Asia centrale, primavera 2015

Dopo tre ore di traffico folle, dal centro di Mosca raggiungo Khimki, una delle città satellite della periferia nord della megalopoli moscovita. Questo viaggio in solitaria nelle immensità dell’Asia centrale parte nel caos mostruoso del traffico, strade a 5-6 corsie congestionate da milioni di pendolari che affluiscono e defluiscono quotidianamente dalle città limitrofe verso Mosca.

Da Khimki, attraverso strade secondarie, riusciamo ad immetterci nello stradone che porta a Sheremetievo, il più grande aeroporto della capitale. Dalle sue piste partono voli per città ancora oggi misteriose e indecifrabili per un occidentale: Anapa, Novii, Urengoi, Voronezh, Barnaul, Dushambe, Simferopol… Da qui si ha  netta la percezione dell’immensità dell’Eurasia: voli diretti da 8-10 ore per raggiungere la parte asiatica della Russia, con compagnie aeree sconosciute ai viaggiatori del turismo globale.

All’imbarco per Astana, Kazakhistan, cambia completamente l’atmosfera: pochi russi, pochissimi europei, ovunque volti asiatici: cinesi, uzbeki, kazaki, mongoli, tagichi. L’Asia centrale è territorio di emigrazione verso la Russia, nelle metropoli russe vivono milioni di cittadini delle ex repubbliche asiatiche, un afflusso che continua ininterrotto dalla fine dell’Unione Sovietica, favorito da una lingua comune, il russo, e dalla possibilità di entrare nella Federazione russa senza il visto, obbligatorio per noi europei.

Dopo sei ore di tranquillo volo si atterra ad Astana, la capitale del Kazakhistan, la nona nazione più grande del mondo, con solo 18 milioni di abitanti e sterminate risorse di idrocarburi e minerali, snodo di interessi geostrategici delle maggiori potenze mondiali: Stati uniti, Cina e Russia. Paese cerniera tra il mondo slavo e il magma musulmano, permeato da un bilinguismo onnipresente tra il russo e il kazako (lingua di ceppo turco) che incarna il suo status di nazione di frontiera, grazie ai proventi del sottosuolo e all’astuta guida politica è riuscito a primeggiare nello sviluppo tra le cinque nazioni centro asiatiche post sovietiche. L’aeroporto si trova alla periferia della capitale, il taxi che mi porta all’albergo costeggia enormi cantieri edili: stanno preparando l’Expo 2017 che si svolgerà qui, intitolato alle energie alternative e rinnovabili, in una nazione che esiste e prospera unicamente sul gas e il petrolio!

Astana (letteralmente “capitale” in kazako) è una città di un milione di abitanti nel bel mezzo della steppa, diventata capitale dal 1998 per volere del presidente Nazarbayev, spodestando Almaty come principale centro politico della nazione. In epoca sovietica chiamata Tselinograd, la città contava poche migliaia di abitanti, mentre ora è una metropoli surreale: grattacieli avveniristici si alternano ad immensi palazzi di compagnie petrolifere, enormi musei che glorificano la storia kazaka si aprono su piramidi in stile egizio, uno smisurato centro commerciale in forma di yurta1 svetta ai margini del centro ed è il luogo più affollato della città, in realtà semideserta di giorno, perché il caldo feroce e le distanze impediscono di girarla a piedi.

Di sera le vie centrali si riempiono di gente attorno alla futuribile torre Bayterek, che può essere visitata fino alla sommità: dai suoi 100 metri di altezza si capisce che tutto intorno alla città c’è la steppa infinita, e niente altro. Enormi schermi nelle vie centrali di notte trasmettono i discorsi del presidente Nazarbayev, unico ed eterno presidente del Kazakhistan dal 1991, anno dell’indipendenza del paese dopo il collasso dell’Unione Sovietica.

