«Coloro che preferisco sono quelli che lavorano duro, secco, sodo, in obbedienza e possibilmente in silenzio». È il messaggio firmato da Benito Mussolini coi caratteri tipografici dell’epoca e posto all’ingresso della miniera di Serbariu, oggi periferia sud-est di Carbonia, nel Sulcis. L’avviso intimoriva i minatori che ogni giorno oltrepassavano il cancello d’ingresso pronti a discendere nell’abisso della terra: fuori I muri del Duce1 celebravano il culto del littorio e imprimevano una fede politica nel popolo, nazionalizzandolo; nel sottosuolo, invece, i frequenti incidenti, spesso invalidanti, e lo sfruttamento a cui erano soggetti i lavoratori erano la miccia per lo scoppio di manifestazioni sediziose e scioperi. Da quel mondo di sotto difficile da controllare, difatti, nacquero le prime unità antifasciste: nel Pozzo Schisorgiu, nella vicina miniera di Sirai, il 2 maggio 1942, vi fu uno dei primi scioperi organizzato da cellule del partito comunista all’interno del sindacato corporativo. Nel ’42 le contingenze politico-economiche erano cambiate rispetto ai primi anni Trenta: tutte le miniere del bacino carbonifero erano state militarizzate, il Sulcis aveva già conosciuto il fenomeno dell’inurbamento di massa e Carbonia contava oltre 30 mila abitanti2. Esiste, però, una Carbonia “prima di Carbonia”, fatta di colline modeste, modellate dal vento isolano, brulle e malariche. Zona povera, dedita alla pastorizia, abitata da circa 4 mila persone concentrate in piccoli agglomerati sparsi. Dobbiamo ruotare all’indietro le lancette della storia per capire le trasformazioni territoriali e antropologiche nel lungo periodo di questa fetta anarchica di Sardegna. Il vento del cambiamento iniziò a spirare tra metà Ottocento, quando vennero scoperti alcuni giacimenti carboniferi, e l’avvento di Anselmo Roux. L’ingegnere piemontese fondò a Torino, nel 1873, la Società Anonima Miniere di Bacu Abis, dando inizio all’estrazione di carbone nel «corno sardo»3. Il progetto conobbe alterne fortune, il passaggio della società di mano in mano – tra i tanti anche il finanziere Ferruccio Sorcinelli, il «Sire di Bacu Abis» proprietario de «L’Unione Sarda» – fino al fallimento finanziario del 1933. Nel dicembre dello stesso anno, a Trieste, nacque la Società Mineraria Carbonifera Sarda, azienda statale che rilevò le concessioni minerarie per l’estrazione del carbone del Sulcis. La Carbosarda era guidata da Guido Segre, già presidente della Società Anonima Carbonifera Arsa, in Istria, impegnata da oltre dieci anni nell’albonese. La storia locale si collega a quella nazionale: Benito Mussolini, il 9 giugno del 1935, visitò le miniere della zona e annunciò la volontà di costituire un’industria statale designata allo sviluppo del settore. Dopo appena un mese nacque l’A.Ca.I. (Azienda carboni italiani): azienda pubblica che controllava la produzione dell’intero comparto del combustibile fossile in Italia, nata dalla fusione dell’Arsa anonima carbonifera e della Società mineraria carbonifera sarda. A capo di tutto fu nominato il commendator Guido Segre. Dietro alla figura di Segre si stagliano le contraddizioni intestine del regime e di quel capitalismo italiano che ha sempre ammiccato alle commesse statali e che col fascismo andava a braccetto. Per diversi anni Guido Segre fu uomo di enorme potere, amico del Duce, che lo volle a capo di un settore fondamentale negli anni dell’autarchia, di Rino Alessi, influente direttore de «Il Piccolo» di Trieste che non riuscì ad aiutarlo durante gli anni delle Leggi razziali, e dei maggiori capi d’azienda del Paese. Il destino poco edificante che gli sarebbe spettato non poteva ancora immaginarlo quando, appena dopo l’inaugurazione del nuovo ente con sede a Roma, inaugurò otto nuovi pozzi sardi, dando ulteriore impulso all’attività estrattiva. Dopo essere stato il deus ex machina nella fondazione di Arsia, pose tutte le condizioni necessarie per la creazione di «una città operaia di Stato a bocca di miniera»4. Nel giro di qualche anno i pozzi aperti furono 22 in tutto il medio-Sulcis: si passò dalle 78 mila tonnellate di carbone estratte nel ’35 alle 160 mila