Nel 1980 il critico gastronomico spagnolo Antonio Vergara pubblicò un articolo, poi divenuto celebre, dal titolo La paella asesina. Secondo Vergara la grande specialità spagnola e, più precisamente, valenciana stava brutalmente cannibalizzando il pluralismo culinario della regione di Valencia, affermandosi come piatto unico e totemico a scapito di molte altre eccellenti preparazioni meno note, ma altrettanto gustose.
Negli anni successivi al j’accuse di Vergara la paella si è imposta al turista massificato in tutta la peninsula, isole comprese, e al consumatore mondiale come cibo nazionale iberico nella versione banalizzata e adulterata di quello che le trattorie per camionisti chiamavano una volta risotto mare-monti o semplicemente agli scampi, magari accompagnato da un bicchiere di sangria: una sorta, insomma, di spaghetti bolognese o pepperoni pizza per noi italiani. Poiché, però, la cucina spagnola, ma anche soltanto quella valenciana, è mucho más que paella, mettiamo innanzitutto i puntini sulle i e vediamo cosa sia realmente la paella di Valencia, la vera ed eccellente di cui i puristi possono trattare per ore al punto da far dire allo stesso Vergara che “la paella se discute mas que se come”.
Tanto per cominciare, sono le risaie dell’area umida dell’Albufera, a sud della grande città spagnola, a fornire la materia prima indispensabile: el arroz, il riso valenciano che è denominazione di origine controllata dal 1997. Quindi, la paella autentica è un piatto di terra e non di mare, i cui ingredienti sono carne di pollo e coniglio, fagiolini verdi piatti, pomodori spezzettati, aglio e zafferano il tutto cotto nei tipici padelloni e idealmente mangiato a cucchiaiate da tutti i commensali nello stesso tegame. Da questa base si sono formate infinite varianti locali tutte ugualmente meritevoli a patto che si seguano scrupolosamente le regole base della preparazione: la paella di Alicante con ceci, carne di maiale e peperoni, quella di frutti di mare – mariscos – e poi la versione al baccalà e cavolfiore oppure quella al nero di seppia o ancora quella base come sopra, ma con l’aggiunta di lumache.
Se volete mangiare la migliore possibile a Valencia – dove ahimè non mancano pessime trappole per turisti – dovete andare alla marina al ristorante La pepica, santuario della gastronomia locale ricoperto da azulejos dove sono stati varie volte il re Juan Carlos e Ernest Hemingway e si paga un prezzo più che ragionevole. Hemingway lo cita in The dangerous summer (edito in Italia da Mondadori) non romanzo, ma cronaca della temporada – stagione – di corride del 1959 in cui si confrontarono i matadores Antonio Ordóñez e Luis Miguel Dominguín (padre del “nostro” Miguel Bosé) riportando pericolose incornate e successi.
Una soluzione ancor più economica e sfiziosissima è il piccolo e rustico locale Los toneles vicino alla Plaza de toros dove paella classica e di mariscos sono eccellenti, ma dove potete gustare anche altre ottime specialità a partire dall’arroz al horno, riso al forno condito con pancetta, ceci e morcilla – sanguinaccio insaccato – oppure bocadillos – panini – ai calamari fritti e splendide tapas varie. Per non dimenticare il carattere di terra della cucina valenciana è consigliabile andare anche a La Utielana, piccolo locale familiare dove si serve un ottimo cosciotto di cordero (agnello) al forno; si trova vicino a la Nau, la sede dell’antica Università valenciana fondata dall’autoctono e famigerato Roderic de Borja meglio (o peggio) conosciuto come Papa Alessandro VI Borgia che aveva principalmente altri vizi, ma doveva essere anche un ghiottone stando ai sontuosi banchetti che si servivano alla sua corte.
