Fertilia, l’ultima città del duce. La voce dei ferraresi di Sardegna nella periferia di regime

Fertilia, piccolo centro razionalista situato di fronte alla catalana Alghero, è stata una città-laboratorio del Novecento e conserva le tracce delle grandi questioni del secolo breve: architetture di regime, trasformazioni antropiche del territorio, politiche di memoria e di rimozione, flussi migratori, processi di riforma fondiaria, contaminazione culturale, politiche di accoglienza e integrazione. Le diverse culture che nel corso del tempo si sono succedute e sovrapposte – sarda, catalana, ferrarese, giuliano-dalmata – hanno lasciato un deposito di memoria che necessita di uno studio stratigrafico articolato. La toponomastica del luogo ci fornisce gli strumenti per intraprendere un primo percorso di decodifica delle vicende della comunità: la colonna in travertino, sul lungomare, col leone di San Marco all’estremità e la scritta «Qui nel 1947 la Sardegna accolse fraterna gli esuli dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia», così come la presenza di vie intitolate a Fiume, Pola, Cherso, Orsera, Rovigno, Trieste, Dignano, Zara, Parenzo, sono una chiara manifestazione delle politiche culturali concretizzatesi nel secondo dopoguerra dopo l’arrivo, soprattutto tra 1948 e 1952, di oltre 500 “nuovi abitanti”1. Questa saturazione di spazi pubblici del ricordo non deve far passare in secondo piano, però, le tante difficoltà di integrazione e accettazione della comunità istriana nel contesto sociale di destinazione2. Questo è il secondo capitolo della storia di Fertilia, da città incompiuta a centro di accoglienza; qui verrà analizzata, invece, Fertilia prima di Fertilia: le fonti documentali, d’archivio, verranno affiancate alle fonti orali degli ultimi contadini padani trapiantati in Sardegna, protagonisti dell’esodo degli anni Trenta e intervistati nel settembre 20123.

In questa zona desolata della Nurra, i processi di pianificazione territoriale iniziarono ben prima del fascismo, a fine ’800, con la bonifica dello stagno di Calich e la nascita, nel 1927, di un insediamento operaio (villaggio Calich)4 di servizio, avamposto per lavoratori e dirigenti impiegati nella bonifica ancora in atto. Era l’inizio del processo di edificazione del comprensorio in cui sarebbe sorta l’attuale Fertilia: la storia locale improvvisamente si lega a quella nazionale, la periferia di regime si congiunge al centro. Il 26 maggio 1927, con il Discorso dell’Ascensione5, Mussolini poggiò le basi del riassetto amministrativo e fisico del territorio che prevedeva la fondazione di centri rurali. Con la “legge Mussolini” (1928), poi, venne avviata la colonizzazione e il risanamento di alcune aree del Paese. In tutta Italia iniziava la bonifica integrale: la penisola divenne un “cantiere fumante” in cui nuovi enti statali, parastatali e privati furono protagonisti di una metamorfosi del paesaggio senza precedenti. In Sardegna, negli stessi anni in cui l’ONC (Opera Nazionale Combattenti) aveva iniziato l’intervento nell’Agro Pontino, nacquero tre distinti piani di colonizzazione avviati da soggetti diversi6, che portarono alla fondazione di Mussolinia (ora Arborea), Fertilia nella Nurra e Carbonia nel Sulcis. È il decennio delle grandi migrazioni interne e del rimescolamento della popolazione italiana: migliaia di persone raggiungono l’Agro Pontino, altrettante la Sardegna, dal Sud ci si sposta verso Nord, dalle campagne nelle grandi città o nelle colonie, come la Libia7. In questo contesto, l’Ente Ferrarese di Colonizzazione, istituito il 7 ottobre 1933, divenne l’artefice di uno degli episodi più interessanti nel panorama delle città di fondazione. Nato con il compito di «fissare il maggior numero possibile di famiglie tratte dalla provincia di Ferrara in Sardegna e in altre zone a scarso indice demografico, al fine di costituire la piccola proprietà coltivatrice», si proponeva di ridurre la presenza di braccianti disoccupati nel ferrarese, una delle zone del Paese socialmente più instabili.

Il territorio estense, infatti, era un coacervo di diseredati e di misérables, l’inopia caratterizzava larghi strati della popolazione rurale. Le contingenze storiche – la politica deflazionistica avviata nel 1927, il tentativo di portare il cambio sterlina-lira a «quota 90» e la crisi globale nata col crollo della borsa newyorkese dell’ottobre 1929 –, accentuarono gli squilibri sociali8. A livello locale si registrarono i fallimenti di numerose banche e casse rurali, compreso il Piccolo credito di Giovanni Grosoli, la principale banca cattolica della provincia, nonché la Società Bonifiche Terreni Ferraresi, protagonista delle grandi opere di prosciugamento di fine ’800. Questo stato di precarietà latente andò di pari passo con i numerosi episodi di protesta da parte degli operai agricoli, fra il 1928 e il 19329.

