Enzo Bearzot e i Mondiali di Spagna: epopea di un mito moderno

L’estate del 1982, l’atmosfera magica che si visse nei giorni e nei mesi che portarono e seguirono la vittoria dei mondiali di Spagna da parte della nazionale italiana, segnò un nodo cruciale nella storia del calcio italiano e della vita sociale del Paese. Per comprendere la vera portata di quella vittoria, e per capire quanto quella squadra riflettesse i valori, oltre che il credo calcistico, del suo condottiero, Enzo Bearzot, dobbiamo partire dal contesto storico-sociale che si viveva in quegli anni. Un errore da evitare, infatti, quando si parla di questi accadimenti apparentemente lontani dai grandi fatti storici, è quello di considerarli, appunto, fini a se stessi, circoscritti al momento cronologico in cui avvengono, senza diramazioni e influenze successive. In realtà, essi implicano tutta una serie di mutamenti, spesso latenti, che coinvolgono le discipline stesse, ma anche molteplici aspetti del comune vivere sociale. Per questo motivo occorre fare una sintesi, seppur rapida, di quello che era il momento storico di quegli anni, dei mutamenti successivi e anche della genesi della squadra, del momento calcistico che si viveva e degli sviluppi che ebbe negli anni a seguire.

L’atmosfera che si viveva in Italia tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta era molto cupa, quegli anni sono stati squassati da terrori e lutti, estremizzazione di quelli che furono i primigeni moti studenteschi del 1968, in una strategia del terrore che creò una vera cappa, tanto da passare alla storia come Anni di Piombo. Le stragi si succedevano alle stragi, a partire da quella del 12 dicembre 1969 di Piazza Fontana a Milano, fino a quella del 2 agosto del 1980 alla stazione di Bologna, eventi sanguinosi di criminalità comune si mischiavano a quelli dettati da una distorta lotta al potere, con una virulenza che sembrava non dovesse avere fine. Tutto questo aveva colpito anche il mondo dello sport, con la strage degli atleti israeliani da parte dei terroristi palestinesi di Settembre Nero ai Giochi Olimpici di Monaco 1972.

In Italia sul finire del decennio accaddero due avvenimenti che aggravarono ancor di più la situazione. Il 16 marzo del 1978 fu rapito l’onorevole Aldo Moro dalle Brigate Rosse, poi assassinato il nove maggio; il 23 novembre del 1980, una violenta scossa di terremoto con epicentro tra Campania e Basilicata provocò migliaia di morti e immani distruzioni, con paesi letteralmente rasi al suolo. Da tutto questo non era stato escluso, come detto, nemmeno il mondo dello sport. Il calcio in Italia subì un duro colpo nel 1980, in piena organizzazione dei mondiali spagnoli e con un Campionato Europeo da disputare proprio lì, quando scoppiò lo scandalo del Calcioscommesse. Il 23 marzo del 1980 gli appassionati di calcio ebbero la sgradita sorpresa di vedere, a “Novantesimo Minuto”, le auto della Guardia di Finanza dentro gli stadi per prelevare direttamente alcuni calciatori accusati dai faccendieri Alvaro Trinca e Massimo Cruciani di avere operato per truccare alcune loro gare. Questo scandalo sarebbe sfociato nella squalifica di nomi illustri del calcio italiano, primi fra tutti Paolo Rossi e Bruno Giordano, vale a dire l’attacco su cui contava Bearzot per la sua Nazionale. Fu un duro colpo, che fece all’improvviso scoprire come ormai il calcio non fosse più l’isola felice e spensierata che gli italiani credevano.

Questo era, quindi, il quadro di quel periodo. L’Italia aveva bisogno di qualcosa, un simbolo cui attaccarsi, una guida che la tirasse fuori dal periodo buio, che indicasse un sentiero di speranza. Già dopo un periodo di certo più cruento e drammatico, alla fine della Seconda guerra mondiale, il popolo italiano aveva avuto bisogno di un simbolo cui riferirsi per iniziare la lenta, dolorosa ma necessaria ricostruzione. Anche allora quel simbolo fu una squadra di calcio, quella passata al mito con il nome di Grande Torino. Quel simbolo fu rappresentato, in questo caso, da quel manipolo di uomini in maglia azzurra che, nel momento più difficile, quando tutto sembrava impossibile, si era stretto intorno alla sua guida, firmando l’impresa. Ma quale fu la genesi di quel successo e, soprattutto, chi fu l’uomo che permise questo successo?

