 febbraio 1968, n. 108 sulle elezioni “dei consigli regionali delle Regioni a statuto normale”, si dava finalmente compimento al dettato costituzionale, rendendo operativa la legge 10 febbraio 1953 n. 62 sulla “costituzione e funzionamento degli organi regionali” e definendo con la legge 16 maggio 1970, n. 281, relativa ai “provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario” i mezzi economici per il loro funzionamento. L’articolo 17 di quest’ultima legge conferì inoltre delega al Governo della Repubblica per emanare entro due anni decreti per regolare “il passaggio alle Regioni, ai sensi della disposizione VIII transitoria della Costituzione, delle funzioni ad esse attribuite dall’articolo 117 della Costituzione e del relativo personale dipendente dallo Stato”, secondo il principio che “il trasferimento delle funzioni statali alle Regioni avverrà per settori organici di materie e dovrà effettuarsi mediante il trasferimento degli uffici periferici dello Stato”. Tali decreti furono emanati nel gennaio 1972 con numerazione progressiva da 1 a 11, ciascuno relativo ad una delle materie di competenza regionale previste all’epoca dall’art. 117 della Costituzione. Il trasferimento delle funzioni e degli uffici si completò con il DPR n. 616 del 24 luglio 1977, che trasferì alle Regioni le competenze degli enti pubblici, nelle materie previste dall’articolo 117 della Costituzione.
Per tali motivi l’Archivio storico regionale custodisce fondi di ragguardevole interesse storico provenienti da uffici statali trasferiti e contenenti documentazione risalente ad anni ben anteriori alla nascita della Regione stessa. La sede stessa dell’archivio, un complesso di 7 capannoni industriali degli anni Trenta del Novecento a San Giorgio di Piano, è frutto di tali trasferimenti essendo stata un tempo del Consorzio nazionale della Canapa, divenuta poi, a seguito della soppressione del Consorzio nel 19771, parte integrante delle proprietà immobiliari della Regione Emilia-Romagna.
Negli anni Ottanta del Novecento, iniziò la concentrazione in tale sede della documentazione non ritenuta più utile ai fini amministrativi correnti, avviando un processo graduale di sedimentazione delle carte. A partire dal 1996, sotto la pressione della Soprintendenza ai beni archivistici, ebbe inizio un lavoro di riordino e inventariazione e da allora, la costante presenza di una squadra di archivisti professionisti garantisce la corretta tenuta e la valorizzazione del patrimonio documentale, ai fini della consultazione e della fruibilità da parte di una utenza sia interna sia esterna all’Ente stesso. L’opera di inventariazione si è fin da subito basata su sistemi informatici: dalle iniziali banche dati realizzate su base DOS (Secretaire), si è passati a Sesamo 4.1 (base Access) fino all’utilizzo della Piattaforma di rete xDams messa a disposizione dall’Istituto dei beni artistici culturali e naturali dell’Emilia-Romagna (IBACN), che dal 2010 gestisce l’Archivio storico della Regione Emilia-Romagna tramite il Servizio Polo archivistico regionale (ParER), che svolge anche l’attività di conservazione degli archivi digitali prodotti dalla Regione e dalle pubbliche amministrazioni dell’Emilia-Romagna.
La valorizzazione delle immagini
A partire dal 2004, parallelamente al costante lavoro di riordino e di inventariazione dei materiali cartacei e progettuali appartenenti ai fondi storici acquisiti e depositati presso l’Archivio storico della Regione Emilia-Romagna, è stata avviata, e tuttora è in corso d’opera, un’accurata attività di ricognizione, individuazione e descrizione analitica della documentazione fotografica in essi conservata, dedicando inoltre una scrupolosa attenzione anche alla conservazione, con accurato lavoro di recupero e di adeguato condizionamento2, e la loro efficace fruibilità tramite una attività di completa digitalizzazione. L’intento è volto principalmente a valorizzare e a divulgare con immediatezza i contenuti archivistici proprio attraverso i supporti visivi, sempre più accessibili grazie all’ausilio e all’utilizzo delle moderne tecnologie.
Le protagoniste di questo excursus sono proprio le immagini, le fotografie, che parlano sia delle persone riprese nel loro contesto di vita vissuta sia del territorio che, attraverso le mutazioni naturali ed artificiali, ancora ci appartiene proprio grazie alle fotografie e ancora racconta la sua storia, trasmettendoci una memoria sedimentata nel tempo, una memoria che riaffiora attraverso un bianco e nero, a volte un po’ ossidato dallo specchio d’argento, o attraverso quei viraggi che spesso alterano i colori. Non sono solo le carte ad animare e a rendere vivo un archivio, ma anche tutto ciò che lo completa, che lo correda, che lo amplifica e lo arricchisce di molteplici interessi: ecco come le fotografie si intrecciano con la storia delle carte e ne diventano il loro specchio, il loro riflesso verso l’esterno da cogliere e da osservare con curiosità, da ammirare per le peculiarità nascoste di un passato che con le sue varie sfaccettature si allontana inevitabilmente dalla nostra realtà.