Ecco che la Sardegna si collega idealmente a Ferrara, ne diventa una propaggine insulare, una meta esotica distante nel tempo e nello spazio, lontana dall’immaginario dei contadini, per taluni un sogno di evasione o semplicemente un approdo per iniziar una nuova vita. La Nurra all’inizio degli anni Trenta era una landa acquitrinosa, infestata dalla malaria, isolata e spopolata, ai confini del mondo. I progetti di risanamento e ripopolamento vennero affidati all’Ente di colonizzazione voluto da Mario Ascione, in sinergia col Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna e l’INPS, che fornì i capitali necessari per l’acquisto dei terreni. I lavori iniziarono nell’ottobre 1934 sotto la supervisione del Sottosegretario alla bonifica integrale; dopo sei mesi, nella colonia penale di Cuguttu, ceduta nel frattempo dallo Stato all’Ente Ferrarese di Colonizzazione, venne inaugurata l’azienda Maria Pia di Savoia in cui vennero trasferiti i primi coloni.

«È un curioso paesaggio, nuovo e morto allo stesso tempo, quello che si distende ai nostri occhi in questa zona velocemente trasformata, dove s’indovina la natura refrattaria all’arrivo troppo rapido degli uomini»10. Il 10 giugno 1935, Benito Mussolini nel suo viaggio in Sardegna, arrivò presso la Baia di Porto Conte per una veloce visita della Nurra. Gli furono mostrati i risultati ottenuti tra il 1933 e il 1935, dopo due anni dalla fondazione dell’Ente ferrarese: erano stati risanati 6.000 ettari di terreno grazie all’impiego dei ferraresi trasferiti a singhiozzo nella regione desertica e ventosa11. Come è stato ben descritto da Maria Luise Di Felice, «nel marzo 1936 fu inaugurato il primo lotto di lavori comprendente la realizzazione di cento poderi, l’esecuzione di strade principali e poderali, di opere di carattere irriguo, fondiario e infrastrutturale. La superficie occupata nel 1938 era già di 12.000 ettari sui quali erano stati sistemati 115 poderi e 100 case coloniche, mentre le aziende agricole con poderi sperimentali erano 15»12. Il processo di antropizzazione della zona procedette lentamente, la relazione di Ascione ci fornisce ulteriori dettagli interessanti circa le condizioni di vita dei coloni: il territorio era stato dissodato, in parte rimboschito e messo a coltura con olivi, mandorli, viti e cereali; i coloni, inoltre, potevano contare sulla presenza di un migliaio di capi tra bovini, equini, caprini e suini. La popolazione della zona ammontava allora a 513 persone, tra il 1934 e il 1938 si erano registrati 29 matrimoni, 56 nascite e 3 morti13. Fertilia prima di Fertilia è questo dipinto che rimanda ai Macchiaioli ottocenteschi: scene di vita quotidiana in campagna, terre brulle, battute dal vento, pennellate larghe e brevi, macchie di colore e di chiaroscuro che lasciano trasparire luci e ombre di una popolazione rurale déracinée che dovette confrontarsi con la malaria stagnante e la miseria della pianura sarda. I ferraresi crearono presto una Little Ferrara frazionata nei diversi casolari sparsi nelle strade poderali dove continuarono a conservare riti e tradizioni di importazione e a parlare il dialetto tramandandolo di generazione in generazione.