del ’36, e a ben 1 milione e 295 mila nel ’40. Occorreva tanta manodopera, servizi, case, impianti di qualsiasi genere, scuole, spazi per la socialità, ospedale ecc. Segre promosse la costruzione di Carbonia, tra Sirai e Brabusi, lungo la strada che da Gonnesa corre verso la costa, e le relative borgate: Portoscuso e Cortoghiana in primis. Carbonia era una città di frontiera, per molti aspetti il sogno americano nel far west sardo: arrivò manodopera a basso costo da tutta la Sardegna, ma anche da Veneto, Abruzzi, Sicilia, Marche, Basilicata, Toscana, Emilia5. Attirati dalla possibilità di guadagno, giunsero a frotte per la miniera, tant’è che molti, pur di assicurarsi un misero salario, furono disposti a dormire in baracche o in alloggi di fortuna in attesa della costruzione degli edifici. I rapporti di polizia hanno stimato che una buona parte della popolazione iniziale era composta da pregiudicati. La città conobbe una crescita tumultuosa, sorvegliata dall’onnipresente Segre che presiedeva l’intero processo edificatorio. La struttura urbana fu concepita gerarchicamente; come sostenuto da Delogu «il sistema di comunicazioni funziona unicamente in due sensi: alloggi-miniera e alloggi-centro. Le strade che attraversano i quartieri di abitazione conducono direttamente, senza pause spaziali, alla piazza centrale, attorno a cui gravitano le diverse zone residenziali, con una distanza adeguata alla dignità sociale e aziendale dei residenti. In nessun’altra delle città nuove si riscontra una zonizzazione così rigorosa: un vero e proprio apartheid, una garanzia di non mescolarsi se non ai pari». Carbonia a differenza delle città pontine – che nascono a servizio della bonifica – e di Tresigallo – città corporativa in cui le dicotomie sociali erano appianate anche urbanisticamente dalla coesistenza negli stessi spazi urbani dei capi d’industria e degli operai – era una vera e propria città-azienda. Tutto ruotava attorno alla miniera. Il 18 dicembre 1938, Mussolini presenziò all’inaugurazione della città, ma Segre non era presente. Nel frattempo erano iniziate le discriminazioni nei confronti dei cittadini italiani di religione ebraica e il capitano d’azienda che fino ad allora aveva conosciuto riconoscimenti e fama venne a poco a poco messo in secondo piano. La città era pronta: il piano regolatore era stato redatto dall’architetto Ignazio Guidi e l’ingegnere Cesare Valle; Gustavo Pulitzer Finali, poi, architetto triestino che aveva già ideato Arsia, elaborò la relazione finale del nuovo progetto. Era prevista una città per 12 mila abitanti, ma presto ci si rese conto che a causa del rapido aumento della popolazione era necessario un piano di ampliamento che venne affidato ancora a Guidi e Valle e redatto da Eugenio Montuori6. A Carbonia si continuò ad estrarre anche nel dopoguerra. Nell’Italia della ricostruzione occorrevano, infatti, fonti d’energia e la città ebbe una vita nuova quanto caduca: nel 1949 si raggiunsero i 50-60 mila abitanti. Dopodiché, in un contesto economico differente, il carbone estero, di miglior qualità e a miglior prezzo, soppiantò gradualmente il carbone del Duce, la «lignite del Sulcis» che aveva dato ossigeno a una terra ciclicamente colpita da povertà ed emigrazione7. Oggi Carbonia presenta i resti del Secolo del Lavoro che, con le sue contraddizioni fatte di sconfitte e rinascite improvvise, di capitani d’azienda e manodopera a buon mercato, di speculazioni edilizie e cambi di destinazione d’uso di diversi edifici, rimangono come monumenti attorno ai quali si concentra l’identità del territorio. Negli ultimi venti anni l’Amministrazione pubblica ha portato avanti un’importante politica di recupero e valorizzazione del patrimonio dissonante: il centro storico di fondazione, riqualificato e in gran parte restaurato, è ancora riconoscibile nelle sue linee e peculiarità. Sotto la Carbonia di oggi rimane, poi, la Carbonia sotterranea, costituita di chilometri di gallerie e cunicoli, dove persero la vita decine di minatori, 25 solo nel 1937-38. Il vento isolano si incunea in quei pertugi scavati dall’uomo e produce il rumore di un’Italia che non c’è più.