Materiali iconografici e Archivio: un’unica realtà documentale
Quando il lavoro sui fondi archivistici iniziò a prendere corpo e le banche dati realizzate favorirono una efficace fruibilità delle carte, si decise di affrontare un compito ancora più delicato e raffinato. Il lavoro dell’archivista non poteva infatti lasciare celato un patrimonio parlante intrinseco agli archivi stessi: quei documenti fatti di immagini che arricchivano di testimonianze visive le carte riordinate e descritte.
Complessivamente, il materiale fotografico sinora individuato, analizzato, descritto e digitalizzato ammonta a: 5392 fotografie (delle quali 1307 contenute in 97 album) di diverso formato, realizzate in bianco e nero (b/n) e a colori (C) con la tecnica della gelatina a sviluppo o dell’annerimento diretto con l’utilizzo dei sali d’argento; 468 fotogrammi in bianco e nero (b/n) e a colori (C) realizzati al positivo (sviluppo per contatto) e al negativo su pellicola di diverso formato (diapositive); 5 collotipie in bianco e nero (b/n) nel formato cartolina postale realizzate con tecnica a stampa fotomeccanica.
Si deve assolutamente sottolineare che la finalità documentaria delle immagini è da relazionarsi sempre ad ogni singolo fondo archivistico: nella stragrande maggioranza dei casi le fotografie sono a corredo della documentazione, la quale riflette proprio nelle stesse immagini prodotte, acquisite e conservate la propria area tematica. Si tratta di una preziosa tipologia documentale, unica nel suo genere per varietà e particolarità di contenuti, che visivamente rende appieno le finalità degli enti produttori, accompagnando ed arricchendo la redazione del documento cartaceo – spesso realizzato per i puri fini amministrativi –, supportando l’aspetto progettuale nelle sue varie fasi di realizzazione e testimoniando il contesto storico degli interventi in relazione agli eventi storici.
Pertanto l’apparato fotografico completa e rispecchia in modo eloquente e tangibile l’operosità dei soggetti produttori e le loro evoluzioni funzionali ed istituzionali: le fotografie, infatti, sono documenti che costituiscono, per nessi e vincoli archivistici intrinseci, una componente integrante ed integrativa inscindibile dalla documentazione conservata all’interno dei fondi d’archivio e, in certi casi, sono dei veri e propri nuclei documentari con specifiche collocazioni ed ordinamenti sedimentati. Purtroppo, è successo spesso che gli archivi cartacei venissero separati dei propri archivi fotografici per creare delle collezioni, in cui concentrare i materiali iconografici una volta distaccati dai loro contesti originari. Queste azioni a volte possono risultare forzate, creando cesure o fratture insanabili, seppure sia rispettata l’attenzione alla loro corretta conservazione. Tuttavia, la fotografia non è una monade, non è solo un pezzo unico da ammirare o un esemplare da collocare in un contenitore, distaccato dal suo contesto d’origine: non è un elemento isolato solo per la sua particolare unicità, ma è una fonte parlante che non dovrebbe essere distaccata dal suo contesto informativo d’origine che spesso contribuisce alla comprensione della fotografia stessa. Ed è sulla base di questo principio che l’Archivio prosegue nel suo costante operato.
Ad oggi, il lavoro procede, nonostante la sua complessità: per meglio addentrarsi in questo work in progress occorre soffermarsi sui singoli fondi archivistici, che enfatizzano le peculiarità dei temi e dei contenuti delle fotografie in essi custodite. Infatti, la maggior parte delle informazioni che ci sono pervenute non derivano solo dalle didascalie o dalle annotazioni riportate sui supporti fotografici, ma sono soprattutto desunte dalle carte. Spesso i dati descrittivi non appartengono ad un singolo scatto, realizzato nella sua unicità ed individualità, ma a gruppi o a sequenze di immagini che corredano visivamente la documentazione d’archivio: per questo motivo le scelte effettuate nell’ambito del riordino e della descrizione si sono focalizzate nell’obiettivo di mantenere la dimensione archivistica della fotografia, privilegiando e, per così dire, facendo reagire attraverso un lungo ed accurato lavoro di analisi e di ricerca, i nessi delle immagini tra loro ed i documenti stessi (anche afferenti a fondi diversi), creando anche necessarie relazioni parlanti con fondi fotografici che presentano attinenze per tipologia di materia e di contenuti, ma sovente gestiti e conservati presso altri enti, come ad esempio l’Archivio storico dell’Università di Bologna.
La volontà di testimoniare
La fotografia sin dalle sue origini vuole tramandare ciò che ritrae, da un primo piano ad una veduta, da una scena d’epoca ad un evento storico di rilevante importanza: sia con molta discrezione sia con la forza dell’impatto emotivo che può suscitare, tramanda con intensità uno spaccato di vita e immortala i momenti salienti della storia, assolvendo il ruolo di oggettivo e tangibile testimone per i posteri. Le immagini fotografiche, pur con la mediazione dell’occhio del fotografo “talvolta sono le uniche fonti di conoscenza diretta di luoghi, monumenti scomparsi, avvenimenti, ambienti e persone”3.