Il rito di fondazione di Fertilia con la posa della prima pietra della Casa del Fascio, alla presenza del sottosegretariato alla bonifica Canelli, avvenne nel marzo del 1936; Fertilia era l’ultima città del Duce: «ultima venuta tra fra le città del Fascismo, sarà una delle più belle: essa assommerà l’esperienza urbanistica di tutti questi anni ed esprimerà, nel linguaggio del nostro tempo, la rinata potenza della Patria»14. Al momento dell’inaugurazione, in realtà, l’unico edificio costruito era la scuola elementare15, intitolata a Rosa Maltoni Mussolini, risalente al Piano Miraglia. Tutt’attorno depositi di macchine agricole e attrezzi, poderi, case coloniche e contadini. Il piano urbanistico del 1935 dell’ingegnere Arturo Miraglia non fu realizzato, non era confacente all’ideologia di regime16: siamo nel mezzo del dibattito estetico e stilistico sull’architettura “arte di stato”, con il relativo scontro tra correnti interne, architetti e Mussolini17. Mario Ascione, responsabile della bonifica della Nurra, affidò l’incarico a uno studio gradito a Mussolini: il gruppo 2PTS (Paolini, Petrucci, Tufaroli, Silenzi), già vittorioso nel concorso di Aprilia e incaricato per quello di Pomezia, seppe interpretare il clima culturale che si respirava in Italia. Questo progetto venne approvato nel 1937 e fu realizzato tra il 1939 e il 1941 con l’edificazione del Palazzo Comunale con la Torre Littoria, della Casa del Fascio, dell’albergo, dell’edificio postale, della chiesa parrocchiale, della caserma dei carabinieri e della milizia, della sede degli uffici di bonifica. I lavori proseguirono nonostante grandi difficoltà ma, una volta scoppiata la guerra, si interruppero bruscamente. Fertilia rimase incompiuta e semidisabitata diventando l’immagine dei fallimenti del regime18. Nel frattempo i coloni continuarono a tener saldi i propri legami, a coltivare la propria cultura, a trasmettere le tradizioni di padre in figlio. Una parte della Nurra era diventata una colonia ferrarese; ancora oggi è possibile rintracciare le impronte di un movimento migratorio che coinvolse centinaia di famiglie: cognomi, nomi, dialetto, tradizioni culinarie emiliane sono il retaggio di una storia del Novecento conservatasi allo scorrere del tempo.

La fondazione di una città è sempre il risvolto di un disegno politico, di potere, la traduzione reale di un atto di imperio, d’autorità. Le esigenze collettive non sempre collimano con quelle del fondatore e dei luoghi soggetti a rivoluzioni coercitive. Le città del Duce conservano le esperienze architettoniche e sociali di un preciso momento storico, sono il risultato di contraddizioni e sviluppi non sempre lineari a cui il Novecento ci ha abituato, anche terminato il fascismo. La metropolitana della memoria ci ha consentito di soffermarci per un istante alla stazione di Fertilia prima di Fertilia: attraverso la voce degli ultimi ferraresi di Sardegna è possibile vedere un paese che non era un paese, un luogo con una nuova identità ma non ancora cristallizzatasi e destinata a mutare e a confondersi. Di lì a poco sarebbero arrivati altri italiani di confine a mescolare le carte e a dar vita ad un melting-pot tanto originale quanto affascinante. Poi la Riforma agraria, la creazione dell’ETFAS (Ente per la trasformazione fondiaria e agraria in Sardegna), e nuove trasformazioni territoriali. Nel meccanismo della Storia entrano tutti i protagonisti del racconto, su tutti, in questo caso, le persone e le tante famiglie che con il lavorio di anni e la fatica di generazioni hanno ridisegnato la Nurra e si sono portate appresso i propri racconti, le proprie memorie, talvolta senza raccontarle mai.

 

Appendice. Le testimonianze orali

Io non mi ricordo bene quando mio padre decise di partire per la Sardegna. Venne una persona – anche lui ferrarese – che si mise d’accordo con mio papà, e dopo pochi giorni ci disse che dovevamo partire, ma senza il mobilio, perché non si poteva caricare sui treni. Io avevo altri due fratelli più grandi di me e altri tre più piccoli, e l’ultima è nata qua. Abbiamo preso il treno credo a Ferrara e da lì fino a Civitavecchia, ma di questi viaggi non ricordo niente. Ricordo quando ci siamo imbarcati a Civitavecchia. Lì abbiamo preso una nave, ricordo che io e i miei fratelli volevamo sempre vedere il mare perché da noi, nel ferrarese, il mare non si vedeva. Siamo arrivati a Olbia. Da lì ci hanno messi su un altro treno e ci hanno portato ad Alghero. Ad Alghero non c’era niente, c’era solo la stazione. Da Olbia ad Alghero era il deserto, c’era solo il treno che passava su questa ferrovia e attorno una zona praticamente deserta, paludosa, con acqua stagnante, infatti ricordo gli uomini che dicevano “Ma qui ci portano al mare! Ma qui ci portano al mare!”, perché davvero sembrava che il treno andasse sopra il mare, dato che attorno era tutto acqua e palude. Da Alghero ci portarono al nostro podere. Il primo podere verso Santa Maria la Palma, dopo quei quattro magazzini (dove c’erano i carcerati), lì c’era il nostro podere che ci avevano assegnato. Noi eravamo in 24 in famiglia, e non eravamo pochi! Con me c’erano altre famiglie ferraresi che partirono con noi: c’erano i Perdomi, i Berti, i Magni, i Colaini; i Colaini me li ricordo bene perché, poi, sono andati via, qui non stavano bene e sono ritornati a Bondeno. Parecchie famiglie sono andate via. Qua vennero 6 famiglie prima di noi, che furono messe vicino a Maria Pia. Poi altre 6 famiglie con la nostra. A mano a mano che costruivano le case coloniche venivano le famiglie dal ferrarese.