Enzo Bearzot nacque ad Ajello del Friuli il 26 settembre del 1927 (morì a Milano il 21 dicembre del 2010) e per tutta la sua vita, anche sportiva, avrebbe rispecchiato l’onestà e la caparbietà tipiche della sua gente, facendone, anzi, un tratto distintivo della sua personalità. La sua carriera agonistica fu onesta, senza picchi, trascorsa sui campi spesso fangosi dell’epoca indossando le casacche di Inter e Torino, con un intermezzo a Catania dopo aver iniziato alla Pro Gorizia. Una vita calcistica spesa essenzialmente in difesa e in mediana che gli valse una sola chiamata in Nazionale, ma di quelle che restano nei ricordi, anche se segnata dalla sconfitta, contro la Grande Ungheria marcando Ferenc Puskas, in una gara disputata il 27 novembre del 1955, valevole per l’allora Coppa Internazionale e vinta dai magiari per due a zero, dopo strenua resistenza azzurra (reti dello stesso Puskas all’80’ e di Toth II all’83’).

Smessi i panni di atleta indossò quelli da allenatore, lavorò poco con i club, come assistente di Nereo Rocco e di Edmondo Fabbri, carpendo qualche loro segreto, prima di passare nei quadri federali. Fu questo, in pratica, il primo mattone per la vittoria del 1982, perché quella è una vittoria che nasce da lontano, dal Mondiale argentino del 1978, ma ancora prima, probabilmente nasce direttamente dal fischio finale di quel Polonia-Italia del Mondiale di Germania del 1974, terminato con la vittoria polacca (due a uno) e l’eliminazione azzurra. Quella sconfitta segnerà la fine dei “Messicani” e di Ferruccio Valcareggi come Commissario Tecnico, il rinnovamento fu avviato da Fulvio Bernardini e perfezionato da Bearzot.

La vittoria del 1982 nasce non per caso, come si potrebbe pensare, ma grazie ad un lavoro tecnico continuo durato otto anni, raro esempio di programmazione, per la verità a tratti forzata o molto forzata, caso praticamente unico nel nostro calcio. Già dal 1978, e partendo dalla lunga scrematura iniziata nel 1974, Bearzot aveva costruito la Nazionale che ben si comportò in Argentina. Lo scandalo del Calcioscommesse del 1980 l’aveva decimata, le prove, più che i risultati, di avvicinamento erano state sotto le attese e gli auspici con cui si partiva, con un attaccante, Rossi, inattivo da due anni, un altro, Roberto Bettega, infortunato, con l’apparente testardaggine di Bearzot a non voler tener conto del campionato, e a non portare soprattutto Roberto Pruzzo ed Evaristo Beccalossi, non creavano dei buoni presupposti. Questa apparente impuntatura, però, ci fornisce lo spunto per capire quella che era la concezione di squadra del friulano:

Prima di tutto tengo molto ad un principio di fondo: quello di curare il gruppo prima del singolo, quello di formare una “famiglia” calcistica in maglia azzurra, e non di mettere assieme tanti bravi professionisti del pallone1.

Il primo concetto è quello della famiglia, di cui lui è il patriarca:

È solo la forza del gruppo, solo una compattezza assoluta come quella dimostrata dai miei azzurri poteva dare alla Nazionale la carica per quel sensazionale “crescendo” di Barcellona e Madrid, arrivando al massimo del rendimento pochi giorni dopo che tanti – anche all’interno – ci avevano sommerso di critiche per l’avvio stentato, per i tre pareggi ottenuti nella prima fase del Mundial2.

Il secondo concetto è quello del gruppo, che doveva essere compatto, coeso, difeso strenuamente da tutti i tipi di attacchi:

Io dico spesso che la mia Nazionale nasce non solo sul terreno di gioco e nello spogliatoio, ma pure in sala da pranzo, nelle camere degli alberghi dove trascorriamo quelle lunghe giornate di vigilia o i “ritiri” prima delle partite più importanti3.

Una simbiosi totale, infine, per creare un corpo unico, capace di qualsiasi impresa. Resta il pensiero totale della concezione calcistica di Enzo Bearzot:

Quando penso ai miei azzurri mi viene facile il paragone con un complesso musicale, con un’orchestra di jazz. Sarà perché a me piace il jazz, un tipo di musica che nasce dalla sofferenza, che deve essere eseguita con una intensa partecipazione […] Il calcio non è diverso dalla musica, anche in campo contano l’affiatamento e il cuore, l’estro e la grinta: al momento giusto ci sta bene un assolo, ma lo spartito devono conoscerlo bene tutti quelli dell’orchestra e alla fine gli applausi (o i fischi) vanno divisi fra tutti, in parti uguali4.