All’interno del complesso patrimonio documentale conservato nell’Archivio storico regionale la fotografia si inserisce in un progetto di documentazione istituzionale, assumendo il ruolo di un inventario visivo4, di un vasto catalogo che si sta venendo a creare per proporre e affermare in modo avvincente i cambiamenti che sono avvenuti e che ancora stanno avvenendo nel nostro territorio e nella nostra società. Guardare ed esaminare le immagini ritrovate è stato come ricevere un privilegio: è stato possibile immergersi con empatia e a volte con stupore in una realtà nuova, seppure del passato. L’efficacia e l’efficienza degli interventi promossi dagli enti si palesavano con forza e volontà propagandistica nella società e nel costume dell’epoca, promuovendo e patrocinando in ambito urbanistico ed edilizio le grandi opere di ricostruzione e di riqualificazione dei centri abitati a seguito delle distruzioni lasciate in eredità dal secondo conflitto mondiale (in particolare Bologna con i suoi monumenti e la sua Università), in ambito idrogeologico ed ambientale le importanti e costanti opere di bonifica e di consolidamento del territorio ferrarese e bolognese, grazie alle innovative opere promosse dalla Riforma agraria, per tutelare la nostra Pianura strettamente influenzata e spesso soggiogata dal movimento delle acque che circondano e caratterizzano il paesaggio, in ambito socio-culturale i corsi di formazione professionale e di avviamento al lavoro, mirati a combattere e ad abbattere la piaga dell’analfabetismo, per introdurre i giovani e anche gli stessi reduci di guerra ad attività agricole o industriali o commerciali promosse negli anni Cinquanta del Novecento proprio per affermare una nuova rivalsa umana, per potere essere così parte di una società nuova, che rinasce con il desiderio di innovazione, di emancipazione e di modernità. Attraverso questi soggetti, riprodotti spesso con tanta semplicità e naturalezza, si intraprende un viaggio visivo attraverso le mutazioni socio-ambientali dettate dalla natura e dalla storia, un viaggio che crea e genera sentimenti e passioni, che stimola la curiosità e il desiderio del sapere e della ricerca.
Il fondo archivistico Ente Delta Padano poi Ente regionale di sviluppo agricolo (ERSA)
Le fotografie che si desiderano illustrare in questo percorso conoscitivo sono nate con intenti di diversa natura ed utilità, sia per creare un vero e proprio archivio fotografico sia per attestare attraverso il supporto visivo delle immagini quanto contenuto nella documentazione amministrativa e progettuale, offrendo un vero e proprio corredo a testimonianza e giustificazione dell’esistenza di una determinata pratica, necessaria per una precisa finalità storica ed istituzionale. A tale proposito, è possibile fare riferimento ad un fondo archivistico come quello dell’Ente Delta Padano poi Ente regionale di sviluppo agricolo (ERSA), del quale esiste una duplice realtà fotografica finalizzata da un lato all’idea di creare un vero e proprio archivio fotografico dedicato all’attività divulgativa e propagandistica dell’Ente e dall’altro ad arricchire visivamente la documentazione in un contesto più pratico.
Le conseguenze della Riforma agraria dei primi anni Cinquanta del Novecento influenzarono notevolmente la realtà della zona del Delta Padano: l’attività di bonifica delle aree depresse e i piani di trasformazione fondiaria incisero non solo sulla morfologia del territorio ma anche sul suo assetto sociale. È in questo particolare contesto storico che venne istituito con DPR 7 febbraio 1951 n. 69, ai sensi della legge 21 ottobre 1950 n. 841 (Legge Stralcio), l’Ente di Colonizzazione del Delta Padano, organismo preposto dallo Stato all’applicazione delle normative vigenti nell’ambito della trasformazione fondiaria e dello sviluppo agricolo.
Espropriate dapprima le distese latifondistiche superiori a ha. 750 lavorabili, nacquero le cosiddette unità poderali, ovvero piccoli appezzamenti di terreno da assegnare “a famiglie di lavoratori manuali della terra”5 dotate di esperienza nel settore agricolo, ma spesso versanti in condizioni di grave indigenza. Questo primo intervento da parte dell’Ente favorì la nuova piccola proprietà terriera, offrendo una sorta di autosufficienza economica, una forma di sussistenza per quegli agricoltori prescelti quali assegnatari dei poderi. Tale riorganizzazione, sia territoriale sia sociale, voleva favorire il miglioramento della condizione di vita delle persone meno abbienti, incrementare lo sviluppo della produttività delle zone più incolte ed incentivare le grandi opere di trasformazione fondiaria. Lo stesso Ente si impegnava a dotare i fondi di abitazione proporzionata alla famiglia assegnataria e di garantire loro la fondamentale sistemazione, incentivando l’ideale legame e attaccamento alla terra, quale fonte di progresso e di opportunità di riscatto, anche economico, per la cospicua forza lavoro ormai trasferita al settore agricolo6. Lo scopo principale era di creare contadini, imprenditori liberi e responsabili della conduzione delle proprie aziende e l’Ente, perseguendo le linee guida dalla Riforma agraria, si impegnava a svolgere un ruolo di “affiancamento e di assistenza tecnica da esercitarsi con la forza della persuasione”7, fondata da un lato sulla fiducia nelle capacità operative degli assegnatari e dall’altro sull’azione vigile di organi tecnici individuati all’interno dell’Ente stesso, fautori dello sviluppo e del miglioramento della realtà rurale, nonché di un’intensa attività propagandistica.