Bianca B.

 

Mi hanno raccontato che un uomo del Fascio è andato da mio padre e gli ha detto: “Ma volete venire in Sardegna, che là avete le case nuove, avete il lavoro, state bene, e state meglio di qua?”. Con questa promessa hanno convinto parecchie famiglie. E sono venuti qua con tutta la roba di campagna, con le galline, le biciclette (allora, qua, le biciclette non c’erano), insomma tutte le loro “gnacchere”, noi diremmo. Mio padre, Aroldo B., con mio nonno sono venuti qua nel ’34. Erano forse le prime famiglie venute da Ferrara. Andarono a prendere queste famiglie per lavorare la terra. Qua era tutta palude. Serviva gente che sapesse lavorare la terra per bonificare queste zone. E hanno preso i ferraresi. Questo è l’inizio di tutto. Otto famiglie nel ’34, poi nel ’35, poi ancora nel ’36, ’37 ecc. Quando sono arrivati qua, le case nei poderi non erano finite, e li hanno portati prima ad Alghero: c’era un casermone grande e c’erano otto famiglie collocate lì, tra queste i miei parenti, i Busi e altri. Tanti di questi che sono venuti, hanno visto com’era la situazione: era tutto bosco, non c’era strada, non c’era acqua, non c’era luce; c’erano solo pidocchi ad Alghero! Dico la verità. Così, chi aveva la possibilità, è tornato indietro. Qui in Sardegna è venuta prima la famiglia di mio papà, mentre quella di mia madre, Antonia Mingozzi, un anno dopo. I Mingozzi sono stati mandati prima a Santa Lucia di Bonorva, una piana in cui c’erano diverse famiglie ferraresi perché qui non erano pronte le case. Sono stati un anno e mezzo là, in una piccola piana e poi qua gli hanno dato la casa.

Anna Maria B.

 

Il mio babbo è nato a Villa Marzana, a Rovigo, e mia madre in Brasile. Mio nonno aveva quattro figlie nate in Brasile perché era partito per fortuna ma, una volta in Brasile, le sue figlie s’erano ammalate negli occhi e tornò in Italia, nel Veneto. Io sono nata però nel ferrarese, a San Martino, nel ’33, perché per il san Michele19 i contadini si spostavano sempre, anche a seconda di dove venivano chiamati, infatti tutti i miei fratelli sono nati in diversi paesi. Uno è nato a Ro Ferrarese, mia sorella in città a Ferrara, l’altro il più grande è nato nel ferrarese. C’erano le domande per emigrare in Sardegna. Ci avevano promesso grandi cose. Così mio padre aveva fatto la richiesta. Nessuno ci obbligò. Solo che qui trovammo il deserto. Io avevo cinque anni quando siamo arrivati qua. Mi ricordo che siamo arrivati con questo treno, questo vagone dove c’era la paglia per dormire; abbiamo fatto un viaggio di tre, quattro giorni e siamo andati a Maria Pia e ci siamo stati tre anni. Quando siamo partiti c’erano altre famiglie ferraresi con noi: gli Gnani, i Lamon e i Gatto, che erano veneti, di Trebaseghi. La nostra roba è arrivata dopo qualche giorno. Con dei carretti che venivano da Porto Torres, ci hanno portato le valigie, i vestiti e le bici. Noi eravamo in otto famiglie quando siamo partiti.

Marta P.

 

Siamo arrivati qua soli. Il viaggio tra il ferrarese e Fertilia non me lo ricordo, ero troppo piccolo. Arrivammo a Maria Pia, poi a Gutierez (a Santa Maria, insomma). Dopo otto giorni mio zio è tornato a Ferrara e ha preso gli altri: gli Gnani, i Pigò, i Finetti, i Bolognesi. Insomma, erano otto famiglie in tutto. Quando sono sbarcati, mio zio li ha accompagnati qua. Sapevamo che noi ferraresi venivamo portati qua perché là da noi non c’era lavoro. Siamo venuti qua perché ci avevano promesso che ci sarebbe stato lavoro. Ce ne hanno fatte di promesse! Invece non c’era niente, all’inizio. Oddio, noi altri siamo anche stati fortunati perché alla nostra famiglia ci hanno messi ad abitare in un podere di fianco a Maria Pia, dove c’era una scuderia di cavalli tenuta dai condannati, che poi hanno trasferito a Tramariglio. E lì erano rimaste le stalle e un pezzo d’orto. E noi altri abbiamo fatto l’orto. Maria Pia sta tra Alghero Lido e Fertilia. I ferraresi furono mandati a Maria Pia. C’erano tre quattro case coloniche. Ancora oggi è rimasta una casa colonica lunga. Alcuni ferraresi andarono via. Prima della guerra, durante la guerra e anche dopo. Quando siamo arrivati qua noi, dove adesso c’è l’aeroporto, c’erano alberi, foreste, boschi fittissimi.