Nazarbayev ha ottenuto il 97% dei voti alle ultime elezioni del 2015, venendo rieletto per la quinta volta consecutiva, nel tripudio festante della popolazione e con l’applauso delle sparute opposizioni. Il suo smisurato palazzo presidenziale, Ak Orda, si trova in una gigantesca piazza deserta nel centro di Astana, visibile da ogni posizione ma inaccessibile, rilucente nel suo marmo bianco con cupola azzurrognola sovrastata da spirale di 80 metri.

Questa città nata dal nulla, nel centro del nulla della steppa, è stata negli ultimi anni il laboratorio per le opere di architetti star di fama mondiale: il regime ha finanziato opere smisurate per dare lustro alla capitale e alla nazione. Centri commerciali lussuosi, ristoranti, negozi di marchi della moda occidentali: Astana è una città ricca ed in espansione, meta anche di un turismo dalla Russia e dalla Cina, una sorta di Dubai centroasiatica, dove si rimane a bocca aperta per l’architettura all’avanguardia (come testimonia la foto di apertura dell’articolo). Il palazzo della Pace e dell’Armonia, piramide in vetro e acciaio, disegnato da Norman Foster, incarna il sogno politico del paese: porsi come un crocevia tra Russia, Cina e Occidente, con la stabilità autoritaria di Nazarbayev e l’islam moderato professato dai suoi abitanti.

Di sera passeggiando lungo il fiume Ishim si ammirano i giochi di luce, gli spettacoli delle fontane, si beve birra ghiacciata e si mangiano spiedini nei ristorantini disseminati ovunque, si vedono le moschee scintillare in lontananza: avverto la forte sensazione di un paese in bilico tra mondi diversi: la Russia di Putin come modello politico, l’islam e il mondo turcomanno come cultura profonda, l’Occidente come obiettivo economico e dei consumi.

Una interessante visita al museo del Kazakhistan, struttura modernissima e stupefacente, mi illustra il passaggio da un mondo nomade ad una società moderna in pochi decenni, in contemporanea al repentino passaggio dall’Unione Sovietica al Kazakhistan indipendente: in definitiva una nazione che dal 1991 in poi ha radicalmente cambiato tutto, tranne il potere politico, indiscutibile e senza alternative.

Da Astana mi imbarco per Almaty, la città più grande del paese, suo centro nevralgico e capitale fino al 1998. Almaty si trova nel sud del paese, in posizione eccentrica rispetto alla totalità del Kazakhistan, vicina al confine cinese e kirghiso.

Totalmente diversa dalla capitale, i suoi 160 anni di storia la fanno sembrare una città arretrata, caotica e “sovietica” rispetto alla nuovissima e scintillante Astana. Qui le varie culture dello Stato centroasiatico sono stratificate e fuse: l’islam con il passato sovietico, il moderno Kazakhistan con i segni della Russia zarista, il frenetico lifestyle occidentale con i ritmi lenti dell’Asia centrale.

La città si dipana in leggera salita lungo l’asse nord-sud, per paralleli viali alberati che portano gradualmente verso le montagne innevate. Mi dirigo alla collina Kok-tobe, da cui si può osservare la città dall’alto e dove ci si rimpinza di birra e spiedini di carne con sottofondo di musica turca e pop russo. Qui i prezzi sono molto più bassi che ad Astana, nel bazar Zelyony ci si tuffa in una folla variopinta e povera: bancarelle piene di oggetti di ogni tipo, venditori da tutta l’Asia centrale propongono qualsiasi merce, un frugale ma saporito pasto costa mille tenge, circa tre euro. Il sovietico viale Lenin, ora denominato “Dostuk”, è l’arteria principale di Almaty: pullula di locali, negozi, bar, cambiavalute, gente a passeggio, tassisti.

Dopo aver girovagato due giorni per la città mi dirigo verso le montagne che la dividono dal confine kirghiso: priva di grandi attrattive turistiche, Almaty è sovrastata da meravigliose montagne di quattromila metri non ancora sfregiate dallo sviluppo economico e turistico di massa.