Denominato in seguito alla sua evoluzione istituzionale Ente Delta Padano – Ente di Sviluppo con DPR 14 febbraio 1966 n. 257, ai sensi della legge 14 luglio 1965 n. 901 ed infine ERSA – Ente regionale di sviluppo agricolo per l’Emilia-Romagna con LR 13 maggio 1977 n. 19, ai sensi della legge 30 aprile 1976 n. 386, la sua attività rimase centrale nella riorganizzazione e nella valorizzazione dei territori delle province di Venezia, Rovigo, Ferrara e Ravenna, favorendo non solo l’attività produttiva ma anche la bonifica dei terreni e la costruzione di impianti industriali di nuova generazione e fortemente mirati all’innovazione secondo lo stile americano, come le stalle Harvestore realizzate nella zona di Comacchio (FE). Di qui risultò alquanto necessaria e straordinaria la realizzazione di vere e proprie opere di sistemazione urbanistica, commisurate non solo alle esigenze degli abitanti ma anche ai prevedibili progetti di sviluppo agricolo ed industriale delle zone soggette alla Riforma agraria: nacquero così le borgate rurali, in stretto raccordo con quanto richiesto nella circolare n. 2957 del 13 ottobre 19528 del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste – Direzione generale dei Miglioramenti fondiari e dei Servizi sociali.
Aree di circa ha. 1500, costruite secondo schemi architettonici sobri, inquadrati nel rispetto delle caratteristiche ambientali del territorio e secondo prospettive di futuro e di facile ampliamento, vennero a costituire il nuovo centro della vita civile, religiosa ed economica delle zone del Delta Padano. Contestualmente, il Ministero dettò le norme generali, redigendo una circolare (la n. 8/1 del 24 gennaio 1955)9 e stabilendo così le linee guida relative alla loro progettazione ed alla loro realizzazione. In primo luogo, l’ubicazione dei borghi e l’adeguata collocazione dei servizi non dovevano rispondere ad impostazioni troppo rigide: gli elementi necessari alla loro esecuzione dovevano essere rilevati e valutati caso per caso, in base alle reali necessità dell’insediamento umano ed in rapporto alla sistemazione urbanistica della zona interessata. Infatti la valorizzazione del territorio, avvenuta grazie all’intensa attività di bonifica e di trasformazione fondiaria, fu profondamente influenzata dall’espansione dei numerosi centri aziendali gestiti dall’Ente e, parallelamente, dall’esigenza di dover decentrare i servizi pubblici necessari alle famiglie assegnatarie in località prossime ai terreni espropriati. Queste opere di pubblico interesse furono realizzate in diverse località del Delta Padano, una delle più rappresentative fu realizzata dall’ingegnere Pierluigi Giordani proprio nel Centro di Mesola, nota come borgata rurale Santa Giustina10. Tuttora è visibile e tuttora è riscontrabile nel paesaggio l’importante intervento dell’Ente: il suo operato è ancora ben noto e vivo nella memoria delle persone che hanno vissuto direttamente quel quarantennio tanto difficile per le condizioni della società ma tanto ricco di cambiamenti. L’Ente venne definitivamente soppresso con LR 19 marzo 1992 n. 16: le sue competenze furono trasferite agli uffici dell’Assessorato Agricoltura della Regione Emilia-Romagna, con LR 1 aprile 1993 n. 18.
Criteri metodologici dell’intervento
Il fondo archivistico consiste di oltre 1.908 metri lineari di documentazione ed è costituito da 16.241 unità conservative, 614 registri, 4.043 volumi, 70 mazzi, 9 scatole, 2.841 tubi componibili dedicati alla conservazione di 10.601 elaborati grafici su carta lucida. Copre un arco cronologico dal 1951 al 1993 (con documenti al 2018)11. Il complesso documentale è corredato di un inventario analitico su base MSD Secretaire e su base Sesamo 4.1, del quale è previsto il passaggio alla Piattaforma IBC-xDams dell’Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna.
Dal 2011 è stata intrapresa una preziosa collaborazione con la Fototeca dell’Istituto dei beni culturali, poiché dal 30 maggio 2000 è lì conservato l’Archivio fotografico dell’Ente12. Tale archivio è stato completamente catalogato ed è stato oggetto di una mostra, curata da Priscilla Zucco, che si è inaugurata il 9 novembre 2011 a Bologna, intitolata “Terre nuove. Immagini dell’archivio fotografico dell’Ente Delta Padano”.