Queste le idee di un tecnico incompreso, all’inizio, accompagnato da flebili segnali di speranza, che gli venivano principalmente da chi, in quel momento, attraversava situazioni difficili come e più di loro. Al saluto, alla partenza della comitiva azzurra alla volta della Spagna, così diceva l’allora Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, il 1° giugno 1982:

Sono lieto per tre ragioni che semplicemente vi dico. La prima ragione è che spero, con la mia stretta di mano, di trasmettervi anche quel po’ di fortuna che ogni tanto qualcuno mi rimprovera […]. La seconda osservazione è da storico di professione, quale io sono. Ed è questa. C’è tutta una tendenza storiografica moderna che vede e scrive la storia non già sui fatti politici, ma sugli altri fatti, apparentemente minori ma, forse, più dei fatti politici, incidenti sulla vita quotidiana della gente. In altre parole, se voi vincerete il Mondiale, la memoria storica degli italiani del 1982 sarà molto più legata ai vostri nomi del Governo Spadolini. […] Voi avete, insomma, il compito di testimoniare, ai milioni di appassionati in Italia e nel mondo, che la virtù sportiva dell’Italia è viva e vitale e si riflette nella élite di una squadra, espressione di migliaia e migliaia di praticanti. Una virtù sportiva che dovrà esprimersi, prima ancora che nei risultati, nella volontà di lottare, nella lealtà del comportamento, nella disciplina di squadra, nel rispetto dei giudici. C’è un terzo e ultimo rilievo, che è molto più importante degli altri due. Io credo che in questo momento una squadra italiana che è in procinto di giocare un campionato al quale partecipano squadre di nazioni purtroppo in guerra tra loro, debba essere anche, in certa misura, messaggera di pace5.

Si arrivò in Spagna, per fortuna si iniziava a giocare, ma la stampa non dava tregua.

Verrebbe quasi da chiedersi se, tutto sommato, ne è valsa la pena: sulla carta, almeno – in campo, poi, si sa, può accadere di tutto, il calcio ha abituato gli appassionati ad ogni tipo di imprevisti – i due titoli conquistati dall’Italia negli anni Trenta appaiono destinati a fare la stessa figura del blasone del nobile squattrinato che si siede ad un tavolo di poker per vedersela con petrolieri e magnati dell’industria6.

Le premesse dell’immediata vigilia, infatti, non erano promettenti:

Presentimenti di spettacolo zero. Qualche schizzo di adrenalina nelle partitelle di allenamento, tutto il resto era noia. Voglia di finirla alla svelta in quel ritiro galiziano, in quell’hotel di Pontevedra che gli azzurri chiamavano “il carcere”, ma dove almeno arrivavano un po’ attutite le bordate dei giornali italiani che invitavano Bearzot a vergognarsi di quello che stava facendo. Eppure qualcosa si muoveva sotto quella cupola di atarassia apparente e incipiente. C’era l’anima del Vecio, di quel commissario tecnico che con uno sguardo e due parole riusciva a trasformare l’acqua in vino o un brocco in campione. Schizzi di veleno addosso alle maglie azzurre, fuoco amico anche dai vertici pallonari, un’amichevole da disperarsi a Braga risolta da una furbata di Graziani. E poi insulti, insulti, insulti…7

Infatti:

Timoroso di perdere il treno della critica e di ritrovarsi isolato in caso di eliminazione, Sordillo detta l’epitaffio: “Se questa è la squadra, meglio tornare a casa”. Bearzot incassa, trasforma il fiele in ricostituente8.

In mezzo a tutte queste funeree previsioni restavano solo le certezze e l’ostinazione del CT:

Solo Bearzot ha sempre manifestato per la sua nazionale il sentimento religioso della fede. In maggio, prima di partire per la Spagna, distribuiva queste dichiarazioni profetiche: “Credo nello spirito che ho infuso nel mio gruppo di giocatori. Sono convinto che forse soffriremo con Polonia, Perù e anche col Camerun, ma molto meno nella seconda fase. Sulla distanza trionferà la mia mentalità vincente. Il resto sono chiacchiere all’italiana, ma io di chiacchiere non ne faccio. Sono un italiano diverso”9.