Fernando P.

 

Nel ferrarese ho fatto fino alla quarta elementare, infatti siamo venuti qui nel ’37, avevo undici anni, con la mia famiglia e i miei fratelli Ferruccio, Armando, Giaretto, Guerrino, Vittorino, Benito, io e un altro. Dal ferrarese abbiamo preso il treno fino a Civitavecchia e lì c’era una nave che poi ci ha portato ad Olbia. Noi sapevamo già di venire qui, mio padre lo sapeva. Con noi c’erano altre famiglie, come i Novelli, i Mericoni, i Pozzati, i Gavioli, i Busi, i Govoni. Eravamo partiti con le valigie, i vestiti, la biancheria, il necessario. Anche le bici. Ricordo che nel viaggio verso la Sardegna c’era il mare un po’ agitato, e c’era curiosità di vedere le onde che faceva la nave. Arriviamo qui e scopriamo che è una zona malarica, poco simpatica e poco accettabile. All’inizio dello sviluppo, insomma. Non c’erano scuole, non c’era niente. Gli avevano detto che qui c’era il benessere, chissà cosa gli avevano promesso. C’era una malaria che si toccava con le mani, qui, altroché! Febbre da cavallo. Una malaria che si tagliava a fette. Qua c’era la malaria che uccideva i topi. Se non fosse scoppiata la guerra i miei genitori volevano tornare nel ferrarese. Non abbiamo trovato quello che c’era stato promesso. C’avevano detto che c’era un’azienda agricola, che si stava bene. Avevano promesso tanto, e un po’ c’era, ma non c’era nessuno, tutta palude, tutto da fare.

Walter G.

 

Sono nata nel ’41 qui in Sardegna, ma i miei sono venuti qui nel febbraio del ’36 dal ferrarese. I miei genitori mi raccontavano che c’era una richiesta al tempo di Mussolini. Cercavano manodopera per l’Agro Pontino, per costruire Littoria e poi per la Sardegna, e i miei genitori fecero domanda per Littoria. Quando però si sono presentati gli han detto che per Littoria era già tutto occupato ma c’era ancora posto per la Sardegna. Mia nonna è rimasta un po’ così, mentre mia mamma, che aveva ventidue anni e si era appena sposata, ha detto: “Sì sì, andiamo in Sardegna”. Tra il ’34 e il ’36 sono venute qui circa sessanta famiglie ferraresi. Poi hanno visto l’ambiente e si sono trovati a disagio, non c’era niente. Per andare a fare la spesa andavano ad Alghero in bici, ma erano maltrattati dai sardi perché le biciclette non le conoscevano. Quando sono arrivati qui, una volta che sono riusciti a disboscare, hanno iniziato a seminare un po’, perché era mezzadria, c’era l’Ente, e gli dava la metà del raccolto. Ma prendevano via tutto. Quando trebbiavano, l’Ente prendeva tanto, e a noi rimaneva il minimo per vivere.

Mirella R.

 