Giunto in autobus a Medeu (1700 metri) mi imbatto in una festa di matrimonio con limousine parcheggiata nel locale adiacente la gigantesca pista di pattinaggio. Da Medeu salgo sulla cabinovia, totalmente automatica e deserta, che inerpicandosi per 25 minuti tra le valli kazakhe mi scarica a Chimbulak (2300 metri), stazione sciistica invernale per i ricchi kazaki e russi.

Qui i prezzi sono esorbitanti, adeguati per gli abbienti kazaki che frequentano il posto per abbronzarsi, bere, guardare la caccia con le aquile. Dopo aver acquistato un cappellino per difendermi dal sole feroce di queste altezze e aver parlato con una giocatrice norvegese di calcio, attirata dai lauti ingaggi di una squadra locale, mi accorgo che una funivia porta al punto più alto del comprensorio, oltre i 3000 metri.

Totalmente sprovvisto di attrezzatura, in calzoni corti, k-way e scarpe da tennis, mi porto alla sommità del monte, dove ancora giace la neve, in un ambiente di alta montagna. Da qui il panorama è mozzafiato: montagne tra i tre e i quattromila metri a perdita d’occhio, nessuna traccia umana, l’immensità primordiale che mi avvolge. Cammino per sentieri tra i crinali, vedo decine di montagne all’orizzonte, vorrei stare a lungo ma il freddo si fa intenso e saggiamente torno verso la funivia che mi riporta dopo un lungo viaggio alla stazione turistica sottostante.

Dopo alcune ore e vari cambi di mezzo di trasporto torno ad Almaty stremato e affamato: faccio amicizia con un tassista tifoso del Milan e di Berlusconi, mi porta in una bettola dove mi ingozzo di beshbarmak, il piatto nazionale kazako, e di laghman, esotici tagliolini con carne e verdure.

In un ufficio turistico compro il biglietto d’autobus per Bishkek, capitale del confinante Kirghizistan, piccolo e montuoso stato centroasiatico. Formalmente democratico ma dilaniato da lotte intestine tra clan, il paese è schiacciato dai suoi enormi e potenti vicini, in primis Russia e Cina. Sede di una grande base aerea americana, strategica per la sua posizione, scosso ciclicamente da rivolte nelle sue enclavi uzbeke e tagiche, con una economia poverissima, il Kirghizistan dopo la fine dell’Unione Sovietica è stato contrassegnato da una instabilità politica ed economica continua, causa di una massiccia emigrazione verso la Russia. Crocevia di popoli nel corso dei secoli, dagli antichi sciti ai turchi, invaso dagli arabi e dai mongoli di Gengis Khan, sottomesso al khanato uzbeko fino all’annessione del 1876 alla Russia zarista e poi sovietica, nel 1990 nasce come nazione indipendente e sovrana.

Dopo un viaggio di cinque ore, passato il confine, arrivo a Bishkek, circondata da vette innevate su tutti i lati. Fondata nel 1978, la capitale si snoda attorno all’enorme piazza Ala-too, impregnata di storia e cultura sovietica: la statua di Lenin convive con quella di Manas, mitologico guerriero di un poema orale codificato solo nel diciannovesimo secolo, i monumenti della Seconda guerra mondiale punteggiano il centro cittadino.

La popolazione è molto più povera del confinante Kazakhistan, l’assenza di giacimenti di idrocarburi e la montuosità del territorio rendono il Kirghizistan nettamente più arretrato del suo grande vicino, con poche prospettive di un futuro miglioramento delle condizioni di vita. Di sera anche il centro cittadino è male illuminato, lungo la prospettiva Chui, principale arteria stradale, i negozi sono spesso grigi e poco invitanti, non mancano i mendicanti nei sottopassaggi stradali.