I tre pareggi incolori con Polonia, Perù e Camerun, in un diminuendo di prestazioni, finirono per peggiorare le cose, il massimo che si chiedeva era di salvare almeno l’onore:

L’Italia è approdata a Vigo con una larva di squadra. […] Ma un consiglio a Bearzot e alla sua tremebonda truppa lo diamo ugualmente: nessuno vi chiede miracoli, del resto l’obiettivo massimo era di partecipare anche alla seconda fase. Ma fatelo onorando il calcio, al di là del risultato. Diventare campioni del mondo è un sogno irrealizzabile. Ma uscire dal Nou Camp di Barcellona a testa alta, questo sì, è possibile10.

Altrettanto critico, forse con toni più pacati, il commento di Lodovico Maradei al termine della gara con il Camerun che ci dava il pass per la seconda fase:

Oggi la nostra nazionale arranca tra mille stenti e già ci vengono i brividi a pensare a cosa potrà accadere nella seconda fase quando saranno al cospetto di Argentina e Brasile. Sono tempacci! Speriamo che a Barcellona il panorama cambi11.

Il dover incontrare i giganti del momento, l’Argentina campione in carica di Diego Armando Maradona e il Brasile campione designato dei vari Zico, Falcao, Socrates, esacerbò ulteriormente la critica, diventata “cattiva”, tanto da indurre al silenzio stampa tutto il team. Obiettivo principe sempre il CT, trattato alla stregua di un incapace.

Questa nostra nazionale azzurra è vittima non designata delle enormi inconcludenze del commissario tecnico, preso da panico interiore ma testardo al massimo dell’imprudenza. Egli è capace di riesumare segni di grandezza facendo perno su un giocatore di esperienza che possa assumere responsabilità di mutamenti in fase di pericolo, tipo Zoff, quarantenne, ma più esperto di lui in materia tattica. Si fa appello al solito stellone italico in caso di pericolo perché la squadra trovi vitalità o… fortuna. Avessimo con noi un Falcao, splendente di classe e di estro, la Patria calcistica sarebbe salva. Noi purtroppo ci affidiamo alla pallida ombra di un Rossi che fu e non sarà mai più quello delle prodezze argentine nel 1978 o di un Causio che è l’emblema attuale di un grosso giocatore da pensionare12.

E si continuava anche peggio:

In vista della prevedibile eliminazione azzurra, il fuoco incrociato dei cecchini della critica raggiunge punte di parossismo senza precedenti. Bearzot è stato dipinto come un minus habens: “Prima di assumere l’alto incarico di CT, trascorreva le sue giornate seduto al caffè che dà sulla piazza di Ajello del Friuli e quando passavano gli automobilisti esitanti, diretti a Udine o più oltre, e si fermavano per chiedere quale cammino seguire, il futuro CT si affrettava ad insegnare loro premurosamente la strada giusta, per cui gli fu unanimemente riconosciuto questa sua qualità di insegnante. Poi si sa cosa accade a chi, senza essere dotato di un robusto equilibrio, ha la ventura di percorrere una carriera vertiginosa: perde facilmente la testa”. Paolo Rossi gli siede accanto sulla graticola: “È una bestemmia mandarlo in campo. In queste condizioni un atleta si spedisce in montagna. C’è da chiedersi quali conoscenze di sport abbia gente convinta di poter cavare qualcosa da un atleta ridotto nelle condizioni di Rossi”13.

Poi, improvvisamente, tutto cambiò. Iniziò il cammino vincente, questo sì in un crescendo rossiniano, contro Argentina, Brasile, Polonia in semifinale, Germania Ovest in finale, tutte nel segno di un gioco entusiasmante e di un rinato Paolo Rossi. Proprio lui, il più attaccato dalla stampa insieme al CT, ridiventò l’implacabile Pablito già visto in Argentina, queste le sue parole verso colui, ad un certo punto l’unico, che aveva sempre creduto in lui, al termine del match contro il Brasile:

È finita! Subito guardo verso Bearzot, a lui devo molto, questa vittoria ai confini della realtà, questi momenti irripetibili li devo a lui, con quella giacca d’ordinanza a righine sulle spalle, la camicia azzurra fradicia, e quel volto talmente tirato dalla tensione che mi appare invecchiato di dieci anni. Un abbraccio, solo quello basta, non serve altro tra uomini che si stimano14.