Tuttavia, era nota da tempo la presenza di materiale iconografico a corredo della documentazione tecnica ed amministrativa del fondo documentario depositato e conservato presso l’Archivio storico regionale di San Giorgio di Piano: da questo momento si sentì la necessità e la volontà di riunire virtualmente l’intero patrimonio di immagini che, pur essendo stato prodotto da uno stesso Ente, era stato collocato in due sedi differenti data la loro diversa finalità. Da un lato un archivio fotografico vero proprio, creato sui generis: una vera e propria fototeca interna all’Ente per contenere e conservare materiali destinati a documentarne la vita, dall’altro una produzione di immagini che affiancasse la documentazione dell’archivio generale, come un efficace strumento di corredo dei fascicoli cartacei e dei progetti, testimonianza visiva dell’importante lavoro svolto dall’Ente.
Allo stato attuale, è in corso un lavoro di individuazione, descrizione analitica, digitalizzazione e adeguato condizionamento delle singole immagini e degli album fotografici nella prospettiva di riaccorpare virtualmente il cospicuo nucleo d’immagini conservate nelle due realtà archivistiche in un’unica piattaforma di rete fruibile internamente ed esternamente alla Regione. Fino ad oggi sono state individuate e descritte 777 fotografie in b/n e a colori di diverso formato (delle quali 149 contenute in 6 album fotografici) realizzate alla gelatina a sviluppo e 103 fotogrammi a colori al positivo e al negativo su pellicola, databili tra il 1944 ed il 1977. La documentazione riproduce per lo più il panorama del territorio ferrarese, ravennate e veneto quando ancora era soggetto ad opere di bonifica da parte dell’Ente regionale di sviluppo agricolo per strappare le terre dalla forza dell’acqua: le immagini stesse documentano visivamente (anche con riprese aeree) i mutamenti del suolo attuati nei comprensori e lungo le coste delle zone del Delta Padano tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento. Ma non solo: i particolari più toccanti sono quelli offerti dalle singole persone, uomini, donne e bambini che cercano un riscatto, una nuova aspettativa nelle ideologie dell’Ente: la nuova piccola proprietà terriera era sentita come una nuova speranza per crescere, formarsi professionalmente e vincere l’indigenza causata non solo dalla povertà ma anche dall’analfabetismo. Le fotografie illustrano quindi non solo una riorganizzazione del territorio, ma anche una nuova società, dove in un girotondo nel parco di una scuola i bambini sorridono e trasmettono gioia, dove i giovani apprendisti vogliono imparare un mestiere per sentirsi indipendenti.
Tra i fotografi e gli studi fotografici, individuati da indicazioni tratte o desunte direttamente dalle immagini (come impressioni ad inchiostro o impressioni a secco, annotazioni manoscritte, foto-raffronti ecc.), si segnalano: Conti Radamanto – Ravenna, Foto Conti – Ravenna, Foto Cine Ottica – C. Zaia e G Foto – Bologna. La maggior parte degli autori risultano di fatto anonimi e, per questi casi, si può supporre che lo scatto sia stato realizzato o da privati o da funzionari incaricati dall’Ente per effettuare i sopraluoghi. La maggior parte delle immagini presentano un formato medio-piccolo (dimensioni 70×100 mm., 90×120 mm., 100×150 mm., 130×180 mm. e 180×240 mm.), in particolare 14 sono realizzate in formato cartolina postale (dimensioni 90×130 mm. e 90×140 mm), sul cui verso sono presenti righe prestampate ed appositi spazi predisposti per la spedizione (non viaggiate). Si segnalano inoltre 22 assemblaggi fotografici e 1 fotografia in copia.
Altri fondi archivistici e i loro apparati fotografici
Oltre a questa particolare realtà archivistica del fondo dell’Ente Delta Padano poi Ente regionale di sviluppo agricolo (ERSA), l’Archivio storico regionale conserva altri fondi ricchi di documentazione iconografica, ognuno con una precisa realtà sedimentata che si riflette anche nella modalità di tenuta originaria delle immagini stesse, in particolare quelli provenienti dagli ex uffici statali del Genio Civile. Tali fondi meritano uno specifico approfondimento che è oggetto dell’articolo successivo. Si possono qui indicare solo sommariamente:
- Ispettorato superiore compartimentale del Genio Civile di Bologna (1893-1945): contiene un apparato fotografico già inventariato di 105 immagini in b/n (delle quali 34 conservate in 4 album fotografici), di diverso formato, realizzate tra il 1932 ed il 1942 con la tecnica della gelatina a sviluppo;
- Provveditorato regionale alle opere pubbliche per l’Emilia (1945-1975), in corso di inventariazione: di cui sono già state inventariate 550 fotografie in b/n, di diverso formato, realizzate con la tecnica della gelatina a sviluppo e conservate in 13 album fotografici, e databili tra il 1945 ed il 1955;
- Ufficio del Genio Civile di Bologna (1859-1976): è in corso la descrizione e la digitalizzazione delle immagini conservate in allegato all’interno dei fascicoli documentali. Attualmente sono state individuate e inventariate 1 collotipia in b/n realizzata con procedimento a stampa fotomeccanica formato cartolina postale, 1.211 fotografie (delle quali 155 conservate in 25 album fotografici) in b/n, di diverso formato, realizzate con la tecnica della gelatina a sviluppo, 49 fotogrammi in b/n al positivo realizzati per contatto con la tecnica della gelatina a sviluppo e 18 fotogrammi al negativo su pellicola, databili tra il 1942 ed il 1960;
- Ufficio speciale del Genio Civile per il Reno (1951-1989): è in corso la descrizione e la digitalizzazione delle immagini conservate in allegato all’interno dei fascicoli documentali. Attualmente sono state individuate e inventariate 610 fotografie in b/n, di diverso formato, realizzate con la tecnica della gelatina a sviluppo (delle quali 241 conservate in 19 album fotografici) e 73 fotogrammi al positivo in b/n realizzati per contatto con la tecnica della gelatina a sviluppo. La documentazione è stata prodotta tra il 1914 ed il 1953;
- Ufficio del Genio Civile di Rimini – Sezione autonoma dei danni di guerra (1945-1979): si conserva l’archivio fotografico consistente in 1.908 fotografie in b/n, di diverso formato, realizzate con la tecnica della gelatina a sviluppo (delle quali 30 conservate in 3 album fotografici) e 226 fotogrammi in b/n (2 al positivo realizzati per contattato con la tecnica della gelatina a sviluppo e 224 al negativo su pellicola). L’archivio fotografico, datato tra il 1945 ed il 1970, è già inventariato ed interamente digitalizzato.