Venir qui è stata dura, soprattutto per i miei nonni. Io dormivo in camera con mia nonna. Quante notti l’ho sentita piangere perché s’era ritrovata in Sardegna. Lei, nel ferrarese, stava bene. Lei accudiva la famiglia, mio nonno era calzolaio, i figli lavoravano la terra, e stavano bene. Di giorno mia nonna era forte, ma di notte piangeva. Quante notti l’ho sentita piangere, in silenzio. E io che ero bambina la sentivo, e le dicevo: “Nonna, ma stai bene? Perché piangi?”. E lei: “Eh… fiòla mia… dormi dormi, chà tì at stà bèn!”, mi diceva in dialetto. Al mattino mia nonna mi veniva a svegliare perché dovevo andare a scuola. Noi bambini abbiamo iniziato con l’andare a scuola a Fertilia. Ricordo che il primo anno non era ancora ultimato. E noi bambini ferraresi, dai nostri poderi, andavamo fino a Fertilia alle elementari. Qua ho fatto la seconda elementare. In classe c’erano molti ferraresi. Di sardi non ce n’erano. C’erano solo due famiglie qua, sarde, e facevano i tubisti, mettevano piano piano i tubi per l’acqua. Mio padre diceva sempre che se avesse saputo di trovare quello che all’inizio abbiamo trovato, non ci sarebbe mai venuto. Alcune famiglie se ne sono andate via anche dopo un anno. Ricordo le famiglie Novelli e Scardovelli, erano venuti con noi. Avevano il podere più su di noi. Avevo uno zio sposato con una Novelli. I vecchi dei Novelli sono ritornati nel ferrarese, gli adulti no, sono rimasti qui. Gli Scardovelli stavano nella strada che portava all’aeroporto. A casa nostra entravano le lepri, le volpi. Le volpi, quante ce n’erano! Qua era natura selvaggia. Al solo pensiero, a raccontarla non sembra vero. Io e mio fratello ci avevamo preso pure la malaria. Fino a dodici anni sono andata avanti a punture, e febbri alte, a quaranta gradi, prendendo chinino. Poi sono passati a dare medicine contro la malaria, e sono guarita.

Bianca B.

 

La differenza fra il ferrarese e il sardo c’è. Nelle proprie tradizioni, nella propria cultura. La differenze c’è ed è molta. Molta molta. Ancora oggi, la poca gente che è rimasta qua, si vede che è differente dai sardi. Quando i ferraresi sono venuti qui, hanno mantenuto le loro tradizioni, anche quelle culinarie. Io tutt’ora faccio i cappelletti, i cappellacci alla zucca. I miei genitori, i miei suoceri, tutti i coloni parlavano tra loro il ferrarese. Io non parlo proprio il ferrarese. Qua, quando mi viene gente, mi dicono “Signora, lei non è sarda”, perché si accorgono che non ho la cadenza sarda. Al tempo si lavorava, tantissimo. Ma la  domenica il ferrarese voleva divertirsi. Mentre il sardo no, non veniva a ballare, non era socievole. C’era un dopolavoro. Io ci sono andata quando ero piccolissima, però mi ricordo. Questo dopolavoro era per loro un locale bellissimo. A me piace ballare, ma mia mamma e mio padre erano davvero bravi. E si divertivano. Andavano a fare il fine settimana lì.

Anna Maria B.

 

Quando arriviamo qui leghiamo comunque subito bene, in armonia. Tutt’ora, con quelli che sono rimasti siamo in ottimi rapporti. Adesso ci sono i figli dei figli, ma abbiamo sempre avuto un buon rapporto con tutte le famiglie ferraresi. Ci vestivamo normali, come in continente. Qua, in Sardegna, ci dicevano che noi donne avevamo la coda, perché andavamo in bicicletta. Da noi, in continente, nel ferrarese, era una cosa normale: io già ci sapevo andare in bici. In Sardegna no. Quando le donne dovevano andare ad Alghero in bici, dalla popolazione sarda erano viste malissimo, e pensavano che avessero la coda.

Bianca B.

 

La cucina era ferrarese. I cappelletti li abbiamo sempre mangiati. I cotechini anche. Mio padre era macellaio, andava in giro ad ammazzare i maiali e a fare i salami, i prosciutti. E io lo aiutavo. Con mio zio. Il padre della Bolognesi veniva nelle case la sera e ci raccontava le fòle. E Finetti era il suo maggiordomo. Raccontava favole, romanzi. Casa per casa. Il giorno prima passava dicendo che a sera sarebbe passato. La sera veniva, raccontava le fòle e poi andavamo a letto. Lui invece rimaneva a parlare un po’ coi miei genitori. Una bicchierata assieme e via, tornava a casa, la sera. Quando facevano il veglione, la mascherata, insomma il carnevale, veniva Bolognesi, il papà della Bianca, e ci diceva: “Madame, pias al salam? Si bata pasel. Acqua ze zapel”. Il vecchio Baricordi ricordo che si vestiva da carabiniere, come Busi. Facevano passare quelli autorizzati, poi si partiva in bici. Tutti mascherati.

Fernando P.

 

Noi per tutta la settimana ci ammazzavamo di lavoro, ma la domenica si andava a ballare. Io ho cominciato a dieci anni a rompere le scatole a mio fratello per andare a ballare. Fuori Fertilia, c’era un grande salone e si ballava tutti i sabati con l’orchestrina. C’erano due fratelli gemelli, Giancarlo e Gianfranco Gavioli, da Bondeno, che abitavano qui e un altro amico che suonava la tromba, un certo Siler Rosa (ferrarese) e un altro uomo grande la batteria, e si ballava tutta la notte, oppure si andava nelle case da amici. Io abitavo nella prima strada per arrivare a Santa Maria la Palma. Di notte ero così stanca per il colero che facevo durante il giorno che mi addormentavo subito. Mio padre con mio zio, però, amavano molto leggere i romanzi, così sapeva raccontare le storie, le favole e ogni sera andavano nelle case dei ferraresi.