La gente affolla i parchi o ammira i giochi d’acqua delle fontane del centro cittadino, sparuti artisti di strada suonano nenie ipnotiche, la gioventù affolla i chioschi di spiedini di carne o le mescite di birra. Il bazar Osh è l’attrazione turistica principale: enorme conglomerato di venditori e bancarelle, al suo interno ci si può perdere tra cumuli di spezie e frutta secca, paccottiglia cinese, pezzi di ricambio ammassati, merci di ogni genere da ogni parte del paese.

Dopo essermi orientato nella città contratto con un giovane tassista kirghiso un viaggio fino al lago Issuk-kol per il giorno seguente. Fuori dalla capitale si intuisce la profonda povertà di questa remota nazione: branchi di animali spesso interrompono il traffico, misere famiglie vendono ortaggi e frutta lungo le strade, case non completate punteggiano vie solcate ancora da auto e sidecar di stampo sovietico.

Dopo alcune ore di viaggio tra altopiani e montagne, come un miraggio mi appare il lago: una meraviglia naturale incastonata in un paesaggio lunare e spoglio. Il lago Issuk-kol è il secondo lago montano del mondo per dimensioni, situato a 1600 metri di altezza, circondato da alcune rade località turistiche per russi e kazaki, si stende con le sue cristalline acque in un altopiano sormontato da cime oltre i 4000 metri.

Inizio a vedere le yurte attorno alle sue rive, intravedo sanatori per improbabili vacanze di fianco a cimiteri islamici: il panorama ha un fascino straniante e maestoso. Percorsi 50 km lungo le sue rive settentrionali mi fermo per la notte in una yurta-albergo a Grigorevka, da qui il giorno successivo mi dirigo nella valle Chong Ak-Suu, allontanandomi dal lago. Inizia un tuffo nel passato tra valli di stampo alpino, incontaminate, disseminate da villaggi di yurte, costellate da sentieri che portano a laghi di montagna isolati tra le vette.

Dopo due giorni di cammino in queste gole mozzafiato, incontrando kirghizi della montagna incuriositi dalla mia presenza, inizio il lungo ritorno verso la capitale Bishkek: quando vi arrivo, al tramonto, mi sembra adesso modernissima e splendente di vita. Dopo una cena a base di samsa (un involtino di carne e pasta) conclusa dal kumys, bevanda nazionale derivata dal latte di giumenta, mi preparo al volo per Novosibirsk, centro della Siberia russa.

Il volo di Siberian Airlines mi porta in due ore in questa metropoli, la più grande ed importante città siberiana della Federazione russa. La regione di Novosibirsk è grande come mezza Italia con meno di tre milioni di abitanti, nonostante questo è una delle regioni siberiane più popolose e più sviluppate. Il moderno aeroporto di Tolmacevo fa subito capire il differente livello economico tra la Russia e i paesi centroasiatici, un divario che alimenta una incessante immigrazione verso le grandi città della Federazione russa, Novosibirsk compresa, affine per motivi storici e linguistici.

Città di enormi dimensioni, adagiata sui due lati del fiume Ob, fondata alla fine del diciannovesimo secolo, profondamente permeata dall’architettura del Novecento sovietico, deve la sua importanza alla Transiberiana che la attraversa e ne ha fatto il centro economico e finanziario principale della Siberia e delle sue immense ricchezze. Dotata di una comoda metropolitana, con un traffico in crescita esponenziale e spesso caotico, è una metropoli ordinata ma senza storia, senza nulla di strettamente turistico: la massima attrazione è il suo enorme teatro, uno dei più grandi al mondo, attorniato da ristoranti alla moda e negozi dei brand occidentali.