È infine da ricordare il materiale fotografico del fondo in corso di inventariazione relativo al Centro regionale di incremento ippico di Ferrara (1860-2015), all’interno del quale sono già state individuate, descritte e digitalizzate 83 immagini in b/n, di diverso formato, realizzate con la tecnica della gelatina a sviluppo (delle quali 68 conservate in 3 album) e 1 fotogramma al negativo su pellicola in b/n, databili tra il 1926 ed il 1987.
Meritevole di considerazione è il nucleo fotografico contenuto nella serie appartenente al fondo archivistico dell’Ufficio del Genio Civile di Bologna intitolata Sezione staccata del Genio Civile per l’Università di Bologna13. Risale infatti al 1797 l’esigenza di riportare l’Università ai fasti del suo originario splendore trovandole una nuova sede: come luogo adatto ad accogliere l’antico Studio venne scelta la Strada di San Donato, “una strada nobile come tutte le strade maestre quali cominciano da ciascuna porta” (secondo la divisione operata da Giovan Battista Spinelli nel 1708) e un tempo centro della signoria dei Bentivoglio. Luogo ideale per la sede dell’Ateneo bolognese venne indicato lo stesso Palazzo Poggi, in Via Zamboni n. 33, destinato, sin da subito, ad accogliere le Facoltà classiche di Giurisprudenza, Lettere e Filosofia, nonché Medicina e Scienze fisiche e matematiche. L’Istituto nazionale trovò invece nuova sede nel contiguo Palazzo Malvezzi, che sarebbe stato in breve tempo annesso a Palazzo Poggi, formando quel complesso che viene indicato ancora oggi come Sede centrale dell’Università. Le Cliniche universitarie, fino al 1870, erano raccolte in un unico fabbricato a Porta Zamboni: dopo tale data furono trasferite e sistemate nel vecchio Ospedale S. Orsola, mentre i locali rimasti liberi vennero restaurati ed assegnati all’Istituto e Museo geologico “Giovanni Capellini”. Salvo poche eccezioni, la maggior parte degli Istituti universitari era confinata in locali indecorosi ed inadatti ad accogliere la crescente affluenza degli studenti: pertanto, si presentò ancor più concretamente la necessità di decentrare le scienze sperimentali, che maggiormente difettavano di spazio, dando loro sedi in altrettanti nuovi edifici, pienamente rispondenti nel tempo alle loro speciali esigenze. Anno di svolta nello sviluppo dell’area universitaria fu il 1897, quando venne firmata la prima Convenzione, approvata con legge 28 marzo 1899 n. 106, tra l’Università, lo Stato e gli enti locali bolognesi, firma che segnò una nuova comunione di intenti per finanziare e realizzare progetti di valorizzazione del patrimonio culturale bolognese. La firma che l’allora Rettore Vittorio Puntoni apportò sul documento diede inizio ad una serie di interventi edilizi di nuova fattura e di restauro che dovevano rispondere alle esigenze di una popolazione studentesca in continuo aumento. Si provvide così alla costruzione degli Istituti di Fisica, di Mineralogia e di Anatomia comparata in Via Irnerio, dell’Istituto di Fisiologia di Porta Zamboni, nonché a lavori di sistemazione interna, adattamenti e costruzioni di nuove aule di lezione al Policlinico S. Orsola per la Clinica Medica Chirurgica oltre alla costruzione ex novodi cinque padiglioni destinati alla Clinica Oculistica. Al tempo stesso si procedette nella costruzione di un quartiere degli studi alla cui realizzazione contribuì in modo particolare una seconda Convenzione firmata nel 1910 (approvata con legge 11 aprile 1911, n. 335), che segnava anche l’ingresso come finanziatore della Cassa di Risparmio. Per questa seconda serie di interventi erano previsti una serie di sventramenti nella zona adiacente a Palazzo Poggi, nell’area comprendente le vie Belmeloro e San Giacomo, nell’ottica di compiere contemporaneamente un’operazione di “bonifica sociale”, grazie all’abbattimento di edifici malsani e non adatti ad ospitare le strutture universitarie. Furono perciò realizzati l’Istituto Botanico in Via Irnerio e la Scuola di Medicina Veterinaria; inoltre furono eseguite le opere murarie al grezzo dell’Istituto di Chimica Generale, mentre l’Amministrazione Provinciale costruiva al grezzo la nuova Sede della Clinica Psichiatrica. Purtroppo, le difficoltà di approvvigionamento delle materie prime ed i notevoli aumenti, che si verificarono in conseguenza della Prima guerra mondiale, impedirono il completo svolgimento di questo programma ed i lavori previsti subirono una battuta d’arresto. Nel 1923, si dispose per la costruzione di un nuovo braccio per la Scuola di Belle Arti: l’edificio, costruito in fregio alla nuova Via De Rolandis, raggiunse (come