Non serve altro tra un padre e un figlio, i suoi figli. Così come basta un bacio, il gesto d’affetto più semplice, diffuso ed efficace che ci sia, quello che Zoff diede sulla guancia di Bearzot uscendo dal campo dopo la sfida con il Brasile, a suggellare, e sigillare ancor di più il rapporto simbiotico tra quel gruppo di uomini e la loro guida.

Per una volta anche io persi la testa. Bearzot era un padre, e un capo. Lui non doveva prendere ordini da nessuno. E non chiedeva consigli; neppure a me. Il calcio è semplice. Tirare fuori una compagine di uomini, e guidarla, è difficile15.

La bontà del gioco azzurro, in quella roboante fase finale, in quelle quattro gare, fu sottolineata anche dalla stampa estera, in genere sempre severa nei confronti del calcio e della mentalità italiana. In particolare, sono proprio i tedeschi sconfitti in finale a tessere le lodi maggiori:

E gli italiani? Si potrà rimproverare loro di essere campioni del mondo di calcolo perché nel girone eliminatorio sono riusciti ad andare avanti con tre pareggi ed un solo goal segnato: ma ciò sarà dipeso soprattutto dal sistema di questo “Mundial”, ma non appena si è reso necessario vincere gli italiani, pur continuando a dedicare grandi attenzioni alla difesa, hanno trovato il coraggio di rischiare e un Paolo Rossi che malgrado la sospensione di due anni è riuscito a diventare il cannoniere dei mondiali con sei reti – per Jupp Derwall “un fenomeno incomprensibile” come l’intera squadra italiana. Gli azzurri non hanno soltanto pensato al successo, hanno offerto anche spettacolo, pur non facendo cose dell’altro mondo16.

E queste le parole di Gino Palumbo sulla “Gazzetta dello Sport”, a festeggiare il trionfo finale:

È indubbio che l’Italia che ha vinto il mondiale ’82 sia stata la migliore tra le formazioni che vi hanno partecipato. Essa, più che rappresentare il livello effettivo del nostro calcio, rappresenta il frutto del miracolo compiuto da un uomo, il tecnico Enzo Bearzot, e di un gruppo di giocatori uniti a lui, e in virtù sua tra di loro, da un vincolo di fiducia, di orgoglio, di totale solidarietà […]. C’è da credere che proprio il diffuso scetticismo da cui gli azzurri erano circondati abbia agito da pungolo per così sensazionale prova di carattere […]. In questa visione c’è un legame preciso con i mondiali del 1934 e del ’38: anche allora c’era molto scetticismo e Vittorio Pozzo, il tecnico dell’epoca, veniva contestato per la sua ostinata fiducia nei propri ragazzi, anche in quelli fuori forma, sin al punto di convocare per la nazionale giocatori ch’erano stati messi tra le riserve nelle squadre di appartenenza. Allo stesso modo agisce Bearzot quando resiste a chi vuole fuori squadra Rossi ancora disorientato dalla lunga inattività, ed aspetta, sicuro lui solo, che prima o poi Rossi, rinfrancandosi, lo ripagherà di quel legame, che evidentemente non è frutto di cieca ostinazione, ma di consapevole ragionamento e radicata fiducia […]. Quest’impresa che lo sport italiano, attraverso il calcio, regala al Paese – e che il Paese con ritrovato orgoglio festeggia – è carica di significati che vanno al di là del puro risultato agonistico: il vecchio giornalista, che vede sistemare nella vetrina della Federcalcio la coppa del 1982, al fianco di quelle che da ragazzo salutò esultante nel ’34 e nel ’38 non deve vergognarsi di avere gli occhi lucidi17.

Tutto l’apparato mediatico italiano, e la stampa in particolare, uscì in pratica delegittimato da quella vittoria. Bisognava ripartire da zero e ripensare tutto il modo di fare del giornalismo sportivo italiano, che non poteva essere solo figlio degli umori, ma doveva acquisire professionalità, uscire dal solo, pur importante, artigianato, ma soprattutto doveva acquisire rispetto per le persone, non cavalcare l’onda emotiva.