Rispetto alle nazioni centroasiatiche lo straniamento del turista è molto minore: anche al di là degli Urali si avverte una comune cultura con il popolo siberiano, l’intera Russia ha ampie affinità con l’Europa, seppur in uno svolgimento storico assai differente e non paragonabile. Al centro della chilometrica Krasny prospekt si erge una piccola chiesa ortodossa, considerata il centro geografico della Russia: l’estremo oriente russo è da qui equidistante ai confini occidentali della Russia, spazi smisurati, disabitati e inconcepibili per un europeo. Comitive di sposi vengono per fare foto ricordo, posare davanti alle icone dei santi ortodossi, in un tripudio di bandiere russe ed orgoglio patriottico. Vado verso la periferia meridionale e davanti ai miei occhi lentamente la città si trasforma in anonimi e grigi sobborghi, una miriade di altissimi palazzi tutti uguali, molti dei quali costruiti negli ultimi venti anni, per poi sfumare in una marea sterminata di dacie estive, sogno agreste e borghese di ogni russo che si rispetti.

Mi dirigo ad Akademgorodok, letteralmente “cittadina accademica”, sobborgo immerso nella taiga che fin dall’epoca sovietica ospita istituti di ricerca e centri scientifici. Qui si concentra la più acculturata gioventù siberiana, una sorta di enorme campus dove lavora a stretto contatto l’élite scientifica di queste zone, immersa in una natura smisurata e poco accogliente: per due terzi dell’anno le temperature sotto abbondantemente sotto lo zero. Parlo con dei ragazzi in un caffè, magnificano la zona dell’Altaj come un paradiso naturale: decido di partire per Belokuricha, lontana stazione termale tra i monti Altaj. Terra magica per generazioni di russi, antico regno di sciamani ed eremiti, improntata da un fortissimo substrato animista, è oggi un paradiso naturale che sta iniziando ad essere scoperto dal turismo. L’autobus mi porta per rettilinei chilometrici in mezzo alla taiga fino a Barnaul, grigia città industriale, e poi a Bijsk, porta d’accesso per la parte montuosa della regione. Ammiro la bellezza di questi luoghi, considerati dai russi un eden ancestrale e leggendario, una sorta di far west russo. Arrivo distrutto a Belokuricha, piccola cittadina termale in una vallata meravigliosa, distante 500 km da Novosibirsk. Una giornata in questo angolo paradisiaco mi rigenera, tra massaggi e camminate, e poi di nuovo indietro verso Novosibirsk con la marshrutka, minibus tipico di queste terre, perché mi attende l’aereo di ritorno. Panorami unici, passando dalla steppa alla taiga, incrociando spesso colonne di militari, viaggiando per lunghi tratti senza traffico alcuno lungo la strada. Ci fermiamo in un misero bar: camionisti cinesi, camerieri uzbeki, turisti russi: l’Asia centrale da millenni meticcia si rifocilla di zuppe e pelmeni, ravioli di carne con panna acida. Ormai vicino alla città e al volo di ritorno per Mosca, in autobus costeggio il mare di Ob, immenso bacino artificiale su cui esistono piccole spiagge sabbiose di fronte ad un’acqua grigia e gelida, con alle spalle la foresta sconfinata: mi fermo e voglio provare il brivido di un bagno in Siberia, tra sparute famiglie che bivaccano sulla spiaggia e cercatori di funghi. Poi cercherò un passaggio per l’aeroporto, chiamerò un taxi, farò l’autostop come tanti fanno qui.

Scavalco il guard rail, vado verso la spiaggetta, circa 20 gradi e un pallido sole. Inizio a spogliarmi, rimango in mutande e ciabatte, da solo in una spiaggia vicino a Berdsk, regione di Novosibirsk, Siberia centrale. Una coppia mi guarda attonita e mi invita ad unirmi al loro picnic: melone, cocomero, spiedini e birra a fiumi, poi quasi ubriaco mi immergo in un acqua gelida tra le loro risate. Adesso mi sento, dopo un lunghissimo viaggio, nel posto giusto, lontano da tutto e tutti, nel grembo della Grande Madre Russia.


Note

1 Abitazione mobile tradizionalmente adottata dai popoli nomadi di queste terre.