ancora oggi si può ben notare) quasi Via Irnerio, con un volume di 18.500 mc. e richiese un importo di spesa pari a £ 1.300.000. Una nuova Convenzione del 28 dicembre 1924 (approvata con legge 24 dicembre 1925 n. 2501), con il concorso dell’allora Ministero dell’Economia Nazionale, della Provincia, del Comune e della Cassa di Risparmio e dell’Onorevole Senatore Marchese Giuseppe Tanari, decretava la costruzione di una decorosa sede per l’Istituto Superiore di Agraria (volume mc. 23.615 pari ad un costo di £ 2.250.000). Nella vetusta Palazzina della Viola, artisticamente restaurata, rimasero la Direzione, gli Uffici Amministrativi, la Segreteria e l’Economato. Il nuovo edificio accolse invece gli insegnamenti di Agricoltura (Biologia, Patologia Vegetale e Batteriologia), di Entomologia e di Arboricoltura, mentre in via provvisoria vennero accolte anche le sedi degli insegnamenti di Economia e di Estimo Agrario. Negli anni seguenti non si costruirono nuovi locali, ma si provvide a sistemare internamente gli edifici già realizzati e a restaurare i vecchi Istituti. Soprattutto si posero le basi per la Convenzione stipulata nel1929 ed approvata con legge 11 aprile 1930 n. 488 che previde l’istituzione del Consorzio per gli Edifici Universitari, con la conseguente creazione presso l’Amministrazione Universitaria di un Ufficio Tecnico che redigeva e supervisionava i progetti sotto la direzione dell’Ing. Giorgio Rossi, avvalorato anche dalla figura dell’Ing. Gustavo Rizzoli14. Tale Convenzione contribuì a dare un valido impulso al quasi completamento dell’assetto edilizio dell’Ateneo bolognese. Durante la Seconda guerra mondiale, i danni riportati dai bombardamenti del 1944 alle strutture degli immobili furono davvero ingenti: nel 1945 fu istituita con decreto 1 novembre 1945, dipendente dal Provveditorato alle opere pubbliche per l’Emilia e la Romagna, la citata Sezione distaccata del Genio Civile per l’Università di Bologna, a capo della quale fu designato, fino al 1948, l’Ingegner Gustavo Rizzoli, fautore e ideatore di un progetto dedicato alla creazione di un “quartiere universitario”, e che aveva già ricoperto la funzione di Ingegnere Capo del Genio Civile di Bologna, nonché di Direttore dal 1930 al 1945 del citato Consorzio15.
Gli anni della ricostruzione del secondo dopoguerra furono caratterizzati da una ripresa dei lavori nella zona universitaria grazie anche alla stipula della Convenzione del 1953, che chiuse, con la realizzazione dei restauri di Palazzo Poggi e della costruzione delle nuove sedi di Economia e Commercio, Lettere, Matematica e del Collegio universitario, un ciclo della storia più recente dell’Alma Mater. Il disegno dei rettori di fine Ottocento, partito dall’antica cittadella racchiusa fra le mura di Palazzo Poggi, poteva oramai dirsi concluso: le 75 immagini conservate testimoniano, unitamente alle fonti documentarie, quanto è cambiato e quanto è tuttora visibile e riscontrabile all’interno delle sedi universitarie dell’Ateneo bolognese, dalla realizzazione dei grandi progetti edilizi, con protagonisti ingegneri ed architetti di fama nazionale quali l’architetto Giuseppe Vaccaro (per la sede della Facoltà di Ingegneria, definito “un fiore all’occhiello” dal regime fascista), l’ingegnere Flavio Bastiani (per il progetto dell’Istituto di Fisica e dell’Istituto di Mineralogia, quest’ultimo in collaborazione con l’architetto Pasquale Penza), l’architetto Gustavo Pontoni (per la sede dell’Istituto di Medicina legale), l’architetto Pasquale Penza, l’ingegnere Ettore Lambertini (per la vecchia sede dell’Istituto di Economia e Commercio di Via Milazzo), nonché i citati ingegneri Giorgio Rossi e Gustavo Rizzoli (per la sede dell’Istituto di Patologia generale). La documentazione fotografica testimonia anche, unitamente alle relazioni tecniche degli ingegneri preposti dall’Ufficio del Genio Civile, quanto è stato oggetto di incursioni e conseguenti danni bellici, contribuendo a fornire fonti per la storia del paesaggio universitario con vedute di edifici storici fortemente sinistrati. Questi contenuti sono sincronizzati attraverso il sistema di rete con l’Archivio fotografico dell’Università di Bologna all’interno del quale sono conservati i negativi su lastra fotografica di vetro relativi alla documentazione fotografica al positivo conservata all’interno del fondo archivistico dell’Ufficio del Genio Civile di Bologna, favorendo un prezioso ricongiungimento di dati e di informazioni storiche in sede inventariale, nonché il recupero virtuale dell’unicum fotografico che ha origine dallo scatto primario.