Bianca B.

 

Anche qui, in Sardegna, abbiamo continuato con la cucina ferrarese: cappelletti, salame da sugo, mio fratello faceva i salami. Noi lavoravamo come bestie, ma di domenica si andava al dopolavoro, una struttura che sta nella via che porta all’aeroporto. Si ballava, i ferraresi hanno sempre saputo divertirsi, anche con la miseria. C’erano dei bravi suonatori di fisarmonica e si divertivano come possono fare le persone quando sono giovani. Le altre famiglie ferraresi qua le abbiamo iniziate a conoscere perché ogni fine settimana i capi famiglia facevano le riunioni per discutere di quello che mancava, dei bisogni ecc. Il fascismo non ti lasciava niente, quello che producevi se lo portava via il fascismo, a te non ti lasciavano nulla. Non c’era guadagno.

Walter G.

 

Tutti gli uomini, alla domenica, andavano al dopolavoro dove ballavano, giocavano, c’era il bar, la pista da ballo. Ci riunivamo nelle case anche tra di noi, si suonava la fisarmonica, ballavamo sull’aie, per san Martino mangiavamo le castagne. La cucina è sempre stata quella ferrarese, i cappelletti, la salama da sugo. Da bambina non mi vestivo come i sardi di certo. L’acqua la prendevamo dai pozzi, dalle fonti, e c’era mio zio Gino Peretto che col furgone e le cisterne portava l’acqua nei poderi. La sera passava il vecchio Bolognesi che ci raccontava le favole, dei romanzi, per festeggiare un po’ e stare assieme, poi si beveva, si giocava, a volte dormivo dalle mie amichette. Ci si riuniva in quattro o cinque famiglie. Era bello. Le raccontava in ferrarese.

Marta P.

 

Quando i ferraresi andavano ad Alghero, gli algheresi guardavano se avevano la coda, perché vedere persone sulla bicicletta, soprattutto donne, era strano, una roba mai vista. Noi eravamo progrediti rispetto a loro. Los ferraresus, ci dicevano i sardi, come fossero delle bestie, degli animali.

Walter G.

 

I miei erano ferraresi doc: mia madre è andata a scuola a Copparo mentre mio padre tifava per la Spal. Qua c’erano i sardi, i veneti, i corsi, poi gli istriani. Spesso non ci capivamo, anche a scuola con gli algheresi. Quando una bambina ferrarese stava male arrivava il medico, ma era sardo, e alla bambina faceva  domande in sardo, e lei non capiva, rispondeva in ferrarese, e i due non si capivano, così la bambina continuava a piangere. Avevamo difficoltà a capirci con tutti. Quando i sardi ci parlavano e noi dicevamo che non avevamo capito, loro ci dicevano “Mi sono capito io”. Ah, va bene, allora risponditi da sola, se ti sei capita tu! Noi abbiamo sempre continuato a parlare ferrarese, ancora adesso con mia madre parlo ferrarese.

Mirella R.


Note

1 Si veda il video de “La Settimana Incom” del 28/08/1952: A Fertilia rivive Pola.

2 Marialuisa Molinari, L’emigrazione dei profughi giuliani in Sardegna e Oltreoceano, in “Storia e futuro”, 2017, n. 45; Enrico Alessandro Valsecchi, Fertilia: anni di pace di guerra, Alghero, Nuova Comunità, 1995.

3 Le video-interviste ai ferraresi di Sardegna sono state effettuate da Stefano Muroni nel settembre del 2012. Tutto il materiale, registrato su cassetta minidv, è conservato presso l’Archivio Privato Stefano-Giuseppe Muroni.

4 Cfr. Federico Mancosu, Recenti insediamenti rurali sorti in Sardegna, in “Studi Sardi”, vol. XX, 1966-67, p. 495.

5 Benito Mussolini, Discorso dell’Ascensione, Roma 1927, p. 15. Il testo è inserito in Opera Omnia di Benito Mussolini, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, 35 voll., Venezia 1951-63. Sui temi riguardanti demografia, città e campagna cfr. Riccardo Mariani, Fascismo e città nuove, Milano, Feltrinelli, 1976.

6 La società privata Bonifiche Sarde (poi SBS) e due enti di diritto pubblico, l’Ente Ferrarese di Colonizzazione e l’Azienda Carboni Italiani (ACaI).