Molti giornalisti italiani hanno parlato di Bearzot in modo tale da rendere incredibili le ritirate strategiche e gli osanna attuali rivolti all’allenatore azzurro. Molti si erano posti il dilemma senza via d’uscita: o è uno stupido, o è in malafede. Si era cioè di fronte non ad una polemica su questa o quella scelta o soluzione tattica, ma si mettevano in discussione le capacità professionali, prima ancora di entrare in una disamina tecnica. Ora, se in Italia la parola coerenza avesse un significato, ci si sarebbe aspettato da parte dei critici più accaniti un riserbo oppure una ribadita fedeltà alle proprie convinzioni. […] Invece niente di tutto ciò è avvenuto18.

Sono le parole di Vladimiro Caminiti che indicano quella che sarebbe dovuta essere la nuova strada:

È stata sbagliata la prova d’arte degli scrittori di stato che tutti l’avevano detto essere una Nazionale da burletta in tutto degna del suo allenatore idealista e fuori dal tempo. […] È morto tutto un giornalismo e noi ci auguriamo che un altro ne nasca, più obiettivo, anche più amoroso, all’altezza del campionato con due stranieri che va a cominciare. Per parte nostra l’impegno sarà tetragono. Ma noi siamo idealisti come Bearzot19.

Di sicuro, se non cambiato, almeno il giornalismo sportivo italiano è diventato più cauto in sede di pronostici. L’importanza di quella vittoria si sarebbe riverberata anche sulla situazione politica del momento, rievocando un altro episodio sportivo che già in passato aveva contribuito a disperdere pericolosi venti di guerra civile. Ci riferiamo al 1948, alle tumultuose ore seguite all’attentato a Palmiro Togliatti e alla vittoria di Gino Bartali al Tour de France. Ora toccava a Paolo Rossi, a Enzo Bearzot, agli Azzurri, il ruolo di salvatori della Patria, ridando vigore al governo Spadolini, la cui caduta paventava pericolosi segni di instabilità sociale. Questo diceva lo stesso Spadolini ricevendo i Campioni del Mondo al rientro dalla Spagna:

Milioni di italiani hanno seguito, in questi giorni, con una attenzione gioiosa che solo spiriti grevi e chiusi non riescono a comprendere, una vicenda di sport nella quale la cosa che più incuriosisce e fa riflettere è stata appunto la capacità di un gruppo di atleti italiani di ritrovare di colpo una intesa collegiale e un giuoco collettivo che sembravano irrimediabilmente smarriti20.

Augurando a tutto il popolo italiano, ma soprattutto alla sua “squadra” politica, di ritrovare gli stessi ideali. Resta da capire la reazione, quali pensieri attraversarono la mente del tanto vituperato Enzo Bearzot.

Nessuna rivalsa, mi sarebbe piaciuto solo lavorare nel rispetto degli uomini e delle idee, cosa che io ho sempre fatto, al contrario di parte della stampa nei nostri confronti. Non dimentico. Quando le critiche diventano offese sul piano personale non ci sto più21.

Parole in linea con il personaggio, quasi troppo colpito nel suo intimo per riuscire a gioire per la vittoria:

Si è scatenato il gran Carnevale delle feste, degli inviti, degli abbracci, di tutto un cerimoniale molto chiassoso e poco sincero che voleva presentarci tutti gli italiani nelle vesti di cari, convintissimi amici. Tutto questo Carnevale a me ha dato tanta tristezza. E di questo Mundial ricordo soprattutto i momenti difficili, amari. Perché secondo me nella vita di tutti noi sono proprio le sofferenze a lasciare i segni più profondi, a segnare la nostra esistenza, a risultare veri e propri banchi di prova per il carattere degli uomini. […] Perciò mi sono rimasti dentro, in maniera indelebile, gli affanni delle vigilie, i timori per le avversità da superare, le tensioni di fronte alle critiche crescenti, alle difficoltà psicologiche, che tanta gente ci creava e non solo da fuori22.

Con queste altre parole, infine, il Vecio dà il suo senso alla vittoria spagnola:

Per carattere non mi sono mai crogiolato nella vittoria. Sono uno di quelli che quando raggiunge un traguardo si rende conto di avere già intrapreso un’altra strada. È così la vita, purtroppo, non solo il calcio. Di sicuro di quei giorni la cosa che mi resta più viva, e lo sarà sempre, è l’affetto che mi lega a quella Nazionale, a quei ragazzi, che rimangono sempre i miei ragazzi. Uomini con i quali abbiamo lottato, sofferto e gioito, per un grande obiettivo. E, nonostante tutte le difficoltà, lo abbiamo raggiunto: è una vittoria tutta italiana23.