Lasciata la Sardegna, in un ipotetico viaggio nella periferia di regime, ci fermiamo a Torviscosa «città dell’autarchia e della cellulosa», nella Bassa Friulana, in provincia di Udine. Le porte d’ingresso della città sono, simbolicamente, i cancelli d’ingresso della fabbrica: si trattava di una città-azienda, in cui il controllo sociale era dirigista e appannaggio del regime, e ove la mobilità era irreggimentata. Per certi aspetti ricorda Carbonia, ma Torviscosa nasce a supporto delle attività industriali di un’azienda privata: è una città-fabbrica, una company town8. Come la città sarda, Torviscosa va analizzata nel contesto storico, socio-culturale ed economico dell’Italia degli anni Trenta, gli anni delle sanzioni commerciali, dell’autarchia, della sperimentazione di nuovi materiali. Nel 1937 la Snia viscosa (Società navigazione industriale applicazione viscosa), la più importante azienda per la produzione di fibre artificiali, decise di impiantare un nuovo stabilimento industriale accanto al borgo di Torre di Zuino, in collaborazione con la Saici (Società agricola industriale per la cellulosa italiana)9. La Snia sperimentò una particolare cellulosa ricavata dalla canna gentile, bonificò circa 6000 ettari di palude, e vi impiantò un’azienda agricola divisa in otto «agenzie» per la coltivazione intensiva della pianta. La grande massa di disoccupati della zona si riversò in questo anfratto di pianura, nelle terre paludose prospicienti le lagune di Marano e Grado, ove il regime aveva già iniziato ad intervenire dal 1927. Nell’agosto del 1937, Franco Marinotti sottopose al Duce un piano che avrebbe garantito l’autarchia nel settore produttivo della cellulosa nobile. Interessante è la lettera dell’Amministratore delegato della Snia Viscosa indirizzata il 4 settembre 1937 al Capo del Governo: «Duce, quando ebbi l’onore di esporre a Vostra Eccellenza il programma per l’indipendenza economica nel campo della cellulosa per raion ho segnato in una certa topografia le zone più interessanti per la coltivazione della canna “Arundo Donax”, seguendo questi criteri: 1. non intaccare terreni già adibiti ad intenso sfruttamento agricolo ed in avanzato ciclo produttivo; 2. preferire zone gravate da disoccupazione operaia; 3. preferire zone servite da facili comunicazioni interne, con conseguente notevole economia del costo di trasporto»10. Per certi aspetti può essere considerata la lettera di fondazione della città. Poi vi fu la costruzione della fabbrica e l’edificazione del centro abitato. Dopo trecentoventi giorni di lavori, il 21 settembre del 1938, Benito Mussolini inaugurò il primo nucleo dello stabilimento e alcuni edifici della neonata città industriale; al suo fianco Marinotti, vero deus ex machina della fondazione. La fabbrica è imponente, esempio di architettura industriale monumentale, disegnata dall’architetto Giuseppe De Min. Realizzata completamente in laterizio, spiccano le due torri Jenssen, oggi fuori uso, modellate su un enorme fascio littorio ed alte cinquantaquattro metri. Sono il segno più evidente dell’intera area: sostituiscono la casa del fascio, che qui non è presente, e simboleggiano la vera torre littoria, in contrapposizione a quella del Comune. Il territorio circostante venne organizzato e strutturato in base alle esigenze dell’azienda, ad esempio il teatro, le mense e il dopolavoro sono collocati nella piazza vicina all’ingresso dello stabilimento, così come le strutture ricreative – una piscina a forma di fascio, la palestra, i campi di calcio, tennis e bocce – che sono la congiunzione tra il luogo di lavoro e la zona residenziale nel simbolico «viale del tempo libero»11. A fianco, verso sud, la chiesa, le scuole e le case a schiera degli operai e degli impiegati. Il paese arrivò a contare 4000 abitanti circa, di cui 2000 dipendenti. Torviscosa è una realtà atipica: l’attività agricola monoculturale era a funzione della produzione industriale a gestione privata e tutto ruotava attorno alla fabbrica; i rapporti sociali erano dettati dalle logiche capitaliste. Durante