7 Anna Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 1976; Alberto Mioni, Le trasformazioni territoriali in Italia nella prima età industriale, Venezia, Marsilio, 1976.

8 Cfr. Rolf Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 85-91.

9 Il 1928 è da menzionare, in ambito locale, per la preparazione e celebrazione del VII Congresso Provinciale Federale. Mussolini aveva inviato a Ferrara Vittorio Cini per assistere e controllare la preparazione e lo svolgimento dell’assemblea. Cini fu nominato commissario di governo per il programma economico ferrarese e seguì l’iter progettuale della zona industriale di Ferrara, divenendo anche mediatore tra le forze industriali, che premevano per inserirsi nell’affare partecipando alla lottizzazione dell’area per ottenere finanziamenti pubblici, e i ministeri competenti. Nel Congresso del ’28 con un compromesso-accordo tra proprietari terrieri locali e gruppi finanziari-industriali nazionali vennero gettate le basi di politica economica che caratterizzeranno Ferrara e il suo territorio per tutti gli anni Trenta. Cfr. Atti del VII Congresso del Fascismo Ferrarese (12 febbraio 1928), Ferrara 1928; Renato Sitti, Un programma autarchico di industrializzazione nel ferrarese, in “Quaderni emiliani”, 3, 1979, pp. 133-134. Lo studio della «macchina del consenso» nel Ferrarese presenta materiale inedito e di interesse poiché il regime dovette frenare l’esplosività del bracciantato agricolo che viveva in condizioni di indigenza estreme. A tal riguardo cfr. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Divisione Generale di Pubblica Sicurezza, Affari Generali Riservati, b. 44 II, 1932, Ferrara, 21 aprile 1931, Relazione del Prefetto di Ferrara al Ministero dell’Interno, relativa a manifestazione sediziosa di Valpagliaro di Denore.

10 Maurice Le Lannou, Patres et pausans de la Sardaigne, Tours 1941 (trad. it. Pastori e contadini di Sardegna, a cura di Manlio Brigaglia, Cagliari 1992).

11 Si veda il Giornale Luce del 18/03/1936: La bonifica della Nurra in Sardegna e l’inaugurazione del Comune di Fertilia.

12 Maria Luise Di Felice, Le città di fondazione fascista: problematiche storiografiche e fonti archivistiche, in Le città di fondazione in Sardegna, a cura di Aldo Lino, Cagliari, CUEC, 1998, p. 106.

13 Cfr. Carte Ascione, b. 4. Le cosiddette Carte Ascione sono un archivio privato conservato presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari. Una parte della documentazione è stata inserita in Manlio Brigaglia, Guido Melis, Per una storia della bonifica della Nurra. Le “Carte Ascione” (1919-1948), in Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo. Storia di una città e di una minoranza catalana in Italia (XIV-XX secolo), a cura di Antonello Mattone e Piero Sanna, Sassari, Edizioni Gallizzi, 1994.

14 ECNAZ [Economia Nazionale], Fertilia di Sardegna, in “L’Economia Nazionale, a cura di Livio Tonini, ottobre 1936.

15 Da approfondire è il rapporto tra Giorgio Gandini, architetto ferrarese, Italo Balbo e Mario Ascione. Cfr. Lucio Scardino, Un paese “ferrarese” in Sardegna: Fertilia, in “La Pianura”, 2004, n. 3, p. 52.

16 Cfr. Giorgio Peghin, Architettura e città tra avanguardia e tradizione. Fertilia nei progetti del 1935 e del 1937, in Fertilia e la citta del Novecento, Alghero 2001, pp. 26-27.

17 Sulla posizione camaleontica di Mussolini, Rocco affermò: «Mussolini va sempre avanti, ma non in linea retta. Va avanti a zig-zag, dando ai più opposti, successivamente, l’impressione d’avvicinarsi a loro, e invece fa la sua strada», cit. in Paolo Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 2008. Cfr. Renzo de Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario.1936-1940, Torino, Einaudi, 1996; Giorgio Ciucci, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città,1922-1944, Torino, Einaudi, 2002.

18 Cfr. Maurice Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, Cagliari, Edizione della Torre, 2006.

19 Fare San Michele fa riferimento all’atto del traslocare. Il 29 settembre, giorno di San Michele, nel caso in cui il padrone – proprietario dei campi e della cascina – non avesse rinnovato il contratto al contadino per l’anno successivo, questi era costretto a trovare un nuovo impiego altrove, presso un altro padrone. La campagna si riempiva, così, di carri carichi di masserizie e di famiglie in cerca di lavoro.