Se invece siete in orario di colazione o merenda, dovete recarvi al Mercat centrale prendere l’horchata, una deliziosa bevanda locale a base di chufas – radici di una pianta che pare si chiami cipero o zigolo dolce in italiano – e molto zucchero, da accompagnare a delle piccole brioches chiamate fartons. Proprio nella zona del mercato è ambientato Arroz y tartana (Riso e tartana pubblicato in Italia da Faligi editore) romanzo del grande scrittore valenciano Vicente Blasco Ibáñez nato nel 1867 e morto in Francia, a Mentone, nel 1928. Riso e tartana, cioè calesse, sono i simboli della ricchezza per i produttori e commercianti di stoffe di Valencia che di generazione in generazione, a partire dai mercanti che costruirono nel ‘400 il bellissimo palazzo della Lonja per la loro gilda, si tramandano i comandamenti di duro lavoro e risparmio e si confrontano, alla fine dell’800, con enormi cambiamenti economici e sociali: le idee repubblicane, la crescente concorrenza industriale internazionale e le illusioni – e drammatiche delusioni – di facili guadagni con la trionfante speculazione finanziaria.
Il contatto della modernità con una società composta da grandi proprietari terrieri, romantici briganti protettori dei deboli, spericolati toreri e un popolo misero affamato di spettacoli crudeli è al centro dell’altra celeberrima opera di Blasco Ibáñez, Sangre y arena (Sangue e arena in italiano, che poi si dovrebbe tradurre più correttamente sangue e sabbia, edito da Faligi), la tragica vicenda di amore e morte, ascesa e declino del torero andaluso Juan Gallardo. Ne furono realizzate anche due versioni cinematografiche: nel 1922 con Rodolfo Valentino e nel 1941 con Tyrone Power e Rita Hayworth, parodiate entrambe dall’immortale Fifa e arena del 1948 con Totò e Mario Castellani.
Blasco Ibáñez fu un grande scrittore, profondamente ispirato dal naturalismo di E. Zola e anche un irrequieto repubblicano, deputato, fervente anticlericale, viaggiatore instancabile e perfino fondatore di città in Argentina. Ricevette la Legion d’onore e fu celebrato negli Stati Uniti, dove riscosse grande successo a Hollywood con Sangue e arena, appunto, ma anche con Los quatro jinetes del Apocalipsis (I quattro Cavalieri dell’Apocalisse, Faligi), libro sulla prima guerra mondiale portato sullo schermo nel 1921 con sempre Rodolfo Valentino tra i protagonisti e di nuovo nel 1961 da Vincent Minelli. Le sue convinzioni politiche lo misero spesso in urto con le autorità spagnole che lo incarcerarono ed esiliarono più volte fino alla sua morte.
In uno di questi allontanamenti forzati dalla madrepatria nel 1896 – e torniamo al punto da cui eravamo partiti – venne in Italia dove soggiornò alcuni mesi a Roma, ammiratore entusiasta delle bellezze artistiche del Bel Paese. Di questa breve esperienza rimane una raccolta di articoli, Nel paese dell’arte, tre mesi in Italia e una foto che lo ritrae assieme alla famiglia valenciana Benlliure, che lo ospitò nella nostra capitale, davanti a una grande, imprescindibile, paella.
Se questo piatto è divenuto un simbolo identitario per una città, un paese intero e un grande esule cosmopolita e se, poi, si è diffuso ovunque nel mondo, si può certo deplorare a buon diritto, la perdita della varietà e, per i tempi più recenti, l’uniformizzazione del gusto prodotta dalla società dei consumi e la volgarizzazione turistica. Tuttavia, vi sono evidentemente altre ragioni per spiegarne il successo planetario: non diversamente dalle nostre pasta e pizza, la paella è una specialità che richiede una preparazione attenta, ma non eccessivamente complessa e, soprattutto, che si adatta facilmente a infinite variazioni sul tema di fondo venendo incontro a diverse preferenze e conciliandosi con gli ingredienti disponibili in differenti contesti. ¡Paella asesina!