Note
1 DPR 24 luglio 1977 n. 616 e n. 617 in merito al trasferimento delle funzioni amministrative nelle materie indicata dall’articolo 117 della Costituzione ancora esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato e da enti pubblici nazionali ed interregionali.
2 Il materiale fotografico viene condizionato con fodere di carta barriera e/o scatole in cartone a ph. neutro, acid free, idonee alla conservazione illimitata nel tempo e dotate di certificazione conforme al PAT (photographic activity test).
3 Paolo Monti, La fotografia come strumento di programmazione, 1977, pubblicato postumo in Paolo Monti fotografo e l’età dei piani regolatori (1960-1980), Bologna, Edizioni Alfa, 1983.
4 Storia e caratteristiche dell’archivio fotografico dell’Ente Delta Padano, a cura di Priscilla Zucco, in Terre nuove. Immagini dell’archivio fotografico dell’Ente Delta Padano, Bologna, IBACN Regione Emilia-Romagna – Editrice Compositori, 2011.
5 Fondo ERSA – Ente regionale di sviluppo agricolo per l’Emilia-Romagna, b. 2335, fasc. “Disposizioni varie circa l’assegnazione e le quote di riscatto dei poderi”, Delibera n. 219/064 del 6 luglio 1965.
6 Fondo ERSA, b. 2335, fasc. “Disposizioni varie circa l’assegnazione e le quote di riscatto dei poderi”, Appunto sulla nuova procedura di stima dei terreni da assegnarsi, adottabile in seguito delle nuove direttive in materia, impartite dall’On. Gui nella riunione del 22 ottobre 1953.
7 Fondo ERSA, b. 2335, fasc. “Disposizioni Ministeriali”, Circolare n. 11/58 dell’8 gennaio 1959.
8 Fondo ERSA, b. 6975, Circolare n. 6/15 del 9 febbraio 1953.
9 Fondo ERSA, b. 6975, Circolare n. 8/1 del 24 gennaio 1955.
10 Fondo ERSA, b. 2527, fasc. “Progetto per la Costruzione della Borgata rurale S. Giustina”, Lettera del Presidente Avv. Bruno Rossi del 5 luglio 1954 con allegato l’elenco descrittivo delle borgate rurali da eseguire nel comprensorio del Delta Padano come opere di trasformazione fondiaria.
11 Si tratta delle serie aperta afferente “Pratiche assegnazioni terreni” ancora in fase di chiusura di riscatto del Patto di riservato dominio.
12 A seguito di un contratto di concessione gratuita nella forma del comodato d’uso del 23 febbraio 2000 tra Regione Emilia-Romagna ed Istituto dei beni culturali (delibera del Consiglio direttivo del 17 aprile 2000), dal 31 maggio 2000 la Fototeca dell’Istituto dei beni culturali conserva l’archivio fotografico dell’Ente regionale di sviluppo agricolo per l’Emilia-Romagna, soppresso definitivamente nel 1993. La Fototeca custodisce 31.855 positivi b/n e colore di diverso formato, 20.117 negativi su pellicola e su vetro di diversi formati, 3.826 diapositive su pellicola 24×36 mm, 105 scatole di pellicole cinematografiche del formato 16 e 35 mm, 8 audionastri magnetici su bobina. Tale nucleo è già stato descritto, digitalizzato e adeguatamente condizionato.
13 Ufficio del Genio Civile di Bologna, Titolo 3, Classe B, Sezione staccata del Genio Civile per l’Università di Bologna, Posizioni 7 – 340 (buste n. ril. 48 – 78, fascicoli 346, fotografie 75).
14 R. Università di Bologna, Opere dipendenti dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Consorzio per gli Edifici Universitari), Legge 11 Aprile 1930-VIII n. 488, Relazione riassuntiva delle opere edilizie universitarie eseguite dall’inizio dell’Era Fascista, a cura dell’Ingegnere capo Gustavo Rizzoli (Ufficio tecnico del Consorzio per gli Edifici Universitari, Bologna), Bologna, 14 agosto 1938 – XVI E.F.
15 Fu lui stesso a progettare nel 1935 l’Osservatorio astronomico di Monte Orzale a Loiano (Bo).