L’orgoglio di un italiano, e l’attaccamento ai suoi ragazzi, i Figli di Bearzot. Restano, concludendo, le immagini di un trionfo insperato, le istantanee della gioia che rimangono per sempre impresse nelle pagine della Storia: le esultanze del Presidente della Repubblica, Sandro Pertini; l’urlo dirompente, irrefrenabile, liberatorio, di Marco Tardelli in corsa sfrenata per il campo, dopo la realizzazione della seconda rete in finale; le mani di Dino Zoff, il taciturno capitano, diventato ciarliero per la Patria, mani immortalate per l’eternità da Renato Guttuso, mani che sollevano la Coppa del Mondo, mani che non sono di un solo uomo, non di una squadra, ma di un intero popolo; Enzo Bearzot, il Patriarca, il Vecio, il Testardo, l’Idealista, portato in trionfo dai suoi ragazzi, i Figli di Bearzot. Affido la conclusione di questa storia, oltre che alle parole del suo protagonista e alle immagini sopra, a Italo Cucci, che in questo suo articolo dà il senso finale di quella vittoria:

Se qualcuno, poi, indagando su questi giorni di italica follia collettiva, si stupirà, o addirittura proverà compassione per un popolo ch’era arrivato a esaltarsi per una vittoria nel gioco del pallone, se approfondirà la ricerca dei motivi che l’hanno provocata, scoprirà una verità molto semplice: l’undici luglio del 1982 è successo quello che tanti – in Italia – si attendevano da tempo. È arrivata una buona notizia. È arrivata dalla Spagna, da Madrid, una notizia diversa da quelle che tutti gli italiani si erano abituati a inghiottire ogni giorno, i bocconi amari di un’amara esistenza. L’Italia mundial, l’Italia tre volte campione: una buona notizia che non va dimenticata24.


Note

1 E. Bearzot, Il calcio Mundial, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1986, p. 102.

2 Ibidem.

3 Ivi, p. 103.

4 Ivi, p. 115.

5 Spadolini e gli “Azzurri”, in Vita Italiana, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ottobre 1982, p. 3.

6 M. Guizzi, E adesso le super-stars, in “Il Corriere della Campania”, 26 giugno 1982.

7 A. Facchinetti, E. Palladini, J. Sica, Football City Guida Madrid, Dolo (Ve), Ed. In Contropiede, 2019.

8 A. Caruso, Un secolo azzurro, Milano, Longanesi, 2013, p. 391.

9 G. Perrelli, Bearzot: vi ho rifatto l’Italia, in “L’Europeo”, n. 2, aprile 2002.

10 M. Romano, Una frittata all’italiana, in “Il Corriere della Campania”, 26 giugno 1982.

11 L. Maradei, Abbiamo raggiunto l’obiettivo minimo, in “La Gazzetta dello Sport”, 24 giugno 1982.

12 C. di Nanni, L’ombra di Pablito e la stella di Maradona, in “Il Corriere della Campania”, 26 giugno 1982.

13 La Rivincita del Vecio, “Calcio 2000”, n. 7, aprile 1998.

14 P. Rossi, Ho fatto piangere il Brasile, Arezzo, Limina Edizioni, 2002, p. 134.

15 A. Cazzullo, Italiani: Dino Zoff, in “Il Corriere della Sera”, 6 novembre 2016.

16 O. Schmidt, Frankfurter allgemeine Zeitung fur Deutschland, 13 luglio 1982: L’Italia e Rossi per Derwall un fenomeno incomprensibile, in “Tribuna Tedesca”, n° 244, 28 luglio 1982.

17 G. Palumbo, Bearzot come Pozzo, in “La Gazzetta dello Sport”, 12 luglio 1982.

18 A. Gianfreda, L’italiano di sempre, in “Il Corriere della Campania”, 13 luglio 1982.

19 V. Caminiti, “Questa Nazionale ci ha insegnato a vivere”, in Campioni del Mondo, Edizioni “Gazzetta dello sport”, 2012, p. 1.

20 Spadolini e gli “Azzurri, in Vita Italiana, cit., pp. 4-5.

21 Rossi, Ho fatto piangere il Brasile, cit., p. 159.

22 Bearzot, Il calcio Mundial, cit., p. 42.

23 Ibidem.

24 Italo Cucci, Una buona notizia, in Il libro d’oro del Mundial, speciale del “Guerin sportivo”, 1982, p. 3.