la Seconda guerra mondiale ingenti furono le distruzioni e le rimozioni dei segni del regime. Il sito industriale, ricostruito in parte nel dopoguerra, nel corso dei decenni ha conosciuto diverse riconversioni dettate dal repentino cambio degli scenari economici; ora vengono utilizzate parte delle strutture: alcune, di proprietà del Gruppo Bracco, sono state restaurate tra il 1999 e il 2002. L’Amministrazione pubblica, nel corso degli ultimi anni, è stata protagonista di uno degli esempi di recupero del patrimonio materiale ed immateriale più lungimiranti per quanto riguarda il patrimonio dissonante. Con la realizzazione del portale CID-Torviscosa, a cura del Comune di Torviscosa nell’ambito del progetto “Città dell’autarchia e della cellulosa”, finanziato dall’Unione europea attraverso i fondi POR FESR 2007-2013, è diventato fruibile on-line il patrimonio documentario relativo alla storia della città. Il Centro Informazione Documentazione (CID)12, inoltre, è il luogo deputato a conservare, a promuovere la conoscenza e lo studio della storia di Torviscosa. Fu costruito dalla Snia nel 1962 con funzione di rappresentanza per accogliere le delegazioni delle aziende estere che andavano a visitare gli impianti. Dal 2009 l’edificio, con tutto il suo contenuto, è stato affidato in gestione al Comune di Torviscosa e nel 2011, grazie a un importante finanziamento dell’Unione europea, è stato possibile eseguire importanti lavori di manutenzione straordinaria. La riapertura al pubblico è avvenuta nel 2014, ad ulteriore prova dell’interesse e del grande lavoro che sta investendo questo settore della ricerca storica e della divulgazione del patrimonio del Novecento.
I due esempi presi in considerazione, Carbonia e Torviscosa, mettono in luce le trame sotterranee del regime, la presenza di personaggi che hanno avuto un ruolo preponderante e un potere autoritario nel territorio, gli interessi finanziari delle aziende che ricevettero commesse statali di prim’ordine, le speculazioni edilizie che interessarono architetti, imprese e privati. Sono due esempi di paternalismo industriale italiano: Carbonia è di Guido Segre come Torviscosa è di Franco Marinotti. Trovano una logica in un contesto socio-politico ed economico preciso ma, una volta che queste fondamenta vengono a mancare, i sogni del Duce sono destinati ad infrangersi. La «Ruhr italiana», in Sardegna, e la monumentale fabbrica della Snia rimangono, oggi, come vestigia di un tempo perduto che nemmeno l’incuria e l’oblio potranno cancellare.
Note
1 Ariberto Segala, I muri del Duce, Trento, Arca, 2000; Giovanni Bosca, Duce. La propaganda murale del regime fascista. Una memoria storica del XX secolo, Cuneo, Araba Fenice, 2010.
2 Ignazio Delogu, Carbonia. Utopia e progetto, Roma, Levi, 1988; Stanis Ruinas, Viaggio per le città di Mussolini, Milano, Bompiani, 1939.
3 Raffaele Pisano, Carbonia e il Sulcis: le vicende di un popolamento, in Aldo Lino (a cura di), Le città di fondazione in Sardegna, Cagliari, Cuec, 1998.
4 Antonio Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, Roma, Laterza, 2008.
5 Anna Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista. Politica e realtà demografica, Torino, Einaudi, 1976.
6 Venne approvato con regio decreto legge 28 novembre 1940, n. 2045.
7 Giorgio Pellegrini (a cura di), Città di fondazione italiane. 1928-1942, Latina, Novecento, 2005.
8 Enea Baldassi (a cura di), Viaggio nella memoria. Storia delle origini industriali di Torviscosa, e del suo fondatore Franco Marinotti, Torviscosa 1998; Massimo Bortolotti, Torviscosa. Nascita di una città, Udine, Casamassima, 1988. La foto di apertura dell’articolo si riferisce proprio a Torviscosa.
9 Luigi Deluisa, Torviscosa. Cenni storici, Udine, Arti grafiche friulane, 1988.
10 Ufficio propaganda della Snia Viscosa (a cura di), Torviscosa. La città della cellulosa, Udine, Filacorda, 1941 (ristampa anastatica del 2008).
11 Cfr. Pennacchi, Fascio e martello, cit., pp. 180-188.
12 Il sito del CID è consultabile all’indirizzo http://www.cid-torviscosa.it/.